In cammino con Dante/19.
Beatrice, a te la lode "col core in mano"
Appare per la prima volta nella “Vita nova” e i biografi l’associano alla figlia di Folco Portinari, Bice; ma assumerà anche altre fattezze, come «schermo de la veritade» e volto stesso di Amore
Carlo Ossola (Avvenire, domenica 25 luglio 2021)
Il nome stesso “Beatrice” è allegorico sin dal suo primo apparire nella Vita nova: «Nove fiate già appresso lo mio nascimento era tornato lo cielo de la luce quasi a uno medesimo punto, quanto a la sua propria girazione, quando a li miei occhi apparve prima la gloriosa donna de la mia mente, la quale fu chiamata da molti Beatrice, li quali non sapeano che si chiamare» (II). I primi esegeti e biografi di Dante associano quel nome a Bice di Folco Portinari (1266 circa - 1290); il Boccaccio nelle sue Esposizioni sopra la Commedia così la ricorda: «Fu adunque questa donna, secondo la relazione di fededegna persona, [...] figliuola di un valente uomo chiamato Folco Portinari, antico cittadino di Firenze; e come che l’autore sempre la nomini Beatrice dal suo primitivo, ella fu chiamata Bice, ed egli aconciamente il testimonia nel Paradiso, là dove dice: ’Ma quella reverenza che s’indonna / di tutto me, pur per ’be’ e per “ice”» ( Par., VII, 13-15).
A essa, e per celebrare «tutti li fedeli d’Amore », il poeta rivolge il primo sonetto della Vita nova, nel quale tuttavia la visione che si presenta risale al topos - da Guilhem de Cabestanh al Decameron di Boccaccio (IV, 9) -, di registro tragico, del «cuore mangiato»: «quando m’apparve Amor subitamente / cui essenza membrar mi dà orrore. / Allegro mi sembrava Amor tenendo / meo core in mano, e ne le braccia avea / madonna involta in un drappo dormendo. / Poi la svegliava, e d’esto core ardendo / lei paventosa umilmente pascea: / appresso gir lo ne vedea piangendo» (“A ciascun’alma presa, e gentil core”).
Un giorno, a una funzione mariana in chiesa, lo sguardo di Dante, diretto a Beatrice, incrocia quello di una «gentil donna di molto piacevole aspecto» che si interpone. Interpretando a sé diretto quello sguardo, essa diverrà la «donna dello schermo», o «schermo de la veritade»; dovendosi essa allontanare da Firenze, Dante le dedica uno dei sonetti più ispirati “O voi che per la via d’Amor passate” (ispirato alle Lamentazioni di Geremia), che giungerà sino al sonetto proemiale del Canzoniere di Petrarca. Apparendo a Dante, Amore stesso consiglia una nuova «donna dello schermo», il cui ruolo Dante interpreta in maniera così zelante che la «gentilissima» Beatrice gli nega «lo suo dolcissimo salutare».
Una nuova apparizione d’Amore suggerisce a Dante, turbato e «in amorosa erranza», di lasciare i «simulacri». Indi Beatrice, che si palesa nel corso di un banchetto nuziale, è definita da Dante - sempre più in termini sacri - quale «nova transfiguratione », in nome della quale il poeta passa alla «loda» diretta di Beatrice. La decisione ha effetto quasi di divino afflato («Allora dico che la mia lingua parlò quasi come per sé stessa mossa») che detta “Donne ch’avete intellecto d’amore”, uno dei centri compositivi della poetica di Dante (ritornerà due volte nel De vulgari e in Purgatorio XXIV). Dopo aver esposto la teoria d’Amore e illustrato il trionfo di Beatrice («quando passava per via, le persone correvano per vedere lei [...] “Questa non è femina, anzi è de’ bellissimi angeli del cielo”») che culmina nei celebri sonetti: «Tanto gentile e tanto onesta pare / la donna mia quand’ella altrui saluta e Vede perfectamente ogne salute / chi la mia donna tra le donne vede»; subitamente il paragrafo 19 [XXVIII] annuncia con le parole delle Lamentationes di Geremia la morte di Beatrice.
Da quel momento il poeta a sé confessa che lungo sarà il cammino per ritrovare, e degnamente celebrare, il nome di Beatrice e si assimila a quei pellegrini che pensosi vede attraversare la sua città per scendere a Roma in cerca del volto di Cristo in «quella ymagine benedecta » impressa nel sudario della Veronica: Deh, peregrini, che pensosi andate. Il chiudersi della Vita Nova anticipa così e prefigura il finale stesso del Paradiso ove il ritrarsi di Beatrice «a l’etterna fontana » («...sì lontana / come parea, sorrise e riguardommi», Par. XXXI, 91-93) è nuovamante figurato nella comparazione dei pellegrini del santo Volto: «Qual è colui che forse di Croazia / viene a veder la Veronica nostra, / che per l’antica fame non sen sazia» ( Par., XXXI, 103105).
La Vita Nova promette infine un compimento («Apresso questo sonetto apparve a me una mirabile visione, nella quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedecta infino a tanto che io potessi più degnamente tractare di lei», 31 [XLII] ) che si annuncia come un nuovo cammino: «E quasi peregrin che si ricrea / nel tempio del suo voto riguardando, / e spera già ridir com’ello stea, / su per la viva luce passeggiando, / menava ïo li occhi per li gradi, mo su, mo giù e mo recirculando » ( Par., XXXI, 43-48).
Sarà, questo, il «viaggio a Beatrice» (Charles Singleton) proposto dalla Commedia, che si svolge in una cornice assai diversa da quella, «maravigliosa», della Vita nova: intanto Beatrice più non domina, idolo del pensiero; altra guida la precede, Virgilio, ed altra la seguirà, san Bernardo. Appare, come in un trionfo imperiale, al centro del Paradiso terrestre: «Tutti dicean: “Benedictus qui venis!”, / e fior gittando e di sopra e dintorno, / “Manibus, oh, date lilïa plenis!”» (Purg., XXX, 19-21); e tuttavia i colori che la rivestono, bianco, verde, rosso, rappresentano le tre virtù teologali: fede, speranza, carità, sì che la “nuova” Beatrice sembra, essa stessa, allegoria teologica. Non è più ne «la sua giovanissima etade », bensì appare «quasi ammiraglio che in poppa e in prora / viene a veder la gente che ministra » (XXX, 5859); “regalmente ne l’atto ancor proterva” (v. 70), pare a Dante “superba” («Così la madre al figlio par superba, /com’ella parve a me [...]», vv. 79-80).
La requisitoria alla quale sottopone il pellegrino è così severa che i beati intorno intervengono per lenire la pena dell’accusato: «Donna, perché sì lo stempre? » (v.96), e tuttavia il tono non muta e si fa anzi più amaro: «Quando di carne a spirto era salita, / e bellezza e virtù cresciuta m’era, / fu’ io a lui men cara e men gradita; // e volse i passi suoi per via non vera, / imagini di ben seguendo false » (vv. 127-131). E se prima (canto XXX) la sua rampogna aveva ferito, ora trapassa diritta e cruda: «volgendo suo parlare a me per punta, / che pur per taglio m’era paruto acro» (XXXI, 2-3).
Quella dissimmetria rimane, anche nell’ascesa al Paradiso, sin dal I canto: «Ond’ella, appresso d’un pio sospiro, / li occhi drizzò ver’ me con quel sembiante / che madre fa sovra figlio deliro» (I, 100-102); è dunque comprensibile che ai “fedeli d’amore” più congruo appaia il mito di Paolo e Francesca che non la signoria di Beatrice. E tuttavia il ritratto di entrambe le donne attinge ad una stessa fonte, al Lancelot du Lac: e se il ricorso è esibito nel canto V dell’Inferno («Noi leggiavamo un giorno per diletto / di Lancialotto come amor lo strinse», vv. 12 7-128), è non meno presente in un ’a parte’ di Beatrice che discretamente interviene nel dialogo di Cacciaguida e Dante: «onde Beatrice, ch’era un poco scevra, ridendo parve quella che tossio / al primo fallo scritto di Ginevra» ( Par., XVI, 13 15), esattamente come la dama di Malehaut in un passo contiguo a quello letto da Paolo e Francesca nello stesso Lancelot. Così i due grandi miti femminili della Commedia si ricongiungono in un lontano sogno d’amore, come vide Borges ( Inferno, V, 129; cfr. qui il ritratto di Francesca) e ha suggellato, con pietas poetica, Giovanni Giudici: «Beatrice che si spezza / per troppo di tenerezza » ( O beatrice, dalla raccolta eponima, 1972).