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Per l’Italia di Gioacchino da Fiore e di Dante !!!

MATEMATICA E ANTROPOLOGIA, ALTRO CHE MISTERO. GALILEO GALILEI E’ GALILEO GALILEI ... E LA TRASCENDENZA CRISTIANA NON E’ LA TRASCENDENZA "DELL’ENTE ...CATTOLICO-ROMANO", DEL VATICANO!!! Cerchiamo di "non dare i numeri": il "Logos" non è un "Logo", e la "Charitas" non è la "caritas"!!!

domenica 31 dicembre 2006 di Federico La Sala
HAI VINTO, O GALILEO! L’elogio "laicista" di Piergiorgio Odifreddi diventa per Michele Smargiassi (seguendo De Santillana) un "Hai vinto, Vaticano"!!!
Aristotele fu un uomo, vedde con gli occhi, ascoltò con gli orecchi, discorse col cervello. Io sono un uomo, veggo con gli occhi, e assai più che non vedde lui: quanto al discorrere, credo che discorresse intorno a più cose di me; ma se più o meglio di me, intorno a quelle che abbiamo discorso ambedue, lo mostreranno le nostre ragioni, e non (...)

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> MATEMATICA E ANTROPOLOGIA, ALTRO CHE MISTERO. GALILEO GALILEI E’ GALILEO GALILEI ... ---- La matematica inafferrabile (di Giulio Giorello).

sabato 29 novembre 2008

Scienza

Spesso gli studiosi somigliano a Cristoforo Colombo: partono con un programma di ricerca e arrivano dove non si aspettavano

La matematica inafferrabile

Sfugge alle categorie dei filosofi e si spinge su territori inesplorati

di Giulio Giorello (Corriere della Sera, 29.11.2008)

«La biologia studia gli organismi viventi; l’astronomia i corpi celesti; la chimica la varietà della materia e i modi delle sue trasformazioni... ma che cosa studia la matematica?», chiede il grande matematico russo Yuri Manin, ora alla Northwestern University a Evanston nell’Illinois. La domanda sembra assillare non pochi studenti ai quali, forse, manca il coraggio di rivolgerla al loro insegnante. La differenza importante, però, è che Manin ha tentato una risposta: «La matematica ha a che fare con concetti che si possono trattare come se fossero oggetti reali».

Concetti che devono essere sufficientemente chiari da essere riconoscibili in ogni contesto in cui possano venire utilizzati, ma anche dotati di «forti potenzialità di connessione con altri concetti dello stesso tipo». Tali connessioni possono a loro volta assurgere a oggetti, iniziando «una gerarchia di astrazioni» che in linea teorica non ha fine: così, per esempio, l’algebra ha fatto diventare le operazioni aritmetiche i suoi nuovi oggetti, ecc. Salendo in questa gerarchia, comunque, non si perde il contatto con la realtà: decollando dal loro terreno di origine le nozioni matematiche si rivelano capaci di applicazioni insospettate, sia nella spiegazione dei fenomeni naturali sia nell’intervento tecnologico. Pensiamo alla lunghissima storia che lega la prima attività del contare - coi vecchi e familiari numeri interi uno, due, tre ecc. - ai computer superveloci. Qualche millennio fa alcuni «protomatematici», ovvero prudenti pastori e sagaci amministratori, «numeravano pecore in fenicio», per dirla con una battuta del poeta Ezra Pound; oggi potenti apparati di calcolo contribuiscono a dimostrare sofisticate congetture, realizzando un’economia di pensiero che cambia la natura stessa del lavoro umano.

Questo e altri aspetti della ricerca matematica sono messi in luce dall’articolo di Manin che apre il secondo volume della serie (di quattro) La matematica, a cura di Claudio Bartocci e di Piergiorgio Odifreddi (Einaudi). È dedicato a Problemi e teoremi, cioè alla linfa vitale di un’attività che forse più di ogni altra, a parte la musica, è insieme comprensione scientifica e opera d’arte, costruzione linguistica ed espressione di razionalità. Il lettore vi troverà la storia delle grandi congetture che hanno resistito agli sforzi umani per decenni o addirittura secoli, cedendovi solo di recente, come «l’ultimo teorema di Fermat» (dimostrato da Andrew Wiles) o la congettura di Poincaré (dimostrata da Grigori Perelman), e quelle che ancora restano delle sfide aperte all’immaginazione di coloro che amano leggere nel grande libro matematico del mondo.

È il caso, per esempio, della celebre «ipotesi di Riemann», cui è dedicato nel volume il bel saggio di J. Brian Conrey. E tutti i collaboratori mostrano come problemi e teoremi possono anche venire immersi in «programmi di ricerca», simili, per certi versi, a carte geografiche in cui alcune aree sono raffigurate con notevole chiarezza (sono quelle da dove partiamo: gli elementi di cui siamo sufficientemente sicuri), mentre altre vengono ricostruite sulla scorta di analogie (sono le «terre incognite»: i nuovi settori da investigare) - sicché le indagini qui assumono i caratteri dell’avventura, non troppo diversamente dall’impresa di Colombo. Com’è noto, questi si sbagliò nel suo tentativo di raggiungere l’Oriente passando per l’Occidente; ma l’ostacolo che trovò sulla sua rotta verso le Indie doveva rivelarsi un continente ricco di risorse inaspettate. E - dal calcolo infinitesimale alle geometrie non euclidee, dalla teoria dei numeri allo studio delle probabilità, dalle matematiche combinatorie alla topologia generale - l’impresa dei matematici ha saputo trovare la sua «America della conoscenza ». Si è trattato di un tipo di esplorazione così vario e complesso da rendere impossibile una rigida definizione dell’essenza della matematica. Sono stati soprattutto i filosofi a cimentarsi in questa impresa degna del despota Procuste; ma appena ne avevano tracciati i confini, si accorgevano che ne era rimasta esclusa una qualche componente di grande rilevanza e fascino. E forse la matematica è simile a un organismo vivente, che non si può costringere in uno spazio angusto, come faceva quel mitico tiranno, senza ucciderlo.

Un po’ malignamente Manin osserva come, al tempo dell’antica Roma, che si veniva aprendo sempre di più alla cultura greca e a quella orientale, la matematica non ebbe grandi riconoscimenti: i valori imperiali di coraggio, onore, gloria, disciplina le lasciavano poco spazio. Colpa degli stessi matematici? Quando si mettono al tavolo e iniziano a lavorare, essi «dimenticano valori in conflitto come autorità, efficienza, ambizione, fede e così via». Ma questa indipendenza è il segreto della loro forza: non solo nei confronti del potere, ma anche della stessa filosofia, che talvolta cerca di rinchiudere l’animale matematico in gabbia, salvo accorgersi che, appena serrato il chiavistello, questo è evaso.

Dobbiamo allora rinunciare a qualsiasi filosofia della matematica? O magari a qualunque filosofia, senza ulteriori qualificazioni? Le categorie filosofiche, al contrario dei concetti matematici, difficilmente diventano «oggetti» di quel tipo di indagine operativa che consente al matematico di trovare «al di là della superficie delle apparenze» (come diceva Bernhard Riemann) connessioni profonde tra campi apparentemente scollegati. Né esse hanno l’incisività delle idee portanti della fisica o della biologia - capaci di rinnovare di continuo ingegneria e biotecnologie. E infine, se è la matematica a innervare concettualmente l’impresa della conoscenza, c’è ancora bisogno di una filosofia che ci dica lei che cos’è la razionalità, e che cos’è la realtà?

Mi ricordo che (un po’ di anni fa) il mio maestro e amico Ludovico Geymonat, di formazione sia filosofica che matematica, ammoniva noi giovani a non cadere nella trappola di definizioni frettolose, guardando invece alla «effettualità» della pratica matematica (tra l’altro, segnalo che Bollati Boringhieri ha ristampato, di Geymonat, la Storia e filosofia dell’analisi infinitesimale, in origine 1948, con una nuova introduzione di Gabriele Lolli, che bene mostra come quel libro non sia affatto invecchiato).

Alle prese con problemi formidabili, armato degli strumenti concettuali che la tradizione gli fornisce, ma al tempo stesso sospettoso di tutto quello che viene dato semplicemente per scontato, il matematico creativo è davvero il cittadino di un paese ove «regna la libertà», come diceva Georg Cantor, che edificò nell’Ottocento l’imponente teoria dei «numeri infiniti», nonostante l’ostilità di autorevoli colleghi e le perplessità di importanti filosofi. Glossa Manin: questa libertà è «la libertà di scelta tra alternative incompatibili», e perciò - aggiungerei io - è un’assunzione di responsabilità. E dove c’è libertà c’è anche spazio per la (buona) filosofia.


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