Quel desiderare la vita che è gioia e coraggio
di Marina Corradi (Avvenire, 22.11.2006)
Nel febbraio del 1917 una nave statunitense recante le insegne della Croce rossa fu silurata nelle acque della Manica dai sottomarini dell’esercito tedesco, convinto che a bordo si trovassero truppe dirette in Europa. Sulla “Sussex” non c’erano soldati, ma invece civili malati, vecchi e bambini. Mentre la nave colpita imbarcava acqua e i passeggeri impazziti si gettavano sulle scialuppe, una vecchia suora notò una madre sola con tre bambini, la più piccola dei quali aveva pochi mesi di vita. Nella mischia di chi lottava per salvarsi la vita, la vecchia suora trovò il tempo di avvolgere stretta la neonata in un paio di lunghe calze di lana, dentro le quali fu passata di braccia in braccia fin dentro una scialuppa. Nella notte rigidissima della Manica in febbraio, quella lana salvò probabilmente la vita alla bambina, in tempi in cui non esistevano gli antibiotici, e forse gliela allungò, giacché questa storia ce l’ha raccontata quella stessa scampata, che era figlia di italiani, e oggi ha 90 anni, e figli e nipoti. Quanto alla vecchia suora, la madre della neonata non seppe mai, nella calca, se si era salvata o no. Singolare comunque, sul ponte di una nave che sta affondando, quando morire sembra più probabile che sopravvivere, quel gesto di protezione per una figlia d’altri, mai vista prima, e, fra tutti, la più piccola. Quasi, in quel momento di destino angoscioso e incerto, un voler salvare la vita più giovane, appena all’aurora, come dicendo che non era quel mare livido e gelido, e la guerra e la morte, l’ultima parola.
Questa storia di una guerra lontana ci è tornata in mente a un passo del messaggio della Conferenza episcopale italiana per la prossima giornata della vita, che cade il 4 febbraio 2007. «La vita va amata con coraggio. Non solo rispettata, promossa, curata, allevata. Essa va anche desiderata. Il suo vero bene va desiderato, perché la vita ci è stata affidata e non ne siamo i padroni assoluti, bensì i fedeli, appassionati custodi».
Non solo rispettare, allevare, curare, ma desiderare la vita. Altrimenti, si potrebbe essere solo come bravi coltivatori, attenti al terreno, all’acqua e al sole. Desiderare è di più, è spiare i germogli e compiacersi dei frutti maturi. È non aver paura nemmeno delle zolle nere e spaccate di novembre, certi che proprio lì sotto, nell’apparente trionfo della morte, rinasceranno i semi. E, quindi, è saper stare anche accanto a uno che sta morendo, senza lasciarsi prendere dalla disperazione, senza che quello ci legga in faccia che non c’è alcun senso, in quelle sue ultime ore.
Ha scritto la filosofa ebrea Hannah Arendt che «Il corso della vita umana diretto verso la morte condurrebbe inevitabilmente ogni essere umano alla rovina e alla distruzione se non fosse per la facoltà di interromperlo e di iniziare qualcosa di nuovo, una facoltà che ci ricorda in permanenza che gli uomini, anche se devono morire, non sono fatti per morire ma per incominciare». Non per morire, ma per incominciare. Quando nasciamo e quando moriamo. È questo eterno nostro cominciare, ciò che dobbiamo, oltre che curare, desiderare. Esserne «appassionati custodi». Come quella suora sulla Manica, quella sconosciuta di quasi cent’anni fa.