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Politica

Lettera a Prodi, Fassino e Veltroni, da parte degli amici del Phorum Palestina e compagni

Sulla visita a Sharon: un documento da leggere subito e divulgare all’istante
sabato 21 maggio 2005 di Emiliano Morrone
All’On.le Romano PRODI
All’On.le Piero FASSINO
Al Sindaco Walter VELTRONI
Abbiamo appreso dalla stampa che avete in programma una visita in Israele, dove incontrerete ufficialmente il Primo Ministro Ariel Sharon. Riteniamo che questo incontro sia un atto politicamente inopportuno e moralmente deplorevole, per i seguenti motivi.
Ariel Sharon non è un leader politico qualsiasi: è direttamente responsabile dell’assassinio di migliaia di uomini e donne, la cui unica colpa era quella di essere (...)

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> Bombardata Gaza migliaia in fuga. L’Onu chiede la tregua. Primo blitz via terra delle forze speciali israeliane. Nel racconto di Salem il dramma della Striscia

lunedì 14 luglio 2014


-  Bombardata Gaza migliaia in fuga L’Onu chiede la tregua
-  Primo blitz via terra delle forze speciali israeliane. Netanyahu: tempi lunghi
-  A decine di migliaia hanno lasciato le case dopo gli avvertimenti pre-raid
-  “Cinque minuti per fuggire di una vita non resta nulla”
-  Nel racconto di Salem il dramma della Striscia

-  di Fabio Scuto (la Repubblica, 14.07.2014)

GERUSALEMME. HANNO raccolto tutta una vita in pochi minuti, svegliato i figli che dormivano sulle brandine, zucchero e biscotti nelle buste di plastica insieme alle medicine, quattro magliette per i bambini in una sacca sformata, i documenti e le tessere alimentari delle Nazioni Unite nella borsa.

NON c’è stato tempo né lo spazio per prendere né qualche libro di scuola né un ricordo, un oggetto caro, la foto del matrimonio o quella vecchia del nonno in uniforme egiziana, quando Gaza apparteneva a un altro mondo. Si sono trovati in strada in pochi minuti Salem Abu Halima con la moglie Farida e i due bambini. Il vecchio somarello bianco attaccato al carretto, hanno percorso i dieci chilometri per arrivare alla “Gaza Beach Primary School” dell’Onu, alla periferia della città, uniti nel destino alle altre decine di migliaia che per tutta la mattinata hanno abbandonato Beit Lahiya e Beit Hanun, le due cittadine nel nord della Striscia dove - annunciati da volantini e telefonate - i caccia F-16 israeliani hanno cominciato a bombardare a raso, con metodo, per distruggere le basi di lancio dei missili che anche ieri sono arrivati numerosi nei cieli israeliani. Tutti intercettati dall’Iron Dome, il “totem” della Difesa aerea israeliana.

«Non c’era altra scelta, abbiamo dovuto obbedire all’ordine degli israeliani di sgomberare tutta la zona. Abbiamo due figli da salvare, il resto è andato perduto. Già non eravamo niente per il mondo e adesso è come essere nessuno», racconta ancora Salem. Le strade di Beit Lahiya, settantamila abitanti, si sono svuotate dall’alba di ieri dopo una notte di violentissimi bombardamenti. Ma soprattutto dopo il lancio dei volantini che davano agli abitanti tempo fino a mezzogiorno per abbandonare l’abitato. «Ci siamo mossi all’alba, tanto con quei bombardamenti nessuno poteva dormire, uno ogni dieci minuti: è stato terrificante », dice con un filo di voce Farid che in due viaggi con la moto è riuscito a portare i sei membri della sua famiglia fino a questa scuola dell’Unrwa, dove spera non si abbatta un bombardamento. Altre migliaia in fuga hanno cercato ospitalità da parenti e amici, ma per molti la bandiera blu dell’Onu sembra il rifugio con migliori garanzie. L’Unrwa ha deciso di aprire per ora dieci - delle oltre duecento scuole che gestisce nella Striscia - per dare un rifugio a questa prima ondata di arrivi.

Oltre ventimila palestinesi in fuga da Beit Lahiya sono arrivati ieri nelle scuole dell’Onu in carretti trainati da asini o cavalli pieni di bambini, bagagli e materassi, c’è chi è arrivato su un taxi sgangherato, in macchina, in moto. I meno fortunati a piedi, trascinando i resti di una vita dentro un trolley malridotto.

Anche Mohammed Sultan ha caricato tutto quel che ha potuto sul suo carretto trainato da un cavallo, la moglie, i suoi cinque figli aggrappati alle borse a qualche masserizia messa insieme in tutta fretta. Non c’era più posto per lui e così ha camminato per chilometri assieme ad altri familiari adulti in direzione di «una scuola con la bandiera blu». Samari al-Atar viveva nel quartiere di Atatra, un’altra delle zone “calde” che è stata duramente bombardata ieri dall’aviazione israeliana. «Abbiamo cercato riparo in casa prima durante la notte, i muri tremavano e i bambini piangevano di paura. Luda, la più piccola tremava e aveva gli occhi sbarrati. È stato come scegliere tra la vita e la morte», racconta in lacrime, «e poi mentre stavamo scappando hanno ricominciato a sparare tutto intorno, non abbiamo potuto portare nulla con noi, i nostri figli sono a piedi nudi ». Nadia, la moglie descrive il terrore della fuga alle prime luci dell’alba con gli aerei israeliani che volavano in cerchio sopra le loro teste. «La gente urlava e c’erano vecchi che non ce la facevano a camminare da soli, i più giovani li aiutavano. Non c’è l’elettricità e le strade erano buie come la pece ».

I banchi sono stati messi lungo il corridoio per sgombrare le aule e dare un tetto a tutti, ma è impossibile. Giardini e palestra sono invasi da un tappeto di materassi e coperte, una tenda tirata su con un lenzuolo e quattro paletti. Altre scuole verranno aperte dell’Unrwa perché il flusso degli sfollati non si ferma.

All’interno del complesso scolastico i bambini sfollati disegnano su una lavagna con il gesso rosa e giallo: elicotteri israeliani e carri armati che sparano, i razzi palestinesi che partono. Suha Zyed ha ancora tutte le sue borse chiuse, come se dovesse scappare ancora d’improvviso. «Non è la prima volta che bombardano anche le scuole, e anche gli ospedali sono stati colpiti. Di sicuro a Gaza non c’è niente. Che ne sarà di noi adesso? Abbiamo perso tutto: il nostro futuro e anche il futuro dei nostri figli».


Dopo l’ultimatum di Tel Aviv

Fuga da Gaza

Hamas: “Non lasciate le case”

di Cosimo Caridi (il Fatto, 14.07.2014)

Striscia di Gaza. Un paio di cuscini e poche coperte, Mahmoud non ha caricato altro sul retro della sua moto. Moglie e due figlie si sono strette sulla sella. Non era ancora l’alba, stavano per consumare la colazione prima del lungo digiuno del Ramadan. “I vicini ci hanno bussato, hanno detto di scappare, gli israeliani stavano arrivando. Non abbiamo fatto in tempo a prendere nulla, nemmeno le scarpe delle bambine”.

L’Unwra, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei rifugiati palestinesi, ha aperto le scuole per accogliere i nuovi profughi. In principio quattro, poi otto strutture. Il rovente sole di luglio non fa in tempo a scaldare le pietre bianche che gli edifici sono già pieni. A una prima conta almeno in 4 mila hanno abbandonato le loro abitazioni per essere accolti dalle Nazioni Unite. Ma questa è solo una piccola parte, molti altri hanno preferito andare a casa di parenti al centro della Striscia.

In questo contesto le parole di papa Francesco - fautore della preghiera di pace in Vaticano nel giugno scorso con Abu Mazen e Simon Peres - rivolte ieri durante l’Angelus non sembrano sortire effetti: è stato “un accorato appello” quello di Bergoglio che ha esortato “le parti e tutti quanti hanno responsabilità politiche in Terrasanta “a non risparmiare la preghiera e a non risparmiare alcuno sforzo per fare cessare ogni ostilità” .

A metà mattinata viene diffuso un volantino dell’Idf (esercito israeliano) in cui sono indicate specifiche aree nel nord della Striscia che verranno attaccate. “I civili hanno tempo di allontanarsi entro mezzogiorno. Chiunque trascuri le istruzioni dell’esercito metterà la vita di se stesso e della sua famiglia a rischio. Attenzione. L’operazione dell’esercito sarà breve”.

Un ultimatum a cui Hamas risponde immediatamente in modo opposto con questo invito: “Non lasciate le vostre case”. Intanto si contano gli attacchi e i morti, 21, della notte precedente. Il raid israeliano più micidiale è stato contro una moschea: in 16 hanno perso la vita e i feriti sono almeno 50. A fine giornata il bilancio si aggraverà ancora: 183, secondo il ministero della Salute di Gaza. Nella crisi del novembre 2012 i palestinesi uccisi furono 171.

I bambini sciamano per il cortile della scuola dell’Unwra di Nasser, pochi di loro hanno capito cosa sta succedendo. Ma Akram, sette anni e gli occhi azzurri, ha un piano: “Mettiamo questi banchi davanti all’ingresso così nessuno potrà entrare, nemmeno i soldati”.

LA SUA FAMIGLIA si è sistemata in una classe al primo piano, oltre venti persone, la quasi totalità sotto i quindici anni. Per terra qualche stuoia e in un angolo una pentola che bolle. “Perché il presidente Abu Mazen non si decide a dire qualcosa, a fare qualcosa” urla il fratello maggiore di Akram, con la rabbia che solo un adolescente sa esprimere.

Intanto fuori dalla scuola continuano ad arrivare famiglie alla ricerca di un posto dove sistemarsi. Passano le 12 e tutti si aspettano l’inizio di bombardamenti israeliani, che però non arrivano. Hamas tenta quindi di scongiurare la fuga collettiva dalle zone periferiche e per bocca di un suo portavoce dichiara: “Gli abitanti di Gaza non devono ascoltare gli ordini d’Israele di abbandonare le loro case. Ci devono restare. Questa è una guerra psicologica”.

A fine giornata sono oltre 10 mila i gazawi in fuga verso aree più sicure a centro della Striscia. L’esercito israeliano dovrebbe colpire le zone a nord, dalle quali partono i razzi che il movimento islamico lancia contro Tel Aviv e Gerusalemme.

L’AVIAZIONE vorrebbe bonificare le aree per evitare di cadere in trappole preparate da Hamas, il passo successivo sarebbe l’invasione via terra che in realtà è già iniziata con azioni specifiche condotte da truppe d’elitè, per riuscire a colpire la dirigenza del movimento islamico. I leader di Hamas sono nascosti da tempo e cambiano con frequenza i loro rifugi. Gli attacchi aerei si basano su informazioni precise, ma sovente non riescono a colpire come previsto. Sono i civili, più spesso, a cadere al posto dei miliziani di Hamas. “Questa è casa mia e non me ne vado. Se devo morire preferisco farlo qui”.

Sono in pochi a restare a Beit Lahia, ma Adnan non ha intenzione di muoversi. “La mia famiglia è dovuta scappare nel ’48, dopo la creazione di Israele. I miei genitori erano ancora bambini e vennero a vivere qui. Ma io sono un adulto e non voglio scappare né dalle bombe, né dall’esercito e ancor meno dalle bombe dell’esercito israeliano”.


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