Violenza contro le donne
Celebrare non basta: è l’ora di reagire
di Elisabetta Rasy (Il Sole-24 Ore, 26.11.2014)
Ci sono dei problemi oggettivamente complessi la cui soluzione sembra invece apparentemente semplice. È il caso della violenza sulle donne, contro la quale ieri il mondo si è mobilitato. Perché le donne non siano più uccise, stuprate, picchiate, vendute, umiliate e offese non c’è che una soluzione: che si difendano.
Qui però la semplicità viene meno. Perché tutti ormai sappiamo che le donne, una gran parte delle donne del mondo, non sono in grado di difendersi. Si tratta di una fragilità disperatamente trasversale: i femminicidi (usiamo ancora una volta questa discutibile parola) allignano in ambienti e situazioni che più diversi non potrebbero essere.
Tra gli assassini di donne ci sono personaggi celebri come il grande campione sudafricano Pistorius e oscure figure della più estrema povertà, professionisti tranquilli insieme a recidivi della violenza; quanto ai luoghi, normalissimi interni borghesi e devastate periferie urbane cui si aggiungono le terre desolate del mondo non occidentale, le campagne indiane degli stupri collettivi e il cuore dell’Africa dei sequestri di massa delle studentesse.
Femminicidio sono anche le morti per parto (in India una donna muore per cause legate alla maternità ogni cinque minuti), gli aborti selettivi dei feti femminili, le bambine vendute come spose a neanche dieci anni nella vicina a noi Turchia, dove il presidente Erdogan ha avuto l’idea sicuramente sincera di festeggiare a suo modo la giornata mondiale contro la violenza sulle donne ribadendo la superiorità maschile su quello che lui considera e vuole insistere a considerare il sesso debole.
Ovviamente è un elenco che potrebbe continuare e tutt’altro che inedito. Che senso ha dunque ripeterlo ancora una volta? Ha il senso di sottolineare una contiguità per nulla scontata tra mondi molto diversi tra loro per cultura, benessere e condizione femminile. L’elemento comune è che, naturalmente in misura diversa, le donne sono vittime dove l’emancipazione non è ancora arrivata ma anche dove si è affermata da un bel pezzo. Il che significa che uomini molto diversi tra loro hanno in comune il disprezzo per le donne e l’attitudine a manifestarlo con la violenza. E che donne di condizione e situazione totalmente differente possono essere allo stesso modo vittime.
Per questo, la giornata contro la violenza sulle donne non è uno dei tanti giorni celebrativi che lasciano il tempo che trovano. Non risolve la questione, ma può essere una sorta di chiamata alle armi, alle armi della critica e della consapevolezza. Per guarire da questa pandemia serve infatti molta consapevolezza attiva (maschile e femminile) che evidentemente ancora non c’è, cultura pubblica, impegno istituzionale e quell’empowerment di cui parlavano anni fa le femministe.
Ci sono stati equivoci su questa parola: come se l’obiettivo fosse una semplice scalata di potere da parte di furiose professioniste in carriera. Invece l’empowerment riguarda prima di tutto e soprattutto un potere di altro tipo: la possibilità di essere curate, di essere istruite, di avere un lavoro, di guadagnare del denaro, di essere considerate cittadine a pieno titolo, di ottenere rispetto fuori e dentro il matrimonio, nelle parole, nelle rappresentazioni e nell’immaginario. Solo a queste condizioni le donne saranno effettivamente in grado di difendersi. E solo così si può battere la violenza: quando chi la subisce ha gli strumenti per difendersi.