Calabria, intoccabili sotto tiro
Si comincia a sradicare il grande malaffare*
di Giovanni Ruggiero *
Un verminaio sotto l’acqua cheta: ecco cosa emerge dall’inchiesta che in queste ore sta sconvolgendo la Calabria e scuote tutti noi, quando dai provvedimenti di custodia cautelare emergono non solo i nomi dei soliti delinquenti, ma anche quelli di un giudice, di un avvocato, di un ex presidente della giunta regionale e di funzionari pubblici ritenuti al di sopra di ogni sospetto. L’idea dello stagno immobile l’aveva già resa la Direzione investigativa antimafia informando il Parlamento. Calma piatta, o quasi, in tutto il Vibonese e in tutte le altre province dove il clan dei Mancuso riesce ad arrivare con i suoi tentacoli. Ma tutto in silenzio, piano piano, badando a non smuovere troppo le acque: senza spari, senza gangsterismi alla napoletana con i morti voluti e quelli capitati per caso. La provincia di Vibo in testa, e poi tutte le altre, sono colpite dal fenomeno dell’usura e delle estorsioni di esclusivo appannaggio della criminalità. Questa stabilità nel controllo del territorio richiedeva, appunto, «una situazione dell’ordine e della sicurezza pubblica apparentemente non allarmante, con un numero relativamente basso di gravi eventi delittuosi». L’acqua cheta, appunto, senza il fragore delle onde in superficie, per consentire i mille traffici illeciti, appena un centimetro sotto il pelo dell’acqua. E più si è andati a scandagliare il fondo dello stagno più melma è venuta a galla.
I Mancuso e i loro compari che lì la fanno da padroni, come questa inchiesta sta a dimostrare, hanno infatti compiuto un salto di qualità. La strategia è cambiata e, per un maggior controllo del territorio, hanno puntato alla conquista delle istituzioni. Senza fare confusione, ma avvicinando gli insospettabili, tentandoli, lusingandoli blandendoli. Fino a che, con una espressione che indigna per la sua volgarità, hanno cominciato a "mangiare" anche loro. Avrebbe "mangiato" questo avvocato, pare da tutti stimato, avrebbe "mangiato" questo magistrato che fino a ieri ha dato prove di o nestà e di dedizione allo Stato, avrebbero infine "mangiato" amministratori e funzionari degli enti locali per consentire alla Dynasty dei Mancuso di arricchirsi sempre di più, trafficando con parti della pubblica amministrazione così da poter mettere le mani su parte di quella che è la principale miniera della Calabria: il turismo, patrimonio di tutti i calabresi. È come se questi sporchi traffici avessero tolto un po’ di mare e un po’ di spiaggia a ogni calabrese. Certamente, hanno minato la fiducia che qui in tanti hanno dello Stato. C’è un pericolo maggiore dell’acqua cheta che non è solo quello di far prosperare, indisturbati, gli scandali, le ruberie e il malaffare, quanto quello di impedire la nascita di una coscienza sociale.
Deve essere davvero qualcosa di eclatante e di efferato per far insorgere, per far gridare basta, come è accaduto dopo l’uccisione di Fortugno, quando, a cominciare dai giovani di Locri, i calabresi alzarono la testa. La delinquenza, invece, qui più che altrove, prima ancora di realizzare i propri interessi, proprio con questa apparente calma, e più sottovoce di come agisca a Napoli e in Campania, sta cercando di schiavizzare le coscienze, di condizionare la vita quotidiana e di appiattire ogni anelito e ogni speranza. È un tranello rischioso. Lo avvertono in queste ore i sacerdoti di una Lamezia non lontana da Vibo che, ancora all’oscuro di quest’ultima vicenda, hanno lanciato un appello ai mafiosi, perché si convertano, e a tutti i calabresi perché mettano insieme la loro vitalità, la loro reazione, la dignità e la fierezza dell’impegno educativo: tutti i valori che la mafia vuole aggredire, facendoli semplicemente sprofondare, per poi ricoprirli, nella acqua placida, putrida e melmosa.
* Avvenire