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Politica

Lettera a Prodi, Fassino e Veltroni, da parte degli amici del Phorum Palestina e compagni

Sulla visita a Sharon: un documento da leggere subito e divulgare all’istante
sabato 21 maggio 2005 di Emiliano Morrone
All’On.le Romano PRODI
All’On.le Piero FASSINO
Al Sindaco Walter VELTRONI
Abbiamo appreso dalla stampa che avete in programma una visita in Israele, dove incontrerete ufficialmente il Primo Ministro Ariel Sharon. Riteniamo che questo incontro sia un atto politicamente inopportuno e moralmente deplorevole, per i seguenti motivi.
Ariel Sharon non è un leader politico qualsiasi: è direttamente responsabile dell’assassinio di migliaia di uomini e donne, la cui unica colpa era quella di essere (...)

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> Israele/Palestina. Dopo un lungo periodo di «quasi silenzio» del mondo intero, durante il quale solo proteste sporadiche hanno fatto ricordare agli israeliani che non possono continuare a dominare milioni di palestinesi senza diritti, ora la frontiera esplode.

sabato 31 marzo 2018

Barghouti: unità e mobilitazione popolare

Palestina. Secondo il teorico della resistenza non violenta anche Hamas comprende che solo la mobilitazione popolare e pacifica può raggiungere gli ‎obiettivi che sono di tutti i palestinesi

di Michele Giorgio (il manifesto, 31.03.2018)

GERUSALEMME Esponente di spicco della società civile palestinese e storico sostenitore della resistenza ‎popolare contro l’occupazione, Mustafa Baghouti vede nella massiccia partecipazione a ‎Gaza alla Grande Marcia del Ritorno il nuovo orizzonte al quale la popolazione e le forze ‎politiche palestinesi dovranno guardare da oggi in poi. Lo abbiamo intervistato mentre da ‎Gaza giungevano continue notizie di morti e feriti.‎

Sangue e politica, Gaza dimostra ancora una volta la sua centralità nella questione ‎palestinese

Non è stato solo un giorno di morte e dolore di cui è responsabile solo Israele. Ci sono due ‎punti molto importanti emersi dalla Grande Marcia del Ritorno. Il primo è che oggi ‎‎(ieri,ndr) abbiamo visto sul terreno una manifestazione concreta dell’unità palestinese. ‎Uomini , donne, ragazzi, bambini hanno partecipato a un’iniziativa che per giorni gli ‎israeliani hanno etichettato come violenta, aggressiva, minacciosa e che invece voleva solo ‎commemorare la Nakba e il Giorno della terra e ribadire che i palestinesi non ‎dimenticheranno mai i loro diritti. L’unica aggressione è arrivata da Israele che ha schierato ‎carri armati, blindati e tiratori scelti contro civili disarmati che manifestavano per i loro ‎diritti e per difendere la loro memoria storica. Il secondo è che tutte le formazioni politiche ‎palestinesi, incluso Hamas, hanno adottato la resistenza popolare non violenta. Il ‎movimento islamico al di là dei suoi proclami e delle sue manifestazioni di forza, in realtà ‎ora comprende che solo la mobilitazione popolare, non violenta, può raggiungere gli ‎obiettivi che sono di tutti i palestinesi. A cominciare dalla fine dell’assedio di Gaza. Sono ‎sicuro che vedremo sempre di più (nei Territori palestinesi occupati) manifestazioni con ‎migliaia e migliaia di persone.‎

Chiedete alla comunità internazionale di intervenire

Condannare Israele è il minimo che è chiamata a fare ciò che definiamo come la comunità ‎internazionale. L’Europa, ad esempio, a parole difende diritti e democrazia e poi resta in ‎silenzio davant ai crimini e agli abusi che commette Israele. Non fiata e quando lo fa è solo ‎per ripetere slogan e formule sterili che non servono a nulla in una situazione regionale e ‎internazionale profondamente mutata in cui, peraltro, gli Stati Uniti hanno adottato ‎apertamente la politica (del premier israeliano) Netanyahu proclamando Gerusalemme ‎capitale di Israele e disconoscendo la storia della città e le rivendicazioni palestinesi.

Donald Trump probabilmente sarà di nuovo a Gerusalemme a metà maggio, per ‎partecipare all’apertura dell’ambasciata Usa nella città.‎

E quando sarà qui si renderà conto che i palestinesi non si arrendono e continuano la lotta ‎per i loro diritti malgrado debbano fare i conti con un Paese molto potente come Israele e ‎con la superpotenza mondiale, l’America. Sono certo che la resistenza popolare vista a Gaza ‎e in Cisgiordania in queste ore non solo andrà avanti fino al 15 maggio, quando Trump ‎dovrebbe essere qui, ma proseguirà dopo quella data. Si trasformerà in un movimento di ‎massa, pacifico ma molto determinato contro l’occupazione. Questa è l’unica strada che ‎abbiamo per resistere all’oppressione israeliana e per liberarci di essa. Il resto si è dimostrato ‎fallimentare.

Ritiene l’Autorità nazionale palestinese ai margini, non importante per la lotta ‎popolare che lei si aspetta nelle prossime settimane

Non dico questo ma certo l’Anp dovrà cambiare radicalmente la sua strategia e rinunciare al ‎suo attaccamento agli Accordi di Oslo del 1993 e alla formula negoziale degli ultimi venti ‎anni. Non ci crede più nessuno e il governo Netanyahu utilizza quelle vecchie intese per ‎proseguire indisturbato le sue politiche di occupazione e colonizzazione. La prima cosa che ‎l’Anp dovrà fare è mettere fine alla frattura (con Hamas, ndr) perché nessun palestinese la ‎vuole e può ancora tollerarla.‎


Il «panico» del ritorno uccide la pace

Israele/Palestina. Di fronte a un atto simbolico evocante l’idea del ritorno, l’uso della forza da parte israeliana è un messaggio ben chiaro: chi vuole attraversare la frontiera può essere solo un uomo morto

di Zvi Schuldiner (il manifesto, 31.03.2018)

Non è un semplice scontro e non lo si può misurare solo con il numero delle vittime. Comunque, a poche ore dall’inizio degli incidenti alla frontiera che chiude la Striscia di Gaza, i morti mentre scriviamo sono già quindici e centinaia i feriti.

Già nelle scorse settimane, la tensione era palpabile e sempre più crescente: le varie manifestazioni in programma recavano un titolo, «la marcia del ritorno», che scuoteva l’essenza stessa di Israele. Il ritorno dei rifugiati palestinesi.

Il ritorno di quanti furono espulsi dalle loro case o decisero di fuggire nel 1948. La guerra del 1967 cambiò la realtà territoriale del conflitto israelo-palestinese e la questione territoriale offrì - forse lo fa tuttora - la possibilità di arrivare un accordo storico fra i due popoli, fra due movimenti cresciuti a partire dalla fine del XIX secolo. Da una parte, il sionismo che proponeva «il ritorno alla terra dopo l’espulsione» quasi duemila anni prima; dall’altra il nazionalismo palestinese che iniziava a manifestarsi e si accentuava nel confronto con il sionismo. E a partire dal 1948 ecco l’idea del «ritorno alla terra dopo l’espulsione», come parte dell’essere palestinese.

L’inesistente processo di pace dopo l’assassinio del premier israeliano Ytzhak Rabin da parte di un israeliano estremista nel 1995, offre teoricamente la possibilità di un accordo basato sulla spartizione: i territori occupati nel 1967 sarebbero la base per uno Stato palestinese e il tanto atteso ritorno sarebbe circoscritto a quei territori e - forse - alcuni chilometri quadrati torneranno a quello che adesso è Israele.

L’altra possibilità, uno Stato unico in tutti i territori attualmente occupati da Israele, apre la porta a due possibilità: un apartheid sotto il dominio israeliano, oppure uno Stato democratico senza più la connotazione ebraico-sionista attuale.

I 343 chilometri quadrati della Striscia di Gaza nella quale due milioni di palestinesi vivono in miseria e sulla soglia di un’enorme crisi umanitaria, sono circondati da una zona militare chiusa che però non è ermetica, tanto che frequentemente alcuni palestinesi riescono ad attraversarla. Ma nelle ultime settimane il nervosismo è cresciuto enormemente; tutti temevano quanto sarebbe successo di fronte a una massa di palestinesi pacificamente in marcia per cercare di materializzare visivamente il ritorno.

Che succederà? Dovremo reprimerli con la forza e il mondo ci accuserà di crimini contro i civili? Il panico creato da questo possibile «ritorno» tocca i sentimenti più profondi degli israeliani. È anche la giornata della terra. In questo stesso giorno, nel 1976, le confische delle terre palestinesi in Israele portarono a scontri sanguinosi e la polizia israeliana assassinò sei palestinesi cittadini arabo-israeliani.

Oggi, in una delle espressioni più imponenti della resistenza palestinese, migliaia di persone stanno manifestando lungo il confine della Striscia. Enorme il nervosismo fra le truppe israeliane: «Potrebbero passare il confine e minacciare lo Stato»; ed ecco le prime vittime.

Era «previsto». Di fronte a un atto simbolico evocante l’idea del ritorno, l’uso della forza da parte israeliana è un messaggio ben chiaro: chi vuole attraversare la frontiera può essere solo un uomo morto, la forza è dalla nostra parte, attenzione.

Tutto ciò appartiene a una storia che la destra israeliana non può più permettersi: il panico creato dal ritorno è un chiaro condizionamento nei confronti della necessità di arrivare a un processo di pace evitando un peggioramento certo della situazione.

Dopo un lungo periodo di «quasi silenzio» del mondo intero, durante il quale solo proteste sporadiche hanno fatto ricordare agli israeliani che non possono continuare a dominare milioni di palestinesi senza diritti, ora la frontiera esplode. È un nuovo giorno della terra e il sangue versato è un’avvisaglia di conseguenze più gravi se non si prenderà una nuova strada.


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