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Van-gélo ... o ... Eu-angélo!? Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!

Verona. IV Convegno Ecclesiale della Chiesa Cattolica. Prolusione del Card. Dionigi Tettamanzi. Già dall’inizio, quasi un aut-aut. La parola del Dio-"Caritas" (Mammona) o la Parola del Dio-"Charitas" (Amore)?!

mercoledì 18 ottobre 2006 di Federico La Sala
[...] E ora l’ultima parola. Non è da me, ma viene da lontano, dall’Oriente, da un vescovo martire dei primi tempi della Chiesa, da sant’Ignazio di Antiochia. Desidero che la sua voce risuoni in questa Arena e pronunci ancora una volta una parola d’estrema semplicità, ma capace di definire nella forma più intensa e radicale la grazia e la responsabilità che come Chiesa in Italia chiediamo di ricevere da questo Convegno.
E che, per dono di Dio, il cuore di ciascuno di noi ne sia toccato e (...)

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> Verona. Quarto Convegno Ecclesiale della Chiesa Cattolica. Prolusione del Card. Dionigi Tettamanzi. Già dall’inizio, quasi un aut - aut: "Caritas" (Mammona) o "Charitas" (Amore)?!

martedì 17 ottobre 2006

LO “SCHIAFFO” DI VERONA

Il card. Tettamanzi scende nell’Arena

di Alberto *

A questo momento non è dato sapere quali reazioni e quali riflessi possa avere la prolusione di apertura al Convegno di Verona del card. D.Tettamanzi, e staremo a vedere. Proprio per questo, ad evitare che tutto venga diluito nel catino celebrativo che l’Arena presenta, è bene dire e avere presente che il cardinale è sceso nell’arena, magari giocando di fioretto ma assestando colpi decisivi. Quell’antitesi dialettica che si sperava “contra spem” è emersa prima ancora del previsto, addirittura in partenza. Una esegesi diversa della prolusione inaugurale forse è possibile, ma forse anche sospetta: e sarebbe certamente un bene per tutti dire le cose come stanno.

Per la verità, ascoltando in diretta le parole di Tettamanzi - un po’ distrattamente - si aveva l’impressione che ricalcasse l’impostazione aprioristica della Traccia del Convegno, forse perché condizionato nell’ascolto dall’apparato e dallo scenario celebrativo di una chiesa trionfante più che peregrinante, una chiesa fatta di segni più che essere segno essa stessa, un massimo di sacralità in ambiente laico. Rileggendo dopo quelle parole, la sensazione è invece che lì c’è una svolta, o meglio una ripresa di continuità col Concilio, anche se l’impianto del discorso è volutamente e apparentemente, per forza di cose, quello della Traccia. “Venenum in cauda” si potrebbe dire! La citazione finale di S.Ignazio d’Antiochia - accuratamente introdotta - appare come capovolgimento totale della prospettiva imperante: «Quelli che fanno professione di appartenere a Cristo si riconosceranno dalle loro opere. Ora non si tratta di fare una professione di fede a parole, ma di perseverare nella pratica della fede sino alla fine. È meglio essere cristiano senza dirlo, che proclamarlo senza esserlo» (Lettera agli Efesini). E questo dopo o all’interno di una maxi-liturgia che metteva in primo piano la dimensione celebrativa rispetto a quella del discernimento e del dialogo.

Cogliendo qua e là altre pacifiche “stilettate” ecco un riferimento allo stile del Concilio e a Paolo VI: “È proprio questo lo stile del Vaticano II, verso cui il nostro Convegno rilancia il suo ponte di raccordo, accogliendo in modo convinto e rinnovato il testimone che i Padri conciliari hanno consegnato al mondo nel loro “congedo”: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore. Perciò essa si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia» (Gaudium et spes, n. 1). A ricordarci questa consegna strategica del Concilio alla Chiesa e al mondo è Paolo VI, che nell’omelia di chiusura lo difendeva dall’accusa di «un tollerante e soverchio relativismo al mondo esteriore, alla storia fuggente, alla moda culturale, ai bisogni contingenti, al pensiero altrui» (EV I 454*), ne esaltava l’atteggiamento «volutamente ottimista» e lo indicava in modo programmatico come stile tipico della Chiesa: «Una corrente di affetto e di ammirazione - diceva il Papa - si è riversata dal Concilio sul mondo umano moderno. Riprovati gli errori, sì; perché ciò esige la carità, non meno che la verità; ma per le persone solo richiamo, rispetto ed amore. Invece di deprimenti diagnosi, incoraggianti rimedi; invece di funesti presagi, messaggi di fiducia sono partiti dal Concilio verso il mondo contemporaneo: i suoi valori sono stati non solo rispettati, ma onorati, i suoi sforzi sostenuti, le sue aspirazioni purificate e benedette» (EV I 457*).

Altra felice citazione utile a relativizzare la realtà storica della Chiesa: “Potremmo dire che, connotata dalla tensione escatologica, la comunione ecclesiale può ritrovare l’umiltà e la conversione di fronte alle sue diverse forme di lacerazione, può farsi più ricca di vigilanza e di desiderio e di slancio operativo, può aprirsi all’audacia profetica di una singolare libertà e di una grande snellezza nei suoi cammini e passi nelle varie vicende storiche. Cito dalla Lettera apostolica Orientale Lumen: «Se la Tradizione ci pone in continuità con il passato, l’attesa escatologica ci apre al futuro di Dio. Ogni Chiesa deve lottare contro la tentazione di assolutizzare ciò che compie e quindi di autocelebrarsi o di abbandonarsi alla tristezza. Ma il tempo è di Dio, e tutto ciò che si realizza non si identifica mai con la pienezza del Regno, che è sempre dono gratuito» (n. 8).

E con senso di realismo e consapevolezza, si dice: “Se è così, non è allora esagerato dire che l’evangelizzazione e la fede si ripropongono oggi con singolare acutezza come il “caso serio” della Chiesa. Di qui l’urgenza di tenere viva la preoccupazione per la “distanza” che esiste tra la fede cristiana e la mentalità moderna e contemporanea. Senza dimenticare, peraltro, che una simile distanza - sia pure in forme e gradi diversi - ha sempre segnato la vita della comunità cristiana, e ancor più ha segnato e continua a segnare il cuore di ogni credente, che nella prospettiva di san Giovanni è pur sempre un incrocio di fede e di incredulità, di sequela del Vangelo e di arroccamento su se stessi e sul proprio egoismo. Ma la grande sfida pastorale rimane in tutta la sua gravità: come eliminare o attenuare questa “distanza”?

Si insiste di continuo sul “cammino spirituale-pastorale-culturale della nostra Chiesa”, così come si parla di “fede professata-celebrata-vissuta”. E questa volta ci si interroga in maniera molto diretta, in modo che chi ha orecchi per intendere intenda: “Non potrebbe incominciare da qui una specie di ’seconda fase’ del progetto culturale in atto nella nostra Chiesa? Una fase che rimetta al centro la persona umana e il suo bisogno vitale e insopprimibile, appunto la speranza, come rilevava in modo incisivo sant’Ambrogio dicendo che «non può essere vero uomo se non colui che spera in Dio» (De Isaac vel anima, 1,1)? Forse è possibile un’analogia: come la Dottrina Sociale della Chiesa e la conseguente prassi hanno la persona umana come principio fondativo e architettonico dei loro più svariati contenuti, così l’azione spirituale-pastorale-culturale della Chiesa potrebbe strutturarsi in riferimento alla centralità della persona umana, nella sua dignità di immagine viva di Dio in Cristo e nella concretezza delle sue situazioni e relazioni quotidiane”.

Possono bastare questi passi, per convincersi che ci troviamo davanti ad una “inversione ad U” per rientrare in un percorso o smarrito o abbandonato: quello segnato dal Concilio. Mi è sembrato importante lanciare questa segnalazione, perché non ci sfugga che un principio o processo dialettico è stato riattivato dentro la Chiesa e tutti possiamo farci sentire.

Alberto

Articolo tratto da:

FORUM (26) Koinonia

http://utenti.lycos.it/periodicokoinonia/

___ *

www.ildialogo.org, Martedì, 17 ottobre 2006


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