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Democrazia in America ...

U.S.A.: ELEZIONI (di mezzo termine). VITTORIA DEI DEMOCRATICI. Ha detto Edward Kennedy: «Ha perso George Bush perché non perda l’America». Il commento di Furio COLOMBO, e l’ "analisi" di Barbara SPINELLI.

venerdì 10 novembre 2006 di Federico La Sala
[...] È molto importante confrontare la portata del successo elettorale dei democratici con i princìpi su cui è fondata la grande anomalia di George W. Bush. Bush è stato il primo presidente ideologico della storia americana. Ha imposto, con la forza di una compattezza nazionale dovuta a una grave situazione di emergenza, princìpi due volte estranei all’America: perché rinnegano le «Carte federaliste» su cui è fondata la Repubblica americana (per esempio, spostando nelle mani dell’esecutivo (...)

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> U.S.A.: ELEZIONI (di mezzo termine). VITTORIA DEI DEMOCRATICI. Ha detto Edward Kennedy: «Ha perso George Bush perché non perda l’America». Il commento di Furio COLOMBO, e l’ "analisi" di Barbara SPINELLI.

domenica 12 novembre 2006

America, chi ha vinto

di Furio Colombo *

È stata una bella esperienza rivedere a Roma il senatore Ted Kennedy due giorni dopo le elezioni americane di mezzo termine (tutta la Camera, un terzo del Senato e trenta governatori) e la straordinaria vittoria democratica. Era come incontrarsi in un’America amata e ritrovata, dove non si può arrestare qualcuno in segreto (meno che mai in un altro Paese), non ci si imbarca in guerre impossibili senza badare al costo delle vite e al modo di uscirne. E dove il presidente non parla con Dio, ma con i cittadini, e soprattutto li ascolta. È stato anche utile confrontare con lui un paio di luoghi comuni che abilmente vengono fatti circolare su queste elezioni. Il primo: ha vinto il centro. I democratici hanno vinto perché si sono spostati verso il centro. Risposta: «Per forza i democratici che hanno vinto appaiono moderati, dal momento che preferiscono la pace, il miglioramento della vita, il sostegno della scuola pubblica, un po’ più di assistenza sanitaria per tutti, e molta cautela nel mettere in gioco l’idea che la persuasione morale o religiosa di uno deve valere per tutti. Ma è stato il presidente Bush a spingersi verso un modo estremo di concepire il governo e la politica. Il fatto che - poco dopo il risultato elettorale - abbia licenziato Donald Rumsfeld lo dimostra. Bisognava fermare l’impulso estremistico dato al governo, per rimettersi al passo con il Paese, con il buon senso degli elettori». «Per questo - spiega Kennedy - la nuova "Speaker" (presidente) della Camera ha detto: "Noi saremo bipartisan". Non voleva affatto dire che abbiamo le stesse idee. Voleva dire: "Non faremo la guerra al Presidente perché noi siamo qui per lavorare dentro le istituzioni, per farle funzionare di nuovo. Noi siamo qui per finire una guerra che i cittadini non sopportano più. Dunque lavoreremo insieme con il Presidente nel tentativo di ricongiungere Paese e Governo che - durante il periodo di stordimento "neocon" - si erano separati». Un secondo luogo comune offerto al giudizio del senatore Kennedy è questo: più o meno è stata eletta sempre la stessa gente.

Prudenti legislatori che si situano a metà del cammino, che si tengono al riparo da questioni difficili - come i Pacs e l’aborto - e non vogliono dare l’impressione di mancare di rispetto alle Forze Armate. Ogni tanto in America c’è un cambiamento di partito perché ci sia un po’ di ricambio tra chi governa e chi fa le leggi, ma il cambiamento avviene all’interno di un club omogeneo. Per capire se questo luogo comune è fondato, basterebbe confrontare l’America di Jimmy Carter con l’America di Dick Cheney. Non c’è un solo punto di sovrapposizione e di coincidenza tra il vicepresidente che non ha obiezioni da sollevare sulla pratica della tortura e un presidente che non ha mai minacciato guerra all’Iran, neppure quando l’Iran teneva in ostaggio quasi tutto il personale dell’ambasciata americana a Teheran.

Kennedy non ha dubbi, come non hanno avuto dubbi i leader del Partito Democratico vincitore. «La questione chiave è stata la guerra. Il problema è troppo grave, gli iracheni soffrono troppo, muoiono troppi americani per ripetere a vuoto la frase di Bush "tenere la rotta". Questo non vuol dire che qualcuno di noi per l’Iraq ha una soluzione prefabbricata. Avere detto no alla guerra non significa sapere magicamente come uscirne. Vuol dire volerlo, sapendo quale immensa responsabilità ci è caduta addosso per una lettura sbagliata della Storia». E Kennedy non ha dubbi sulla qualità dei personaggi del suo partito che hanno vinto con lui, come Hillary Clinton, che per prima ha chiesto - e non ha mai smesso di chiedere - le dimissioni di Donald Rumsfeld, considerato «il primo problema della guerra». Come Nancy Pelosi, che la gente di Bush aveva definito «un’estremista che si dedicherà soprattutto ad aumentare le tasse» (come si vede le destre del mondo hanno sempre la stessa immaginazione per descrivere il nemico).

È vero però che la nuova presidente della Camera - che benevolmente descrive se stessa come «nient’altro che una nonna italiana-americana» - difende gli immigrati illegali, difende l’aborto, sostiene i Pacs e si batte contro la lobby delle armi. È vero che aveva detto con la sua semplicità di "nonna" dell’ex ministro della Difesa: «Per migliorare l’immagine degli Stati Uniti nel mondo basta togliere il passaporto a Donald Rumsfeld». È vero, tutto ciò dovrebbe far luce sul mito del "centro", a cui ogni volta - in caso di successo - vengono attribuite tutte le virtù e tutte le vittorie. Tornate col pensiero allo sguardo di Dick Cheney sul dramma che l’America sta vivendo nei suoi rapporti con la realtà, e dunque principalmente, con la potenza, con la guerra e con i due drammatici scenari di Iraq e Afghanistan. È importante riferirsi a Dick Cheney perché il vicepresidente degli Stati Uniti enuncia un tipo di intervento aggressivo e sgradevole, ma non è un uomo stupido, non è un politico secondario. Il senatore Kennedy lo vede come una delle due chiavi - insieme a Donald Rumsfeld - per spiegare George W. Bush.

Se gli chiedete perché Bush non si è liberato di Rumsfeld - un uomo così poco amato dall’opinione pubblica americana - prima delle elezioni del 7 novembre, la risposta è netta: «Perché in quel caso tutto il peso della tragica iniziativa della guerra e dell’andamento sbagliato del dopoguerra sarebbe caduto su di lui. Per la stessa ragione è importante per Bush avere di fronte a sé, come parafulmine, Dick Cheney, lasciare che sia lui a dire cose fino ad ora inimmaginabili nella vita e nella cultura americana, come le sue affermazioni bonarie e tolleranti sull’utilità della tortura, o almeno delle "interrogazioni pesanti". E lasciare che sia lui a sostenere che è bene per gli imputati di terrorismo non avere avvocati, perché altrimenti potrebbero raccontare le vicende dei loro interrogatori e preavvertire eventuali altri arrestati e prigionieri».

L’abolizione dell’habeas corpus - ovvero la scomparsa senza notizie di persone sospette, definitivamente isolate dal mondo - sostiene Kennedy, ferisce la democrazia in modo così grave da spingerla fuori dalle sue fondamenta, dalle sue radici. Finisce per essere la vera vittoria del terrorismo, perché ci rende uguali a loro. «Ed ecco perché Rumsfeld e Cheney hanno assolto a un compito: quello di schermare il presidente dalle conseguenze della sua politica e dai tremendi errori umani, morali, costituzionali, ma anche strategici di quella politica. Senza di loro diventerebbe impossibile scaricare il peggio di ciò che è accaduto in questi anni neri della democrazia americana. Senza l’allontanamento di Donald Rumsfeld dopo la pesante sconfitta elettorale, Bush non potrebbe invitare Nancy Pelosi alla Casa Bianca e dichiarare la sua disponibilità a lavorare insieme sapendo benissimo che si tratterà di una vera e propria inversione di rotta».

* * *

Una volta tornati in America - l’America vera di Kennedy, Carter e Clinton (ma anche un’America repubblicana rigorosamente rispettosa della Costituzione e delle alleanze, da Eisenhower a George Bush padre) - ci ritroviamo in un Paese che (dopo il Vietnam) ha sempre cercato di non generare conflitti, perché cosciente che l’immensa potenza o si usa tutta, fino alla distruzione totale, o non si deve usare (è la lezione di John Kennedy nel suo drammatico confronto con Kruscev durante la crisi dei missili di Cuba). Con questa America è bene confrontarsi anche dal punto di vista italiano. E cioè domandarsi che senso dare al pensiero naturale e condivisibile che attraversa tanta parte della politica italiana a sinistra: ah, se anche noi avessimo un compatto e omogeneo partito democratico.

Il partito democratico americano, che ha vinto le elezioni dette «di mezzo termine» in modo così clamoroso da ribaltare tutti gli equilibri della politica di quel Paese, è uno schieramento mite, ma non omogeneo, anzi attraversato da discontinuità profonde. Ha vinto perché si è contrapposto alla violenta aggressività della dottrina di Bush, fondata sui quattro pilastri che sono allo stesso tempo una sfida al buon senso, alla esperienza, alla tradizione costituzionale americana e al diritto internazionale di cui l’America si è sempre dichiarata simbolo e campione. I fondamenti del neoconservatorismo bushista sono stati infatti l’uso incondizionato della potenza, un allontanamento di fatto dalla Costituzione americana che garantisce i diritti civili e la protezione individuale, la sospensione dell’habeas corpus, e il diritto alla guerra preventiva, che vuol dire guerra sempre.

Si è trattato ovviamente - come dice Kennedy, ma anche Kerry, ma anche Cuomo, ma anche Hillary Clinton, ma anche Nancy Pelosi - di un comportamento estremistico che ha gravemente squilibrato l’edificio americano dentro il Paese e agli occhi del mondo. In altre parole la politica di Bush, Cheney e Rumsfeld ha provocato una violenta serie di «after shocks» dopo il terremoto dell’11 settembre. Ha allargato le ferite, ha aumentato la paura, ha isolato il Paese. Tutto ciò invece di creare un legame forte tra gli americani e il resto del mondo democratico che si è subito schierato - dopo il tremendo atto di terrorismo - accanto all’America.

«La fede dura, isolata e diffidente dei neocons ha inchiodato l’America di Bush in una immagine fissa. Naturale che appaia "mite" il ritorno alla piena democrazia costituzionale americana segnata da queste elezioni. Di questo ritorno non è il centro il protagonista, piuttosto l’estremismo della presidenza Bush che andava respinto in attesa di cancellarlo nelle prossime elezioni presidenziali. Ed era inevitabile che la risposta all’estremismo - estraneo alla Costituzione - fosse un ritorno fermo e allo stesso tempo mite alla Costituzione. Il gesto deve apparire per quello che è: un ritorno dell’America alla sua tradizione di Paese delle "Carte Federaliste" e dei diritti civili. In questo senso ciò che è avvenuto ha una portata storica e - in senso letterale - rivoluzionaria, almeno tanto quanto è stata rivoluzionaria la politica di George Bush, delle prigioni segrete e delle "rendition". Dunque c’è coraggio e determinazione a non fermarsi a metà strada di queste elezioni, ma a cancellare e ricominciare».

Ma che partito è il Partito Democratico che ha vinto? È un partito immensamente composito, che va dal neodeputato che era sceriffo del Colorado al neodeputato che si è sempre dichiarato socialista e che, con tale definizione politica, è stato eletto nel Vermont. Insieme rappresentano una visione della vita che, per esempio, mette il lavoro e la protezione sociale dei vecchi, dei bambini, della scuola pubblica, della salute, al primo posto rispetto ai privilegi e ai tagli di tasse a favore dei ricchi. Individualmente non viene chiesto a nessuno di mostrare il bagaglio, come in un immaginario aeroporto politico in cui ciascuno deve dimostrare di essere in armonia e in accordo con regole stabilite da qualcuno per tutti. Il senatore Kerry ha pochi punti di contatto con il deputato Rangley, che sta per diventare presidente della Commissione Bilancio della Camera, e che è noto per il suo impegno militante a sinistra (Rangley è nero, ed è eletto ad Harlem). Ma Rangley non ha mai preteso che Kerry fosse più militante. E Kerry non ha mai detto di non potersi riconoscere nelle richieste intransigenti di Rangley al «sistema». Votano e fanno insieme ciò che hanno deciso a maggioranza. Insieme sono un mondo di diritti, di garanzie e di diversità. Ecco, forse è questo il Partito Democratico che possiamo invidiare e che dovremmo imitare.

* www.unita.it, Pubblicato il: 12.11.06 Modificato il: 12.11.06 alle ore 7.21


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