’Ndrangheta, blitz nel Vibonese in manette anche un magistrato *
VIBO VALENTIA - C’è anche un magistrato del tribunale di Vibo Valentia, Patrizia Serena Pasquin, presidente di sezione, tra le persone coinvolte in un’operazione che la polizia di Stato sta conducendo nel Vibonese per procedere a 16 arresti. Il blitz è coordinato dalla Direzione centrale anticrimine e dal servizio Centrale operativo della polizia di stato.
Le ordinanze di custodia cautelare sono state emesse dal Gip del tribunale di Salerno su richiesta della Procura antimafia della città campana. La competenza dei magistrati salernitani deriva dal fatto che nell’operazione è coinvolto un magistrato del distretto di Corte d’appello di Catanzaro.
Le indagini che hanno portato all’operazione sono state condotte dalla squadra mobile di Vibo Valentia e dalla sezione di Polizia giudiziaria della Procura della Repubblica di Salerno.
Al magistrato Pasquin, che risiede a Vibo Valentia, vengono contestati i reati di corruzione semplice, corruzione in atti giudiziari, falso, truffa e abuso. Reati che sarebbero stati commessi in favore di persone vicine alla cosca Mancuso, uno dei più noti e attivi gruppi criminali della ’ndrangheta, con interessi in molteplici attivita’ economiche e commerciali.
(10 novembre 2006) la Repubblica
«Droga e rifiuti, ecco l’oro della camorra»
Con padre Alex Zanotelli tra i vicoli della Sanità
di Francesca Pilla *
Napoli - Napoli, quartiere Sanità, 5 chilometri quadrati e 67mila abitanti. E’ una delle zone più altamente popolate d’Europa, uno dei quartieri ghetto del centro storico dove il clan Misso-Mazzarella (le due famiglie unite per controllare i traffici nella zona dopo la «cacciata» dei Giuliano, cioè dopo che Loigino «o’ re» si è pentito) è più conosciuto del presidente della repubblica Napolitano (che la prossima settimana farà visita nel quartiere ai famigliari delle vittime della camorra) e sicuramente più temuto di Bin Laden.
Qui la disoccupazione supera il 50% della popolazione, si spaccia ovunque, ma ci sono anche tre comunità di recupero per tossicodipendenti; non c’è un asilo pubblico, ma solo una media statale e un istituto tecnico. Niente cinema, teatri, luoghi d’incontro, ma almeno resistono le tante botteghe e i bazar improvvisati. Nel quartiere un monolocale costa sui 35 mila euro, nei Decumani (l’area archeologica distante poche centinaia di metri) si arriva già a circa 100 mila, al Vomero 200 mila. «Appena duecento anni fa questo era un settore nobiliare, un tempo da via Salita principe Umberto passava il re per spostarsi dal palazzo reale di piazza Plebiscito alla dimora estiva di Capodimonte. Poi è stato costruito il ponte della Sanità e man mano si è trasformato in un ghetto. Nel dopoguerra era un’area, come diremo adesso, di eccellenza dell’artigianato made in Napoli, qui c’erano i guantai e gli scarpai. Adesso è così, ma almeno non è Scampìa, le persone hanno conservato solidarietà e socialità, questa rimane una comunità». Padre Alex Zanotelli passeggia per i vicoli con tranquillità, con la sua sciarpa color arcobaleno, la barba lunga, la voce pacata, i gesti lunghi e rilassati, fermato ogni dieci metri dalle donne della chiesa di San Vincenzo.
Abita nella Sanità da tre anni dopo averne passati 15 in Africa, e dal quartiere ha lanciato tante battaglie nel napoletano, come quella contro la privatizzazione dell’acqua che tiene a precisare: «Non è ancora finita perché dobbiamo impedire la trasformazione nel azienda di gestione in Spa come prevede la leggi Galli. Quella è una campagna che tutti dimenticano di nominare come splendida vittoria del popolo napoletano quando devono parlare male della città. Da allora sono inviso da Iervolino e da Bassolino». E nel quartiere? «C’è tanto da fare - risponde pensieroso - e bisogna cominciare dal nulla. Qui non ci sono nemmeno le scuole. Abbiamo dovuto fare una battaglia all’istituto medio Angiulli, per chiedere nuove aule. Abbiamo dovuto rimuovere la biblioteca, impacchettarla e spostarla. E’ stato un bene e un successo, ora ci sono nuovi spazi per gli alunni. Pensate, siamo arrivati a esultare per questo». Ma gli abitanti come rispondono alla vostra presenza? «Stiamo tentando di formare un rete - sospira Zanotelli - invogliare e toccare la gente partendo dai loro bisogni, altrimenti nessuno ti ascolta. C’è una disgregazione totale nell’area e non sono ottimista. E’ difficile soprattutto con i giovani. Gli unici stimoli che hanno sono i motorini e la droga. In questo quartiere ci sono più centri di abbronzatura che salumieri. La ragione è che gli ideali dei ragazzi arrivano dalla tv e subiscono una cultura massificante, consumista e materialista».
Questo è comune a molti adolescenti, ma come arrivano a trasformarsi in manodopera per la camorra? «Partiamo dall’abbandono scolastico: - racconta il prete comboniano - i ragazzi riescono a fare un bel gruzzolo ogni giorno spacciando droga. Con quei soldi comprano, quando non lo rubano, lo scooter, bei vestiti e accessori e dopo un mese pensano che studiare sia una perdita di tempo. Se poi aggiungiamo che il lavoro da queste parti non c’è, che i maschietti ambiscono a comprare grandi macchine e le femminucce a essere delle veline, ecco la risposta».
Cosa ne pensi del «caso Napoli»? «Sono anni che la città si trova a dover fronteggiare le faide dei clan, ed è da un pezzo che la camorra qui ha vinto sullo Stato, non è una scoperta. Si dovrebbe invece parlare del "caso Calabria", perché è la n’drangheta la vera sorpresa. Su tutte le decisioni importanti sono, infatti, le famiglie calabresi a dettare l’ultima parola, la camorra e Cosa nostra eseguono. Non a caso tra i calabresi i pentiti si contano sulle dita di una mano. Qui sono famiglie che litigano tra loro, come è tipico dei napoletani, e basano tutto sullo spaccio di droga. Ora non ditemi che lo "stato" non sa dove sono i pusher, è una grande commedia. Il vero problema in Campania sono i rifiuti e tra qualche anno rideremo dei morti di camorra». In che senso? «Attualmente in regione ci sono 6 milioni di tonnellate di ecoballe che non si sa come smaltire. Il piano Bertolaso prevede solo l’incenerimento, ma questa immondizia non può essere termodistrutta perché non è a norma. Lo faranno comunque immettendo tanta di quella diossina nell’ambiente da generare un disastro, quando già nel cosiddetto triangolo della morte (Acerra, Nola, Marigliano) abbiamo il più alto tasso di leucemie e tumori del Mezzogiorno. Dico solo che lì ci sono ancora nascosti i fusti tossici di Porto Marghera portati dalla camorra. Ho molta paura, lo confesso».
* il manifesto, 19.11.2006
L’accusa: "Riceveva dalla mafia una stabile remunerazione". Sequestrati beni per 4 milioni. Amato, presto in Calabria
Vibo, interrogato il giudice Pasquin Mastella: "Seguivo il caso da tempo" *
VIBO VALENTIA - E’ stata interrogata Patrizia Pasquin, presidente della sezione civile del Tribunale di Vibo Valentia, accusata di corruzione in atti giudiziari, falso e truffa aggravata ai danni dello stato. Secondo l’accusa il magistrato, sospettata di essere vicina al clan della ’ndrangheta dei Mancuso, avrebbe beneficiato di una "stabile remunerazione" in cambio dei favori che avrebbe garantito come presidente del Tribunale e, in particolare, come giudice fallimentare.
In un passaggio dell’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip del Tribunale di Salerno, Emma Conforti, su richiesta dei pm antimafia Mariella De Masellis e Domenica Gambardella, si fa riferimento alle contropartite che il giudice avrebbe ricevuto in cambio dei favori elargiti. "La Pasquin - affermano i pm - riceveva stabile remunerazione consistita nell’acquisto di mobili per la sua casa ed in continue forniture alimentari corrisposte a lei e fatte pervenire, a mezzo corriere, al figlio, Alessandro Tassone, domiciliato a Torino per motivi di studio a partire dal febbraio del 2000".
Scattati anche una serie di sequestri partiti con quello del cantiere del "Melograno Village" a Parghelia, nel vibonese, di cui la Pasquin sarebbe stata socio occulto, e di beni immobili e conti correnti, per un valore di circa quattro milioni di euro. Tra i beni, che sarebbero riconducibili agli esponenti della ’ndrangheta Giuseppe e Giovanni De Stefano, c’è anche l’immobile dove ha sede il noto bar e ristorante ’Cordon Bleu’ di Reggio Calabria. Giuseppe De Stefano è fratello di Carmine, di 38 anni, arrestato nel dicembre del 2001 dopo diversi anni di latitanza. I due cugini sono inoltre nipoti di Orazio De Stefano, di 47 anni, fratello di Paolo e Giorgio uccisi negli anni scorsi, già inserito nell’elenco dei 30 superlatitanti, arrestato nel febbraio del 2004.
I sequestri fanno parte dell’operazione "Dinasty 2 - do ut des" in cui sono state coinvolte una quarantina di persone tra cui magistrati, amministratori, politici, avvocati, professionisti e mafiosi. La Pasquin, salita anni fa alla ribalta delle cronache per aver seguito le indagini sull’omicidio del piccolo Nicholas Green, il bambino assassinato nel ’94 in una rapina sull’autostrada, viene accusata anche dalla testimonianza dell’imprenditore Giuseppe Masciari.
Sottoposto a programma di protezione in qualità di testimone di giustizia e costituitosi parte civile in numerosi procedimenti penali contro esponenti della ’ndrangheta, Masciari in una nota si dice vittima di quel "sistema ’ndranghetistico che vede complici esponenti della magistratura, nello specifico la dottoressa Pasquin, la stessa che nel ’96 ha pronunciato la sentenza dichiarativa di fallimento avverso l’imprenditore Masciari, che si era opposto di sottostare alla pressione estorsiva e al sistema di collusione già in atto a quei tempi".
Da Roma intanto il ministro degli Interni Giuliano Amato fa sapere che, vista la gravità dei problemi discussi col presidente della regione Calabria Agazio Loiero, arriverà al più presto in Calabria per un vertice con istituzioni, prefetti, forze dell’ordine e magistrati. Mentre il ministro della Giustizia Clemente Mastella rende noto che "in riferimento alla gravissima vicenda dell’arresto di Patrizia Pasquin, magistrato in servizio presso il tribunale di Vibo Valentia, il ministero comunica che già da tempo sta seguendo con la massima attenzione lo sviluppo del procedimento penale in questione".
"L’Ispettorato generale del dicastero - prosegue il comunicato di via Arenula - ha infatti costantemente richiesto alla Procura della Repubblica competente le opportune notizie. Non sono stati fino ad ora disposti accertamenti amministrativi presso il tribunale di Vibo per non ostacolare il corretto andamento delle indagini".
* la Repubblica, 11 novembre 2006
’Ndrangheta Maxi-inchiesta contro le cosche, coinvolti un magistrato e l’ex Governatore
Il verminaio di Vibo Valentia
Nell’operazione contro il clan Mancuso arrestata la giudice antimafia Patrizia Pasquin. Coinvolto anche il forzista Chiaravalloti, avvocati ed ex assessori regionali e comunali. 16 gli arresti, in tutto 44 indagati
di Francesco Paolillo (il manifesto, 11.11.2006)
Reggio Calabria. Magistrati, avvocati, ex assessori regionali e comunali coinvolti nei loschi rapporti tra le imprese e le cosche di Vibo Valentia. C’è di tutto nelle carte dell’operazione «Dinasty do ut des» della procura di Salerno: anche indagini condotte sull’ex Governatore della Calabria, Giuseppe Chiaravalloti. Si tratta del secondo troncone della «Dinasty» che, disposta nel 2003 dalla Dda di Catanzaro, piegò in due il casato dei Mancuso di Limbadi, piccolo centro nel vibonese. Ed è carica d’inquietudine l’immagine che emerge dall’inchiesta di Patrizia Pasquin, presidente di una sezione del Tribunale civile di Vibo, e «al vertice di un vero e proprio comitato d’affari».
Era grazie al sistema del «do ut des», ti do per ricevere, che il giudice intratteneva rapporti col clan dei Mancuso. In tutto sono 44 gli indagati, sedici dei quali raggiunti da un’ordinanza di custodia cautelare. In quattro sono finiti in carcere per ordine del gip salernitano. Come Patrizia Pasquin, una che, nella sua carriera, si è occupata anche di ’ndrangheta e, per un periodo del 1994, ha retto l’ufficio della procura di Vibo, in un momento particolarmente delicato per la regione e la Dda vibonese. Quando, cioè, cominciavano le indagini per l’omicidio del piccolo Nicholas Green, ucciso sulla Salerno-Reggio durante un tentativo di rapina, e l’organico dei magistrati era ridotto all’osso.
Il giudice Pasquin, negli anni, si era costruita una corazza d’incorruttibilità a colpi di sentenze contro le banche, gli usurai, il racket delle estorsioni. Si era occupata d’innumerevoli omicidi, stragi di ’ndrangheta, sequestri di persona a scopo estorsivo e delitti contro la pubblica amministrazione. In realtà, secondo le indagini, nascondeva una seconda vita fatta di amicizie pericolose, sporchi interessi, collusioni coi clan. Un «consolidato rapporto corruttivo» proprio con quei Mancuso, padroni incontrastati nel vibonese, che, oltre alle «beghe» locali, hanno una forte attenzione al traffico di stupefacenti internazionale.
Lo scenario descritto dai pm è disarmante. Esistono intercettazioni in cui, con estrema disinvoltura, «gli interlocutori parlano di cause da "sistemare" al fine di compulsare le stesse per il soddisfacimento di interessi personali». Il giudice Pasquin sarebbe arrivato a «produrre documenti falsi al solo scopo di consentire alla società Il Melograno Village srl l’accesso a un contributo pubblico». Certificati che avrebbero concesso all’azienda, della quale il magistrato era socio occulto (il figlio, residente a Torino, ne era socio formale) di «ottenere la concessione di un indebito finanziamento plurimiliardario in lire». Secondo i pm Marianella De Masellis della Dda salernitana e Domenica Gambardella della procura di Salerno, il magistrato «faceva pressioni alla stregua di uno spregiudicato imprenditore». Qui s’inserisce l’ex Governatore della Calabria, Giuseppe Chiaravalloti, intervenuto per «il buon esito della richiesta di ammissione al finanziamento per la realizzazione del Melograno Village». Il reato contestatogli è di corruzione.
Per non parlare poi dell’impegno che Patrizia Pasquin avrebbe profuso per «avere notizie utili su indagini in corso, mediante accessi abusivi al registro informatico della procura di Vibo Valentia». Per intrattenere i suoi rapporti particolari, la donna usava il telefono della propria collaboratrice domestica. Secondo la procura di Salerno il magistrato utilizzava queste utenze per «le telefonate con Antonio Ventura, persona ritenuta vicina al clan Mancuso, noto come "Tappo"», anch’egli arrestato ieri. Dalle intercettazioni telefoniche, poi, spunta il profilo più singolare del giudice visto che la corruzione si sarebbe consumata anche attraverso regalie consistenti in prodotti alimentari.
Secondo l’accusa formulata dalla Procura antimafia di Napoli, andava pazza per gamberoni e vongole, ma anche il formaggio buono non doveva mancare mai dalla sua tavola. Nell’ordinanza di custodia cautelare viene riportata una conversazione tra alcuni degli indagati riguardante proprio le leccornie da regalare al giudice Pasquin. Come quando Ventura raccontava a un uomo «di avere comprato del pesce fresco, merluzzo e gamberoni, per il giudice». Nella sua condotta, Patrizia Pasquin sarebbe stata aiutata da due magistrati che sono stati indagati per concorso in corruzione in atti giudiziari. Per i rapporti corruttivi emersi nelle indagini che hanno portato all’arresto del giudice, «indispensabile» è stata la partecipazione di avvocati. Fra questi, in carcere è finito l’assessore al Turismo di Tropea, Michele Accorinti. Graziato dal gip con gli arresti domiciliari, invece, Ernesto Funaro, ex consigliere ed assessore regionale.
I PM: ’AL GIUDICE PASQUIN STABILE REMUNERAZIONE DALLA ’NDRANGHETA’ *
VIBO VALENTIA - ’’Una "stabile remunerazione" in cambio dei favori che avrebbe garantito come presidente della sezione civile del Tribunale e, in particolare, come giudice fallimentare: è quella di cui avrebbe beneficiato, secondo l’accusa, Patrizia Pasquin, il magistrato di Vibo Valentia arrestato ieri dalla Polizia con l’accusa di corruzione.
In un passaggio dell’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip del Tribunale di Salerno, Emma Conforti, su richiesta dei pm antimafia Mariella De Masellis e Domenica Gambardella, si fa riferimento alle contropartite che il giudice avrebbe ricevuto in cambio dei favori elargiti. "La Pasquin - affermano i pm - riceveva stabile remunerazione consistita nell’acquisto di mobili per la sua casa ed in continue forniture alimentari corrisposte a lei e fatte pervenire, a mezzo corriere, al figlio, Alessandro Tassone, domiciliato a Torino per motivi di studio a partire dal febbraio del 2000".
OGGI A SALERNO INTERROGATORIO GIUDICE PASQUIN E’ fissato per oggi l’interrogatorio di garanzia di Patrizia Pasquin, il presidente della sezione civile del Tribunale di Vibo Valentia arrestata ieri con l’accusa di corruzione in atti giudiziari, falso e truffa aggravata ai danni dello Stato. L’interrogatorio si svolgerà nel carcere di Salerno, dove il magistrato è stato portato ieri sera. A condurre l’interrogatorio sarà il gip Emma Conforti, che ha emesso l’ordinanza di custodia cautelare nei confronti del giudice Pasquin e di altre dodici persone. Il magistrato si è affidato ad un avvocato campano, dopo che in un primo tempo nella giornata di ieri era stata difesa da un legale di Vibo.
* ANSA, 11.11.2006
LE INTERCETTAZIONI. Nelle telefonate ascoltate dagli inquirenti calabresi la rete delle amicizie e dei favori tra giudice e avvocati
’Ndrangheta, l’annuncio alla socia in affari "Ho fatto annullare la sentenza"
DAL nostro inviato ATTILIO BOLZONI *
VIBO VALENTIA - Da giudice è diventata "consigliori" e da "consigliori" è diventata socia. Occulta, accusano i poliziotti e i magistrati che l’hanno arrestata. Però mica tanto, stando alle 100 mila fra registrazioni telefoniche e ambientali che hanno alla fine rivelato l’eccellentissima Patrizia Pasquin, la presidente di sezione del Tribunale di Vibo Valentia, una che da un quarto di secolo amministrava giustizia sempre e solo in quel tribunale. E faceva affari soprattutto. Con qualche avvocato e qualche architetto sempre a caccia di soldi. Come il famoso penalista Filippo Accorinti che organizzava le combine con la giudice, per esempio aggiustavano insieme i processi.
Il penalista.
E allora il magistrato confessava alla sua amica Settimia, tutte e due sedute una sera su un gippone: "Lui è un furbone, eh, Accorinti è un furbone però è un amico, nel senso che guardandosi i cavoli suoi poi ti aiuta, eh...". E si sfogava ancora: "E perché tutti gli altri che sono? Gli altri fanno gli stro..., una si mette a disposizione e poi ti si girano pure contro, scusa allora è meglio uno così o no? Cara mia, è tutto un do ut des".
Comincia così, un giorno, a sentirsi la voce della giudice in una sala della squadra mobile di Vibo. E comincia così ad affiorare una trama. C’era un comitato di potenti che comandava in quella città. E tutti amici degli intoccabili, i Mancuso di Limbadi. Una dinastia di razza padrona. È in un carcere che due di quei boss, Diego e Mico, parlano dell’eccellentissima Patrizia Pasquin. E il primo dice all’altro: "Ho risolto i miei problemi". Erano di sorveglianza speciale. Da quel momento la presidente di sezione del Tribunale è stata ininterrottamente "ascoltata". La gente dei Mancuso di mese in mese si è irritata sempre di più per le sue esose richieste, qualcuno ha persino ipotizzato di troncare "bruscamente" questa amicizia. Qualcuno altro ha cominciato a chiamarla "la cinghiala". Quarantuno i capi di imputazione formulati dalla procura di Salerno, ventidue quelli accertati dal giudice delle indagini preliminari. Prove e indizi tutti in quelle 100 mila registrazioni.
"Riga per riga".
"Speriamo che non confrontino riga per riga", le sussurrava un amico parlando del business che avevano in piedi da qualche mese, un mega finanziamento per un albergo a cinque stelle fra Parghelia e Tropea, il Melograno Village. Avevano falsificato le carte, l’eccellentissima giudice e i suoi complici, imprenditori e architetti e geometri. Avevano già intascato 948 mila 413 euro. E parte di quei soldi erano finiti già ai Mancuso. "Speriamo che non confrontino riga per riga" era riferito ai possibili controlli fra il Comune di Parghelia e l’assessorato regionale. Un incrocio di documenti e la truffa sarebbe venuta fuori molto tempo prima.
Parlava e parlava sempre Patrizia Pasquin. Ma mai dal suo cellulare. Aveva comprato due nuove schede e però da lì non partivano le sue telefonate. Partivano dall’utenza della sua domestica, quelle due nuove schede servivano solo a ricevere. Numeri che conosceva bene quella Settimia, Settimia Castagna, amica e socia della Pasquin.
Il processo Un anno fa Settimia era preoccupata, temeva di essere sotto inchiesta. La sua amica giudice - con l’aiuto di un impiegato infedele - è entrata nel sistema della Procura di Vibo e l’ha rassicurata: "Non avere paura, non c’è niente su di te, solo un procedimento dove sei parte offesa". Non sapeva Patrizia Pasquini che tutta l’inchiesta su di lei e sugli altri quindici - proprio il coinvolgimento di un magistrato - era finita alla
Procura di Salerno.
Era un commercio continuo. Anche di processi. È quasi la fine dell’estate dell’anno scorso quando sempre l’avvocato Filippo Accorinti la chiama: "E allora, qui ci sono tre cause". Risponde lei: "Eh". Lui: "Una è quella della terrazza". Lei: "... omissis...". Lui: "Una è quella della divisione 98 barra....". La Pasquini alza la voce, è incavolata con il suo amico che parla troppo chiaramente di processi al telefono. E gli ribatte: "Aspetta, adesso mi dite pure i numeri?.. dalla Corte di Appello mi è tornata indietro, quella dove abbiamo fatto annullare la sentenza...".
"Settimia, rischio di persona".
Per i poliziotti e i procuratori di Palermo la giudice avrebbe pilotato "7 o 8 cause" che riguardavano la sua amica Settimia Castagna, imprenditrice turistica e titolare della Green line, una società di floricultura. Eppure Settimia di tanto in tanto si lamentava con lei. E la giudice provava a tranquillizzarla: "Setti’, per favore, non mi parlare più di questa cosa, perché mo’ me la vedo con Filippo (l’avvocato Accorinti ndr). Quello che posso fare faccio, esponendomi oltre misura e rischiando pure di persona. E i risultati ci sono stati. Notevolissimi". La incalzava Settimia: "Tu come me la poni, sembra che me lo stai facendo a me il favore. Tu lo stai facendo a te stessa bella mia". E lei "Ma lo so, lo so". Settimia: "Tu devi dire: ’Dio ti ringrazio e mi sono sacrificata perché c’erano validi motivi per farlo’. E basta". Poi nel documento giudiziario c’è una sfilza di omissis, evidentemente una lunga lista di nomi ancora oggetto di investigazioni. Riprende la conversazione Patrizia Pasquin: "Ma all’inizio l’ho fatto per te". E dopo una lunga litigata la giudice le dice: "Per noi. diciamo per noi".
E’ un altro giorno, un’altra conversazione sempre con Settimia Castagna dove il presidente di sezione del Tribunale quasi urla: "Gli ho fatto annullare la sentenza. più di così non si può fare".
Il Tappo e le salsicce.
In quel groviglio di registrazioni c’è di tutto. Dai piccoli vassallaggi ai grandi affari. Sottomissioni alle quali è costretto un costruttore edile che ogni mattina va a far la spesa alla giudice, un costruttore soprannominato "Il Tappo". "Dottoressa vuole Wurstel e salciccia? E come li vuole i Wurstel, piccoli o grandi?". E "Il Tappo" la accontentava. Ogni tanto mandava qualche pacco di cibarie pure a Torino, dove studiava all’Università il figlio della signora. E ogni tanto mandava sua moglie Pierina a fare la spesa. Ma poi la giudice tornava a parlare di processi, di lottizzazioni, di firme di assessori comunali e regionali. Un giorno di ottobre riceve anche la telefonata dell’allora presidente della Regione Calabria Giuseppe Chiaravalloti. Scrivono i giudici: "Il Pm contesta alla Pasquin e a Chiaravalotti la sussistenza di un reciproco ulteriore patto corruttivo".
Chiaravalloti.
Ma è un’altra telefonata a mettere ancora più nei guai la giudice di Vibo. E’ lei che chiama il governatore della Calabria: "Presidentissimo buongiorno salve". Chiaravalloti: "Ah Patrizia, dimmi". Poi c’è un omissis. E ancora la giudice: "Questo è importante e poi mi dici che in qualche modo ovviamente qua ti posso essere utile, poi insieme a quella mia amica bionda volevamo venirti a salutare". Lui: "Se c’è qualche inghippo mi dovete avvisare tranquillamente".
Una settimana dopo i due si risentono. E il governatore dice: "Io avevo una piccolissima istanza da proporti". La Pasquin: "Sì?". E il presidente: "Su mandato di un tuo collega, pezzo grosso, romano.. ah.. della Cassazione.. Allora, tu hai in decisione una causa.. Campisi Tema.". E lei: "Ah, sì". Chiaravalloti: "Poi tu te la guardi con comodo e poi, magari, se ci...". La Pasquin: "Ne parliamo. Io avrei individuato una soluzione". Il governatore: "Ci dobbiamo vedere, o vieni tu giù o vengo io su". E la giudice: "Noo". Il presidente taglia corto: "Quando Maometto vide che la montagna non si spostava, mise le gambe in spalla e andò dalla montagna". Questi sono soltanto frammenti di registrazioni. E’ solo un piccolo pezzo di un’inchiesta appena iniziata sui potenti di Vibo Valentia.
(11 novembre 2006)
’NDRANGHETA: ARRESTI NEL VIBONESE, C’E’ ANCHE UN MAGISTRATO
VIBO VALENTIA - C’è anche un magistrato del tribunale di Vibo Valentia, tra le 45 persone coinvolte in un’operazione che la polizia di stato sta conducendo nel Vibonese. L’operazione è coordinata dalla Direzione centrale anticrimine e dal servizio Centrale operativo della polizia di stato. Sono 15, al momento, rispetto alle 16 emesse dal gip distrettuale di Salerno, le ordinanze di custodia cautelare eseguite dalla polizia di stato.
Il giudice arrestato la scorsa notte dalla polizia di stato su ordine della Procura antimafia di Salerno e’ Patrizia Serena Pasquin, presidente di sezione del Tribunale di Vibo Valentia. Al giudice vengono contestati i reati di corruzione semplice, corruzione in atti giudiziari, falso, truffa e abuso, reati commessi in favore di elementi vicini alla cosca dei Mancuso.
Gli arresti sono stati fatti, oltre che nel Vibonese, nelle province di Catanzaro, Cosenza e Reggio Calabria ed a Varese, con la collaborazione delle rispettive Questure. Complessivamente nell’operazione sono stati impiegati oltre 150 poliziotti.
Ci sono anche due avvocati tra le persone arrestate. Ai due professionisti vengono contestati la corruzione e la corruzione in atti giudiziari, reati commessi in concorso col giudice Pasquin. Le contestazioni mosse ai due avvocati fanno riferimento a presunti favoritismi di cui avrebbero beneficiato alcune persone vicine alla cosca Mancuso.
Ci sono altri due magistrati coinvolti nell’inchiesta. Secondo quanto si apprende da fonti investigative, collaboravano assiduamente con la Pasquin.
Tra gli arrestati c’ e’ anche un ex assessore della Regione Calabria, Ernesto Funaro, di 66 anni. Funaro, che e’ un ingegnere - un passato democristiano, poi segretario regionale fino al 2000 degli allora Popolari (successivamente non e’ nota un’ appartenenza politica ufficiale anche se si parlo’ di una vicinanza ad esponenti dell’ Udc) - e’ accusato di truffa aggravata ai danni dello Stato e falso. All’ ex assessore sono stati concessi gli arresti domiciliari. Il suo coinvolgimento nell’ inchiesta sarebbe da collegare ad una collaborazione tra il suo studio di ingegneria e le vicende edilizie riguardanti il comune di Parghelia.
COSCA MANCUSO, LA ’NDRANGHETA CHE DOMINA
Quella dei Mancuso e’ considerata da magistrati e forze di polizia una delle piu’ forti e potenti cosche calabresi, sia per le sinergie mafiose che e’ riuscita a costruire negli anni sia per la capacita’ di radicarsi e proliferare oltre che nelle regioni del Nord d’Italia anche in mezza Europa e in sud America. Potente dal punto di vista militare, la cosca Mancuso e’ considerata tra le piu’ efferate: ricorre spesso al metodo della lupara bianca e non disdegna gli omicidi tanto che nel 1996 il processo ’Eclissi’ dimostro’ la paternita’ dei Mancuso in decine di delitti. Le prime tracce processuali della famiglia mafiosa risalgono ai primi anni ’60, negli anni e’ riuscita a creare sinergie importanti, come quella con le famiglie reggine dei De Stefano ed i Piromalli-Mole’, con i quali sono entrati in affari quando la ’ndrangheta si sparti’ gli appalti per lo sbancamento ed il materiale inerte dell’ area del porto di Gioia Tauro.
Affari che adesso riguardano traffico di armi, stupefacenti e riciclaggio. Gli anni non sono passati invano: la famiglia Mancuso crescerebbe al punto che viene oggi definita una vera e propria ’holding’ finanziaria, in grado di movimentare cocaina dal sud America per tonnellate, grazie anche al supporto delle cosche reggine, espropriando della titolarita’ del traffico internazionale anche Cosa nostra. Ci sarebbe anche il riciclaggio del denaro: i soldi ottenuti con il traffico degli stupefacenti tornano in Argentina e poi girano su banche e uffici di exchange in Svizzera e Medio Oriente, ritornando, puliti alle basi tra cui appunto la Lombardia (Milano, ma anche Brescia), il Piemonte, l’ Emilia Romagna. Negli anni, pero’, alla cosca dei Mancuso sono stati inferti, da parte della magistratura e delle forze di polizia, anche duri colpi, come ad esempio l’operazione Dinasty, compiuta nell’ottobre del 2003, che porto’ all’arresto di decine di affiliati. Da quell’inchiesta era emerso come la cosca era da tempo scossa dalle divisioni interne e dai contrasti tra i capi delle diverse fazioni, con il rischio di perdere definitivamente forza e influenza.
Dall’inchiesta di tre anni fa la cosca sembrava che la cosca ne fosse uscita di fatto decimata poiche’ furono arrestati tutti i componenti maschi della famiglia Mancuso, eredi di una antica tradizione criminale. Altri tempi, in sostanza, rispetto a quelli in cui a curare gli affari della cosca, con l’ autorevolezza e la capacita’ necessarie, era Francesco Mancuso, detto Ciccio, un vero e proprio patriarca della ’ndrangheta, capace di trattare ad armi pari e senza alcun timore reverenziale con gli altri esponenti di spicco della stessa organizzazione criminale calabrese (i Piromalli di Gioia Tauro, i De Stefano di Reggio Calabria, gli Arena di Isola Capo Rizzuto) e con i boss di Cosa nostra.
Mancuso e’ morto per un male incurabile, nella sua casa di Limbadi, nel 1997. In una delle conversazioni telefoniche intercettate dagli investigatori nell’ambito dell’inchiesta Dinasty due degli affiliati ricordavano con nostalgia e rammarico proprio i tempi in cui a dirigere gli affari della cosca era Ciccio Mancuso, dotato di un’ autorita’ che nessuno osava mettere in discussione. Ma al di la’ della cosca quello che emerse nell’indagine di tre anni fa era la vera e propria dinastia dei Mancuso, il cui capostipite, nato nel 1902, aveva avuto undici figli. L’inchiesta consenti’ di scoprire che la cosca Mancuso, di fatto, si era pero’ frantumata negli ultimi anni dividendosi in tre gruppi contrapposti capeggiati, rispettivamente, da Luigi e Giuseppe Mancuso, entrambi in carcere per scontare in regime di 41 bis una condanna all’ ergastolo, e Francesco Mancuso. Nonostante i contrasti interni alla famiglia, le attivita’ sarebbero comunque continuate in modo incessante e lo dimostrerebbero le recenti operazioni compiute dalle forze di polizia nel nord dell’Italia che hanno smantellato diversi traffici internazionali di droga gestiti dalle cosche della ’ndrangheta.
* ANSA 2006-11-10 07:28
Profilo professionale del giudice coinvolto nel blitz anti ’Ndrangheta
Chi è il magistrato arrestato a Vibo
Patrizia Pasquin è in magistratura dal 1980. Ha ricoperto il ruolo di pm occupandosi anche di criminalità organizzata prima della nascita delle Direzioni distrettuali antimafia *
VIBO VALENTIA - Patrizia Pasquin, il giudice arrestato dalla Polizia su ordine della Dda di Salerno, è in magistratura dal 1980. Attualmente ricopre l’incarico di presidente di sezione civile del Tribunale di Vibo Valentia, dove ha svolto tutta la sua carriera. Nominata uditore giudiziario al Tribunale di Catanzaro dal maggio 1980 è stata poi destinata, dal gennaio ’82, al tribunale di Vibo Valentia. Dal 1986, Patrizia Pasquin ha ricoperto l’incarico di sostituto procuratore della Repubblica sempre a Vibo. Dall’aprile all’ottobre del 2004 ha anche svolto le funzioni di procuratore reggente. Nominata dal Csm magistrato di Corte d’appello dal ’94, Patrizia Pasquin è diventata presidente di sezione dal luglio 1995. Dal dicembre 2000 è stata nominata magistrato di Cassazione.
Nella sua carriera la Pasquin si è occupata sia di civile che di penale. In quest’ultimo settore ha svolto incarichi di giudicante (a latere), come giudice istruttore nel primo quinquennio dell’attività, come pm nei nove anni successivi e poi ancora come presidente dei collegi ordinari e di tribunale della libertà e delle misure di prevenzione. Nell’ambito del settore penale si è occupata di indagini riguardanti la criminalità organizzata, reati contro la pubblica amministrazione, ambientali ed edilizi, fiscali, oltre che di misure di prevenzione personali e reali, irrogandone oltre un centinaio in meno di due anni di presidenza della sezione penale. Come pm, in particolare, si è occupata anche di criminalità organizzata prima della nascita delle Direzioni distrettuali antimafia.
Nel 1994, Patrizia Pasquin ha retto per alcuni mesi l’ufficio di procura durante il periodo di vacanza del posto di procuratore, seguendo le prime fasi dell’omicidio di Nicholas Green, il bambino statunitense assassinato nel corso di un tentativo di rapina accaduto il 29 settembre 1994 lungo il tratto calabrese dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria mentre viaggiava a bordo di una Fiat Uno insieme ai genitori ed alla sorella più piccola. 10 novembre 2006
’Ndrangheta, blitz nel Vibonese, arrestato magistrato
Altri sedici fermi, tra cui imprenditori e esponenti della criminalità organizzata *
VIBO VALENTIA. Un magistrato, due avvocati e un ex assessore regionale, un assessore comunale, sono stati arrestati insieme ad altri dodici persone su ordine della Dda di Salerno nel vibonese. Sedici in totale gli arresti compiuti nel corso di una operazione della squadra mobile di Vibo Valentia denominata ’Dinasty 2 do ut des«. Le accuse vanno dalla corruzione aggravata, al falso ed alla truffa ai danni dello Stato, alla corruzione in atti giudiziari.
Il magistrato arrestato è Patrizia Pasquin, 52 anni, presidente della sezione civile del Tribunale di Vibo Valentia. Altri due giudici collaboratori di Pasquin sono indagati. Paquin, veneta di origine, risiede e opera da tempo in Calabria. È stata per alcuni anni sostituto procuratore della Repubblica del Tribunale vibonese. Il suo nome era emerso nei fascicoli dell’operazione »Dinasty«, che anni orsono portò all’arresto di una sessantina di persone tra capi e gregrari del potente clan Mancuso di Limbadi, di cui l’operazione odierna rappresenta una prosecuzione..
A pronunciarlo Antonio Ventura, un commerciante di Pizzo Calabro fallito e colpito anch’egli dall’odierna ordinanza. Dagli atti emergerebbe che il giudice avrebbe avuto contatti con il potente clan Mancuso di Limbadi. Quattro le ordinanze di custodia cautelare in carcere eseguite, 9 quelle ai domiciliari e tre misure interdittive dell’esercizio della professione. Trentatrè le persone indagate complessivamente a vario titolo. Arrestato anche l’assessore al turismo di Tropea, Michele Accorinti, residente a Parghelia (Vibo Valentia).Nella sua cariera politico-amministrativa Accorinti aveva ricoperto anche il ruolo di capogruppo di opposizione del suo Comune, prima di essere chiamato alla guida dell’assessorato al Turismo di Tropea, una delle città turistiche più conosciute della Calabria e del Sud.
* La Stampa, 10/11/2006
Ingroia: «Scardinare la classe dirigente che vive di affari e favori mafiosi»
di Saverio Lodato *
Continuiamo a parlarne di mafia, in un momento in cui il suo profilo - apparentemente - è bassissimo. Dopo il procuratore Francesco Messineo, e gli aggiunti Sergio Lari e Roberto Scarpinato, interviene Antonio Ingroia, pubblico ministero nei processi di mafia più incandescenti ormai da quindici anni.
Dottor Ingroia, il vulcano Napoli e una Sicilia Svizzera...
«Non direi. Penso infatti che sarebbe ora che nella lotta al crimine organizzato, in tutte le sue forme, lo Stato facesse la prima mossa senza aspettare, come è sempre avvenuto, che siano i boss a riaprire la partita. Quello che accade a Napoli è già accaduto in Sicilia tanti anni fa: omicidi, regolamenti di conti fra i clan, taglieggiamenti, i poteri criminali che alzano il tiro. Titoli da prima pagina e finalmente ecco che qualcosa si muove».
Il governo però, questa volta, parla di interventi stabili e duraturi, non emergenziali.
«È un reale segno di discontinuità, rispetto al passato, che ci aspettiamo. Una diversa e permanente attenzione alla questione mafia non cadendo nel solito trabocchetto che se la mafia non spara vuol dire che non c’è».
E questo, mentre si manifesta a Napoli, in Sicilia ancora non si vede. È questo che vuole dire?
«Vorrei dire di più. La storia ci insegna e le risultanze investigative più recenti ci confermano, che la mafia è e si sente più forte quando non spara. Ritorna allora una domanda di fondo: bisogna convivere con la mafia degli affari che fa buona condotta, come auspicava l’ex ministro Lunardi, o la mafia va comunque affrontata senza risparmio di mezzi?»
Il procuratore Messineo non definisce la mafia un gigante inespugnabile. La fotografa per l’altezza che oggi ha. Un’altezza inferiore rispetto alla statura del passato. Concorda?
«Sì. In ogni caso, continuare a disegnare la mafia come un gigante inespugnabile equivale a rassegnarsi alla sua eternità criminale: il contrario del realismo storico propugnato sia da Falcone sia da Borsellino. I capi mafia di oggi non hanno neppure la statura e il prestigio di boss del passato come Stefano Bontate, uomo ben inserito nei salotti palermitani e non a caso definito il Principe di Villagrazia... Il vero problema è semmai scardinare il sistema di potere che della mafia si è sempre servito e che rischia di rimanere immune da ogni ventata repressiva che inevitabilmente colpisce solo chi spara. E quando non si spara, il sistema di potere mafioso si perpetua».
Dottor Ingroia, il suo collega Scarpinato parla apertamente del ritorno del Principe che, in questo caso, non è quello di Villagrazia. E si spinge quasi ad affermare che la mafia viene accesa o spenta a piacimento proprio da quel sistema di potere al quale lei allude. Non potrebbe apparire eccessivo?
«Non credo proprio. L’altalena dei consensi attorno all’azione giudiziaria antimafia non è estranea a precisi interessi diffusi nella società siciliana. I rapporti fra braccio armato della mafia e classe dirigente siciliana e nazionale sono costituiti dall’alternanza di alleanze e contrapposizioni che talvolta sfociano nella guerra. Proprio nei momenti di crisi dei rapporti fra i due mondi il consenso rispetto all’azione antimafia dei magistrati si dimostra frutto non di una disinteressata opzione a favore della legalità, bensì di smaliziati interessi di parte».
Può fare degli esempi?
«Prendiamo la stagione post stragi. Come si spiega l’unanime consenso all’azione della magistratura finalizzata alla cattura dei grandi latitanti da Riina a Provenzano? E come si spiega l’enorme divario di consenso all’azione dei magistrati a seconda che si occupi della cattura dei latitanti ovvero che si occupi dei rapporti mafia classe dirigente? C’è qualcosa che non funziona. Non c’è solo una finalità autoprotettiva da parte della classe dirigente, c’è qualcosa di più...»
Cosa?
«Da una parte l’esigenza di ridimensionare l’aggressività di Cosa Nostra nei momenti in cui affronta a viso aperto lo Stato, ma anche l’inconfessabile finalità di mantenere l’operatività di una mafia sommersa con la quale continuare a concludere affari nell’ombra».
Se è così la mafia ce la porteremo dietro ancora per parecchio...
«Il rischio c’è. Ecco perché occorre un urgente segnale di discontinuità rispetto al passato. Un aperto segno di rottura con questa classe dirigente siciliana che ha vissuto di affari e favori e che, tutt’ora, si dichiara antimafiosa. Siamo in una fase di grande confusione, anche di ruoli, e compenetrazione fra mondi diversi. Sarebbe sbagliato parlare di società civile per bene separata dal mondo mafioso. Abbiamo oggi una mafia più civile e una società più mafiosa».
Siamo all’imbarbarimento?
«Una mafia sempre più in giacca cravatta e una società che cambiandosi abito troppe volte al giorno sceglie il travestimento. Insomma, abbiamo interi pezzi di società che hanno ormai introiettato i modelli comportamentali dei mafiosi. E lo si vede in tutti i campi».
Quali?
«Temo che nessuna figura sociale ne sia risparmiata. Mi preoccupa che nei più disparati ambienti, compresi quelli istituzionali, il dossieraggio e il ricatto sembrano essere all’ordine del giorno».
Sente odore di servizi?
«Ciò che si legge sui giornali è certamente allarmante».
Si riferisce al fatto che Gian Carlo Caselli era nell’elenco dei magistrati "pericolosi" per i settori occulti del Sismi?
«Evidentemente Caselli, come procuratore di Palermo, dava fastidio. Del resto non sarebbe l’unico intervento contra personam che Caselli ha subito... Se questo è lo scenario, il vero segno di discontinuità non si dà solo arrestando i mafiosi e con uno straordinario impegno di uomini sul territorio, lo si dà soprattutto con un taglio netto con quel pezzo di classe dirigente che è il vero nucleo del sistema di potere mafioso».
Ricorda Leonardo Sciascia quando diceva che lo stato italiano se volesse fare davvero la guerra alla mafia dovrebbe decidere di suicidarsi?
«Aveva ragione. Ma è anche vero che è possibile una dolorosa operazione chirurgica, salvando le parti sane che sono la maggioranza. La questione è essere disposti a pagare un prezzo, se parliamo di politica, in termini di voti e di consenso».
Sintetizza un pacchetto di misure antimafiose che la politica potrebbe varare e non vara?
«Tirare fuori dai cassetti del ministero della giustizia - tanto per cominciare - il progetto del testo unico della legislazione antimafia varato dal primo governo Prodi e mai proposto in Parlamento».
Che c’era scritto?
«La revisione e l’aggiornamento dei più importanti strumenti per colpire i due nodi del rapporto mafia - classe dirigente siciliana: la riforma del concorso esterno sul terreno mafia-politica, e la revisione degli strumenti per colpire i patrimoni dei mafiosi sul terreno mafia-economia. Sarebbe un’ottima partenza».
* www.unita.it, Pubblicato il: 11.11.06 Modificato il: 11.11.06 alle ore 12.28
Calabria, intoccabili sotto tiro
Si comincia a sradicare il grande malaffare*
di Giovanni Ruggiero *
Un verminaio sotto l’acqua cheta: ecco cosa emerge dall’inchiesta che in queste ore sta sconvolgendo la Calabria e scuote tutti noi, quando dai provvedimenti di custodia cautelare emergono non solo i nomi dei soliti delinquenti, ma anche quelli di un giudice, di un avvocato, di un ex presidente della giunta regionale e di funzionari pubblici ritenuti al di sopra di ogni sospetto. L’idea dello stagno immobile l’aveva già resa la Direzione investigativa antimafia informando il Parlamento. Calma piatta, o quasi, in tutto il Vibonese e in tutte le altre province dove il clan dei Mancuso riesce ad arrivare con i suoi tentacoli. Ma tutto in silenzio, piano piano, badando a non smuovere troppo le acque: senza spari, senza gangsterismi alla napoletana con i morti voluti e quelli capitati per caso. La provincia di Vibo in testa, e poi tutte le altre, sono colpite dal fenomeno dell’usura e delle estorsioni di esclusivo appannaggio della criminalità. Questa stabilità nel controllo del territorio richiedeva, appunto, «una situazione dell’ordine e della sicurezza pubblica apparentemente non allarmante, con un numero relativamente basso di gravi eventi delittuosi». L’acqua cheta, appunto, senza il fragore delle onde in superficie, per consentire i mille traffici illeciti, appena un centimetro sotto il pelo dell’acqua. E più si è andati a scandagliare il fondo dello stagno più melma è venuta a galla.
I Mancuso e i loro compari che lì la fanno da padroni, come questa inchiesta sta a dimostrare, hanno infatti compiuto un salto di qualità. La strategia è cambiata e, per un maggior controllo del territorio, hanno puntato alla conquista delle istituzioni. Senza fare confusione, ma avvicinando gli insospettabili, tentandoli, lusingandoli blandendoli. Fino a che, con una espressione che indigna per la sua volgarità, hanno cominciato a "mangiare" anche loro. Avrebbe "mangiato" questo avvocato, pare da tutti stimato, avrebbe "mangiato" questo magistrato che fino a ieri ha dato prove di o nestà e di dedizione allo Stato, avrebbero infine "mangiato" amministratori e funzionari degli enti locali per consentire alla Dynasty dei Mancuso di arricchirsi sempre di più, trafficando con parti della pubblica amministrazione così da poter mettere le mani su parte di quella che è la principale miniera della Calabria: il turismo, patrimonio di tutti i calabresi. È come se questi sporchi traffici avessero tolto un po’ di mare e un po’ di spiaggia a ogni calabrese. Certamente, hanno minato la fiducia che qui in tanti hanno dello Stato. C’è un pericolo maggiore dell’acqua cheta che non è solo quello di far prosperare, indisturbati, gli scandali, le ruberie e il malaffare, quanto quello di impedire la nascita di una coscienza sociale.
Deve essere davvero qualcosa di eclatante e di efferato per far insorgere, per far gridare basta, come è accaduto dopo l’uccisione di Fortugno, quando, a cominciare dai giovani di Locri, i calabresi alzarono la testa. La delinquenza, invece, qui più che altrove, prima ancora di realizzare i propri interessi, proprio con questa apparente calma, e più sottovoce di come agisca a Napoli e in Campania, sta cercando di schiavizzare le coscienze, di condizionare la vita quotidiana e di appiattire ogni anelito e ogni speranza. È un tranello rischioso. Lo avvertono in queste ore i sacerdoti di una Lamezia non lontana da Vibo che, ancora all’oscuro di quest’ultima vicenda, hanno lanciato un appello ai mafiosi, perché si convertano, e a tutti i calabresi perché mettano insieme la loro vitalità, la loro reazione, la dignità e la fierezza dell’impegno educativo: tutti i valori che la mafia vuole aggredire, facendoli semplicemente sprofondare, per poi ricoprirli, nella acqua placida, putrida e melmosa.
* Avvenire