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CONSULENZA FILOSOFICA. In un mondo dove tutti e tutte (compreso il Papa! ) vendono a caro-prezzo ("caritas") tutto, chi ha più il coraggio ("Sàpere aude!") di amare ("charitas")?! Questo è il problema: LA FELICITA’ NON COSTA NIENTE!!! Una riflessione di Salvatore Natoli

giovedì 12 ottobre 2006 di Federico La Sala

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giovedì 12 ottobre 2006

Consolazioni

Clienti disperati cercasi per idee a buon mercato

In una sorta di manuale scritto da Peter B. Raabe e titolato «Teoria e pratica della consulenza filosofica» l’interlocutore diventa «cliente» e il procedimento discorsivo imita il fare terapeutico Segno emblematico di illusioni adatte alla mercificazione, la «consulenza filosofica» è al centro di un libro scritto da Pier Aldo Rovatti con l’intento di correggere le derive del «professionismo»

di Marco Bascetta (il manifesto, 10.10.2006)

Tra convegni, pubblicazioni, interviste e interventi sulla stampa quotidiana, la «consulenza filosofica», promossa da illustri cattedratici, trasfusa in master e specializzazioni, sembra avviarsi, anche in Italia, a un’espansione senza resistenze. Nella convinzione, del tutto indimostrata, ma ideologicamente saldissima, di incontrare il favore del mercato e una crescente domanda. Si immaginano così aziende interessate all’intervento del filosofo per motivare i propri dipendenti, singoli delusi dalle psicoterapie rivolgersi alla «consolazione della filosofia» e, magari, committenze pubbliche che affianchino, per esempio nelle carceri, al prete e all’assistente sociale, il consulente filosofico. Per quanto improbabili, questi scenari vengono sconsideratamente venduti sul mercato della formazione e delle illusioni occupazionali. Non varrebbe nemmeno la pena di tornare sull’argomento se la «consulenza filosofica» non rappresentasse un segno emblematico del nostro tempo e, più precisamente, della sua mercificazione.

Obiettivi scambiati per pericoli

È in questo contesto, e con l’intento di correggere tempestivamente le possibili derive del «professionismo filosofico» che Pier Aldo Rovatti dedica un agile, intelligente volumetto La filosofia può curare? (Cortina, pp. 99, Euro 9) alla «pratica» della filosofia e cioè a quel possibile uso del pensiero critico che non è solo approfondimento e trasmissione delle conoscenze, ma costruzione del sé e resistenza contro i poteri disciplinari e i dispositivi dello sfruttamento. Strana operazione, quella di Rovatti, tanto che al termine della lettura e proprio in virtù delle sue argomentazioni, si è portati ad escludere che la filosofia come «consulenza» pratica, con un qualche valore critico, possa mai esistere.

Infatti proprio quelli che Rovatti indica come i pericoli e le derive della «consulenza filosofica» sono precisamente gli obiettivi che i sostenitori della «professione» si propongono. Basta andarsi a sfogliare qualcuno dei trattati-manuali che cominciano a circolare nel panorama editoriale italiano. In primo luogo Rovatti, che segue l’impianto foucaultiano della «cura di sé», insiste su una decisa presa di distanza dalla «dimensione autoritaria e coercitiva della cultura terapeutica» che oggi si presenta più frequentemente come ragionevole e ragionato «invito all’autolimitazione», come riconquista di un equilibrio «sano» e dunque pacificato. Fatto sta che i teorici della «consulenza filosofica» non mostrano alcuna inclinazione a distinguersi, quanto al «gioco di potere», dagli psicoterapeuti. E Foucault, come Rovatti stesso rileva, è un autore del tutto ignorato dai cultori della professione. Sarà un caso? Se dunque l’autore ha in mente una foucaultiana «politica della soggettività» dovrebbe percepire come fumo negli occhi quella idea di «professione», di «lavoro produttivo» di «funzionalità», che sta al centro del progetto della «consulenza filosofica» e agli antipodi del pensiero critico e della sua pratica politica. «La politica della filosofia - scrive Rovatti - comporta infatti una respirazione-contro, non semplici spazi per riflettere meglio ma per indirizzare il pensiero proprio contro quella cultura aziendale che ti chiede, perfino con l’offa della filosofia, di essere più riflessivo, cioè più produttivo». È una formulazione pienamente condivisibile. Ma per quale ragione le aziende, corteggiate dai consulenti filosofici e continuamente invocate nelle pubblicità dei relativi master, dovrebbero mettersi simili serpi in seno? La filosofia, come esercizio critico e come pratica di resistenza è del tutto incompatibile con l’idea di «professione», di «consulente», di terapeuta, di specialista retribuito. La si potrà vedere all’opera nei seminari autogestiti delle università occupate, nelle riviste, nei numerosi dibattiti in centri sociali e collettivi politici, perfino nelle scuole e nelle università nelle quali la rassegnazione, la noia, la routine e la riforma Zecchino-Berlinguer non abbiano finito di devastare le menti, piuttosto che nello studio di un consulente, con il busto di Socrate sulla scrivania e la parcella nel cassetto.

In una sorta di manuale, appena uscito per le edizioni Apogeo, scritto da Peter B. Raabe e titolato Teoria e pratica della consulenza filosofica, (pp. 330, Euro 18) l’interlocutore del filosofo è definito «cliente» e la procedura discorsiva segmentata per fasi predefinite che scimiottano per filo e per segno il procedimento terapeutico. Il resoconto dei casi concreti, al termine del volume, rivela una farraginosa evoluzione, condita di qualche dotta citazione, della «posta del cuore». Ecco dunque il folto menu di «arte della vita» che la «consulenza filosofica» sottopone al cliente: «la consulenza matrimoniale, il lutto, il lavoro pastorale, la consulenza accademica e l’attenuazione dei problemi, la consulenza sulla carriera e il management consulting, lo sviluppo dell’autostima, questioni e problemi di autoidentità, problemi religiosi o spirituali, questioni esistenziali o relative al senso della vita, problemi di acculturazione, problemi specifici di certi periodi della vita o della mezza età, questioni sociali e politiche, problemi interpersonali, familiari, intergenerazionali sia di gruppo sia individualmente, sensi di colpa, depressione, rabbia e così via, associati ai problemi che abbiamo elencato, o derivanti da questi».

Di tutto, dunque, ma dominato, nell’elencazione stessa delle possibili «prestazioni filosofiche», più dalle tonalità dell’adattamento, dell’equilibrio, della ricomposizione, che da quelle della critica e del conflitto. In questi panni ci si vede più Francesco Alberoni che Michel Foucault. Siamo in una dimensione del tutto antitetica alla «politica della soggettività», a quell’esperienza critico-pratica del pensiero, rivendicata da Rovatti contro l’autorecinzione accademica della filosofia. La spiegazione dei caratteri che dominano la teoria e la pratica della consulenza filosofica, nonché l’interesse delle «aziende» universitarie per questa nuova merce formativa, risiede nella sua genealogia, nelle circostanze e nel tempo storico in cui compare sulla scena.

La consulenza filosofica nasce nella Repubblica federale tedesca nel 1981 ad opera di Gerd B. Achenbach e trova fertile terreno nel mondo anglosassone. Due sono i fattori che ne determinano la nascita. Il primo, evidente, è la disoccupazione intellettuale di massa, vissuta come patologia sociale piuttosto che come crisi di sistema. Il secondo è l’affermarsi della produzione immateriale, l’immissione delle facoltà intellettuali, delle sensibilità individuali, delle esperienze e delle capacità relazionali nel dispositivo della produzione e dell’accumulazione del profitto. O meglio, la percezione distorta, acritica quando non apologetica, di questi fenomeni. È appunto negli anni ’80, durante la cosìddetta «svolta linguistica» dell’economia, che si affermano concetti (meglio ideologie) come «capitale umano» o «professionalità», formula applicata alle occupazioni più improbabili, come principio di disciplinamento produttivo «universale» in quanto non limitato ad alcun contenuto specifico, come invece accadeva per le vecchie concrete professioni. Condizioni, queste, assolutamente proprie della postmodernità e all’interno delle quali è del tutto privo di senso evocare Socrate, Epicuro, Seneca e altri mostri sacri della filosofia antica (curiosamente non si citano mai i sofisti che, se non altro per la loro inclinazione mercenaria, sarebbero più strettamente imparentati con i nostri consulenti). Il consulente filosofico si sviluppa, seppur con minore fortuna, probabilmente per la sua discutibile utilità, insieme con addetti alle pubbliche relazioni e pubblicitari, psicologi aziendali e «creativi» d’ogni genere, consulenti finanziari e animatori dei villaggi-vacanze, conduttori di Talk show ed «esperti di immagine».

Una pratica fuori mercato

Insomma, fino allora i filosofi avevano interpretato il mondo, ora si trattava di metterli al lavoro, ben guardandosi dal cambiarlo. E, tuttavia, nonostante questo fiorire di «professionalità» immateriali, il mondo non pullula di filosofi che campino delle loro consulenze. Sarà perché è l’agente di borsa ad avere maggior dimestichezza con la metafisica applicata e sono Beppe Grillo o Adriano Celentano a incarnare la filosofia morale del presente, sarà perché la filosofia (ormai di ogni stilista, di ogni strategia di marketing, di ogni discoteca o agenzia di viaggi si dice che abbia la sua «filosofia») a tutto serve tranne che a fare «il filosofo», come che sia il consulente non decolla.

Una minima percezione del tempo in cui viviamo dovrebbe sconsigliare l’invenzione di un nuovo specialismo nel generale tramonto degli specialismi. Ed è sconsolante vedere prestigiose università e illustri accademici vendere agli studenti siffatte fandonie. Allora ben venga la strada indicata da Rovatti, ma con la consapevolezza che l’esercizio del pensiero critico, la cura di sé e degli altri, non è una professione, ma la pratica che tutte le scardina, non sta nel mercato ma lo eccede. E se non rende niente, pazienza. L’astuzia della ragione trova sempre il modo di sbarcare il lunario.


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