Conoscere, la libertà di Ulisse
Il filosofo Mauro Bonazzi rilegge per Einaudi l’episodio del «folle volo» di Odisseo nella «Divina Commedia» di Dante e i suoi rimandi storici. E arriva fino all’oggi
di LUCIANO CANFORA *
Che si possa affrontare un tema ben conosciuto in modi innovativi e al tempo stesso anche letterariamente attraenti, è provato dal recentissimo saggio di Mauro Bonazzi, Il naufragio di Ulisse. Un viaggio nella nostra crisi (Einaudi). Come si sa, Ulisse che narra il suo «ultimo viaggio», finito tragicamente ancorché suscitato dalla sua altissima ansia di conoscenza, è protagonista, monumentale e ammirato, del XXVI canto dell’Inferno dantesco. La sua cifra è: non foste «fatti a viver come bruti», il fine stesso dell’esistenza è la «canoscenza». Il fatto che un cenno, non certo marginale, al «volo», cioè al viaggio audace di Ulisse, appaia anche in un punto assai rilevante del Paradiso (XXVII, 82-83) sta a significare la centralità della vicenda di Ulisse, reinventata da Dante, nell’economia strutturale e concettuale del poema.
Bonazzi approda a una sintesi efficace: i due «viaggi» - quello di Ulisse che, nonostante le nobili premesse, sfocia nella sconfitta, e quello di Dante, che approda alla presa d’atto che la conoscenza dovrà subordinarsi alla fede (è la lezione di Virgilio già nel II del Purgatorio e poi di Beatrice) - sono due viaggi paralleli, dall’esito opposto. A sua volta questa presentazione di uno dei fili conduttori del poema serve a Bonazzi come metafora problematica dell’oggi. Non è un invito a ripiegamenti fideistici, è, piuttosto una domanda che investe l’efficacia, o solo parziale efficacia, o addirittura impotenza della «conoscenza» al cospetto dei problemi civili e politici del nostro tempo (ma forse si dovrebbe dire: di ogni tempo). La scena fantascientifica con cui il libro si conclude - il gigantesco computer nel quale sono raccolte tutte le conoscenze umane e che, interrogato, si autodefinisce «dio» mentre viene fulminato lo scienziato che vorrebbe spegnerlo - costituisce una conclusione aporetica (una intenzionale non-conclusione) che, giustamente, prospetta al lettore la pari dignità dei due viaggi: quello di Ulisse e quello di Dante.
Ma tale pari dignità è all’interno dello stesso poema: con buona pace di chi si limita, diversamente da Bonazzi, alla superficie, e perciò si appaga della banale conclusione secondo cui Dante «condanna» Ulisse. Se tutto fosse così semplice, il poema sarebbe poco più che un super-catechismo per adulti. Ma Dante non è un qualunque Escrivá. Dante compie l’atto geniale di far pronunciare, proprio da Tommaso d’Aquino, l’elogio fulminante di Sigieri di Brabante («luce etterna»!) e del suo insegnamento parigino (Paradiso X, 136) incentrato su Aristotele. Sull’Aristotele dell’Etica Nicomachea: libro eticamente insuperato perché afferma e argomenta - come ben spiega Bonazzi - che la felicità si raggiunge qua in terra attraverso la «conoscenza» e assecondando la pulsione verso di essa. Concetto che è racchiuso anche nel primo rigo della Metafisica di Aristotele: «Tutti gli esseri umani per natura desiderano conoscere». Dove quel «per natura» è l’antecedente concettuale del «fatti per seguir virtute e canoscenza» della «orazion picciola» dell’Ulisse dantesco. Dante è quel gigante con cui interloquiamo ancora (e seguiteremo) perché scolpisce, nel Paradiso, la grandezza di Sigieri e rende un omaggio imperituro all’ansia di conoscenza di Ulisse (e di tutti gli Ulissidi della storia del pensiero) pur nel momento in cui si lascia ammonire da un dolente maestro come Virgilio e da una insegnante esigente come Beatrice. Ma non esita e definire Aristotele - cioè il pensatore anticreazionista per eccellenza e assertore dell’eternità del mondo e forse anche della mortalità dell’anima, ispiratore profondo di Sigieri - come «maestro di color che sanno».
Ha cercato una sintesi? Certamente. Ma forse non nell’appagamento contemplativo della superiorità della fede, quanto piuttosto in una matura e ardua concezione della «libertà». Infatti, di lui Virgilio spiega a Catone (Purgatorio I, 71) che «libertà va cercando»; di Beatrice, Dante stesso dirà poi che lo ha «tratto a libertade»; e Virgilio quando si congeda da Dante nel XXVII del Purgatorio dirà con giusta fierezza di avergli - nel corso del cammino intrapreso a partire dalla remota «selva oscura» - insegnato l’intrinsechezza dei due concetti apparentemente antitetici di «libertà» e «necessità»: «libero, dritto, sano è tuo arbitrio» e perciò - prosegue - «io te sovra te corono e mitrio» (versi 140-142). È la libertà che, così intesa, avvicina conoscenza e fede.
Con grande competenza Bonazzi descrive la lotta dell’ortodossia cattolica, in particolare della facoltà di teologia di Parigi, contro l’irruzione di Aristotele nella seconda metà del XIII secolo: finalmente accessibile in latino. E la reazione fu di proclamare, nel nome dell’oltranzismo agostiniano (Sermone 36), che la volontà di conoscenza, declassata a curiositas (modello remoto il rogo paolino dei libri a Efeso), è «scandalosa». La cristianità era già stata scossa da analoga contrapposizione quando il patriarca Fozio, avversato dal papa di Roma, era stato condannato dall’VIII Concilio ecumenico (869/870) con l’accusa, tra l’altro, di aver voluto impartire, a una cerchia di adepti, la conoscenza della scienza profana «che invece è stata resa stolta da Dio» (IX canone di quel Concilio).
Nel secolo seguente toccò a Silvestro II, il «papa dell’anno Mille», di essere sospettato di magia per le stesse ragioni per cui era stato condannato Fozio e per cui, forse - come Bonazzi ben rileva - Sigieri morì di morte «sospetta». È da questa lunga storia conflittuale che nasce la Commedia . Non sarà certo un caso che una delle due lettere del papa Clemente romano fosse sospettata di eresia proprio perché asseriva esservi terre (e vita) oltre le colonne d’Ercole.
* Corriere della Sera, 14 giugno 2023 (modifica il 14 giugno 2023 | 17:18)