Erasmo, un Sileno per l’Europa
Il ritratto di Carlo Ossola del grande uomo del Rinascimento, maestro di saggezza e di equilibio nel secolo dei conflitti religiosi
di Massimo Firpo (Il Sole-24 Ore, Domenica, 22.02.2015)
Frutto di un corso tenuto al Collège de France nel 2012-13 e pubblicato nel 2014 in francese, il saggio di Carlo Ossola - illustre collaboratore di questo supplemento - offre una rivisitazione di alcuni nodi del pensiero erasmiano nel solco della riflessione che sul grande umanista fiammingo si svolse nel «notturno d’Europa», e cioè nel cupo entre-deux-guerre dominato dai totalitarismi nazi-fascisti.
Non una sintesi del pensiero erasmiano, e tantomeno una biografia, ma pensieri e suggestioni su Erasmo e i suoi rapporti con altri grandi protagonisti dell’età sua: Lutero, Rabelais, Machiavelli. Pochi anni, per esempio, separano il Principe (1513) dall’Institutio principis christiani (1516), ma un vero e proprio abisso separa la spregiudicata teorizzazione politica del primo dall’umanesimo cristiano del secondo, anche perché l’uno scriveva nell’Italia «più stiava che li Ebrei, più serva ch’e’ Persi, più dispersa che li Ateniensi, sanza capo, sanza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa», e l’altro per Carlo V d’Asburgo che si accingeva a cingere la corona imperiale e diventare signore di mezzo mondo.
Eppure molto probabilmente fu dagli Adagia del grande umanista fiammingo, la celebre antologia di detti e proverbi degli antichi, che Machiavelli desunse l’immagine della «golpe» e del «lione» quali metafora della forza e dell’astuzia che i detentori del potere devono imparare a usare e dosare, senza farsi troppi scrupoli sulla loro liceità. Ma anche riflessioni e suggestioni sulla eredità di Erasmo, sugli usi (e talora abusi) tra Cinquecento e Ottocento del suo immenso lascito intellettuale e, non senza vivaci spunti polemici, sulla storiografia novecentesca.
Scritte in punta di penna, attraversando con elegante disinvoltura secoli e frontiere della cultura europea, le pagine di Ossola sono tutt’altro che neutrali nel presentare un Erasmo non solo maestro inarrivabile di sapere, di erudizione, di moralità desunta da una tradizione classica profondamente introiettata, ma anche maestro di equilibrio, di saggezza, di moderazione, di «riservatezza, sobrietà, armonia» (p. 14) di fronte alle drammatiche fratture religiose che si stavano aprendo sotto i suoi occhi e che in un breve volgere di anni avrebbero diviso la res publica christiana (l’universo cosmopolita nel quale egli si muoveva a proprio agio) e innescato guerre, controversie, conflitti destinati a durare per secoli all’insegna del fanatismo e dell’odio teologico.
Invano nel 1533, tre anni prima di morire, egli avrebbe scritto il De amabili Ecclesiae concordia, un accorato appello all’unità dei cristiani, nonostante in passato egli fosse stato il critico più severo dei frati accidiosi e corrotti, dei prelati di curia insensibili a ogni istanza riformatrice, dei pontefici impegnati a combattere con le armi in pugno invece che a predicare il vangelo, di un cattolicesimo superstizioso fatto di gesti ripetitivi e pratiche simoniache.
Ma al tempo stesso non aveva mancato di rinfacciare a Martin Lutero gli sconquassi che stava causando e di attaccarlo sulla questione del libero arbitrio in cui a suo avviso si radicavano la dignità e responsabilità morale della natura umana. Fu lo stesso riformatore sassone, nelle sue rabbiose risposte, a dargli atto di aver affrontato una questione ben più significativa di quelle dei tanti controversisti cattolici che insistevano su temi secondari e a riconoscere che solo Erasmo era stato «il lupo capace di morderlo alla gola».
Erede di una tradizione che proprio al Collège de France ha avuto predecessori illustri come Augustin Renaudet, autore tra l’altro di un Erasme et l’Italie, e Marcel Bataillon, cui si deve quell’Erasme et l’Espagne ormai diventato un classico della storiografia, ma anche di Pierre de Nolhac, di Johan Huizinga, di Stephan Zweig, Ossola addita in Erasmo un grande maestro della cultura occidentale e della moderna identità europea proprio nella misura in cui nell’età sua egli fu sconfitto, aspramente attaccato e talora deriso dai protestanti come un traditore del vangelo e un infingardo opportunista, ma anche condannato senza appello e messo all’Indice dall’ortodossia romana. Per questo lo affianca spesso ad altre figure d’eccezione, come il suo amico Tommaso Moro (evocato anche nel titolo dell’Elogio della pazzia, in latino Moriae encomium) o Michel de Montaigne.
Ne scaturisce il profilo di «un Rinascimento critico che li pone al di sopra della querelle della Riforma» (p. 11), di «un Cinquecento che non si lasciò irretire dalle contese religiose, che tolse all’eredità classica i paludamenti aulici e alla tradizione patristica i tratti apologetici per andare a fondo nell’esame della condizione umana» (p. 13), nutrito della consapevolezza che la verità si manifesta «in progresso di tempo, vive nella e attraverso la storia» (p. 22) e si basa sulla filologia, la discussione libera e franca, il rispetto reciproco, il «rovesciamento costante della doxa nel paradosso» (p. 47), e non su incontrovertibili certezze dogmatiche e ottusa intolleranza. Per questo Erasmo piacerà a Voltaire, impegnato nella strenua battaglia contro l’infâme delle conversioni forzate e delle persecuzioni religiose.
È un’immagine classica di Erasmo, non a caso affermatasi soprattutto negli anni più cupi della storia dell’Europa novecentesca, quando all’autore del Lamento della pace e del Dolce è la guerra a chi non la conosce si poteva guardare come a un faro della civiltà che rischiava di essere travolta da brutali tirannie e aberranti ideologie destinate inevitabilmente a precipitare in guerre atroci e devastanti.
Ma ad essa occorre affiancare anche un’altra immagine, quella cui rinvia uno degli emblemi di Erasmo, i Sileni, le mitiche divinità silvestri che nascondevano sotto sembianze grottesche tesori di saggezza, riprodotte nell’antichità in piccole raffigurazioni scultoree che potevano essere aperte per scoprire al loro interno immagini divine. Una sorta di metafora della doppiezza, del segreto, dell’andare oltre la scorza delle cose per indagare verità più profonde, e perciò stesso più inquietanti ed eversive, da trasmettere e divulgare con cauta prudenza.
Lo stesso Cristo - scriveva Erasmo - era stato uno «straordinario Sileno» (p. 33). Sotto la silenica maschera erasmiana fatta di moderazione ed equilibrio, infatti, si cela anche un pensatore radicale, che nel condannare le astiose controversie teologiche insinuava il dubbio che le certezze religiose per cui si combatteva e si ammazzava alla fin fine fossero di scarsa rilevanza e poco avessero a che fare con il vangelo di Gesù Cristo. Lasciava intendere insomma che il fondamento della fede risiede solo e soltanto nella coscienza del credente e che la sua autenticità si misura sull’amore del prossimo e non sull’obbedienza a un codice immutabile di verità dottrinali e alle gerarchie ecclesiastiche che nei diversi contesti si attribuiscono il diritto di esserne gli unici e supremi custodi.