In cammino con Dante/11.
La noia di Satana, capace solo di essere una parodia del bene
Dante descrive «lo ’mperador del doloroso regno» come il negativo della Trinità. Dalla sua tristezza glaciale molti autori sapranno trarre spunto per i loro inferni
di Carlo Ossola (Avvenire, domenica 30 maggio 2021)
«Vexilla regis prodeunt inferni»: l’inizio del canto XXXIV e ultimo dell’Inferno è solenne e araldico: «Avanzano i vessilli del re dell’inferno», rovesciamento in eco parodica di un inno di Venanzio Fortunato, cantato il venerdì santo sulla croce del sacrificio: «Vexilla regis prodeunt,/ fulget crucis mysterium,/ quo carne carnis conditor/ suspensus est patibulo» [«Avanzano i vessilli regali / rifulge il mistero della croce, / al cui patibolo il creatore della carne / con la propria carne fu elevato»].
È un incipit memorabile, di grande forza teologica: il male non sa essere che la parodia degradante del bene; e di profonda iconicità metaforica. Nessuno meglio che Ignazio di Loyola seppe riscriverlo, nei propri Esercizi spirituali: «Quarto giorno. Meditazione su due bandiere, l’una di Cristo, nostro sommo capitano e Signore, l’altra di Lucifero, nemico mortale della nostra natura umana. [...] Il secondo preludio è la composizione vedendo il luogo: qui sarà vedere un grande campo nella regione di Gerusalemme, dove Cristo nostro Signore è il capo supremo dei buoni, e un altro campo nella regione di Babilonia, dove Lucifero è il capo degli avversari. [...] Immagino nel vasto campo di Babilonia il capo degli avversari, che siede su un grande seggio di fuoco e di fumo, orribile e spaventoso nell’aspetto». Un «seggio di fuoco e di fumo»: come non pensare al dantesco: «Come quando una grossa nebbia spira» (XXXIV, 4)?
Sebbene Lucifero sia precipitato, la sua metamorfosi abietta, Satana, è sempre in campo: Dante lo ricorda, sulla scia del Pater noster: «et ne nos inducas in temptationem»: "non sottoporci alla prova", al cimento col Maligno, «cioè non permettere che noi commettiamo una colpa tale per cui si debba meritatamente precipitare in inferno» (Onorio d’Autun, Speculum ecclesiale, PL, 172, 822C). Nella figurazione di Dante balugina, per un sol verso, il ricordo della figura angelica che fu Lucifero: «la creatura ch’ebbe il bel sembiante» (v. 18); la fulminea trasformazione di quell’istante fatale è per il poeta acuto tormento: «S’el fu sì bel com’elli è ora brutto, / e contra ’l suo fattore alzò le ciglia, / ben dee da lui procedere ogne lutto» (vv. 34-36).
L’apparire del signore di Dite lascia Dante come in uno stato di paralisi: «Com’io divenni allor gelato e fioco / nol domandar, lettor, ch’i’ non lo scrivo, / [...] / Io non mori’ e non rimasi vivo» (vv. 22-25), non dissimile dallo svenimento che coglie Dante di fronte al dramma di Paolo e Francesca: l’estremo amore e l’estrema abiezione dell’umano. Solo nel poemetto drammatico di Vladimir Holan (Praga 1905-1980), Una notte con Amleto, il dilemma torna con pari intensità: «riceve la luce, eppur non brilla».
Contraffazione della plenitudine della Trinità, l’ormai Satana, stretto nella morsa del ghiaccio, ha «tre facce a la sua testa», sotto le quali da ciascuna «uscivan due grand’ali, / [...] / Non avean penne, ma di vispistrello / era lor modo; e quelle svolazzava, / sì che tre venti si muovean da ello: / quindi Cocito tutto s’aggelava» (vv. 46-52). L’enorme cieco pipistrello del male muove quelle ali / pale che perennemente alimentano e consolidano il ghiaccio di cui è prigioniero: primo Héautontimorouménos (Baudelaire) di se stesso e dell’umanità: «Sono la piaga e il coltello! / Sono lo schiaffo e la guancia! / Sono le membra e la ruota, / la vittima e il carnefice! / Sono il vampiro del mio cuore».
Come la Trinità amandosi s’effonde per tutto il creato, colmandolo della propria pace: «Ciò che vedesti fu perché non scuse / d’aprir lo core a l’acque de la pace / che da l’etterno fonte son diffuse» (Purg XV, 130-132), così - in simmetrico contrapposto - «Lo ’mperador del doloroso regno» (XXXIV, 28) a sé porta e divora i corpi che ha soggiogato: «Da ogne bocca dirompea co’ denti / un peccatore, a guisa di maciulla, / sì che tre ne facea così dolenti» (vv. 55-57).
Lo schema dantesco tornerà nelle più memorabili rappresentazioni infere, come nel libro X del Paradiso perduto di Milton: «intorno ai muri / di Pandemonio, città e reggia / di Lucifero, così per abbaglio chiamato, / dal fulgi d’astro cui Satana fu paragonato. / Là in armi stavano le legioni...» (X, 423-427), o nelle Visioni di William Blake, proprio dal suo Milton (1804-1808): «Gli Occhi nel timore che le salde ossa non si facessero crosta di ghiaccio su tutto, guardarono l’Abisso» e ancora, dal Matrimonio del Cielo e dell’Inferno: «Una parte dell’essere è il Prolifico, l’altra il Divorante. Al divoratore può sembrare di tenere il produttore nelle sue catene, ma non è affatto così; egli afferra solo brani di esistenza, e gli pare il tutto» (entrambi i passi nella traduzione di Giuseppe Ungaretti, dalle Visioni di William Blake).
L’antinomia manichea del Bene e del Male, che perdura da Dante sino a Blake, sarà ancora confermata da Baudelaire: «Ci sono in ogni uomo, in ogni istante, due aneliti simultanei, l’uno verso Dio, l’altro verso Satana. L’invocazione a Dio, o spiritualità, è un desiderio di elevarsi; quella a Satana, o animalità, è il compiacimento di abbassarsi » (Mon coeur mis à nu, XI); ma le Fleurs du Mal hanno tuttavia sancito la coscienza tragica dell’incedere del male: «Ogni giorno verso l’Inferno scendiamo d’un passo / Senza orrore, attraversando fetide tenebre» (dedica Al lettore).
Di quel secolo, la meditazione più acuta è forse quella che ci ha lasciato Michail Jur’evic Lermontov (1814-1841) nel suo poemetto Il Demone, ove contempla, per tutti noi, la nausea di Satana nel non avere qui avversari, l’invincibile noia di uno squallido trionfo: «Sulla nostra terra meschina / Il Demone esercita le sue arti. / Ovunque il suo spirito predomini / si estende il male... ma da nessuna parte / avendo trovato resistenza, / è tedio la sua potenza» (Il Demone, 183841, parte I, II). E tuttavia non c’è in Dante che un istante di ribrezzo per il «vermo reo» (v. 108), poi il viaggio continua, verso la luce - infine!: «salimmo su, el primo e io secondo, / tanto ch’i’ vidi de le cose belle / che porta ’l ciel, per un pertugio tondo. / E quindi uscimmo a riveder le stelle» (vv. 136-139).