Quando l’uomo diventa buono
di Antonio Ferrari (Corriere della Sera, 07.03.2011)
È scomodo, e politicamente scorretto, sull’onda retorica del «Mai più!» che abbiamo ascoltato dappertutto anche quest’anno dire che è inutile illudersi: «Non riusciremo mai a debellare dalla storia il male che gli uomini commettono contro altri uomini. Nonostante il trauma di Auschwitz, i genocidi e i crimini contro l’umanità sono continuati nei gulag staliniani, in Biafra, in Ruanda, in Bosnia e altri ne seguono ancora» . Parole dure e giudizio spietato quelli di Moshe Bejski, scampato alla deportazione grazia alla lista di Oskar Schindler e fondatore del Giardino dei Giusti di Gerusalemme. Bejski, con laica convinzione, sostiene una verità particolarmente indigesta e amara: è impossibile sradicare completamente il male. È infatti facile riprodurne le condizioni e ottenere un tacito consenso (silenzio, indifferenza, non ci riguarda), spesso assai più ampio di quanto possiamo immaginare.
Quando Hannah Arendt, che andò a seguire il processo contro Eichmann, scrisse per la prima volta della «banalità del male» , scatenando reazioni e polemiche velenose, riproduceva una sensazione autentica e intrisa di realismo. Ma che cosa fare, allora, per contrastare il male? Gabriele Nissim, scrittore e saggista, fondatore e presidente della Foresta dei Giusti, con sede a Milano, oppone al presunto ossimoro della «banalità del male» un altro ossimoro: La bontà insensata. È questo il titolo del suo libro, accompagnato da un sommario laconico («Il segreto degli uomini giusti» , Mondadori, pagine 266, e 18,50).
È un ossimoro in verità preso a prestito da uno che giusto è diventato, Vassilij Grossman. Il quale sosteneva che la bontà insensata è quella «dell’uomo per un altro uomo, una bontà senza testimoni, piccola, senza grandi teorie. È la bontà degli uomini al di là del bene religioso e sociale» . Grossman ha vissuto da protagonista la liberazione dei campi di sterminio, come giornalista al seguito dell’Armata rossa; e poi, da vittima, le persecuzioni staliniste. Grossman, con il suo esempio, ci tramanda l’idea che i giusti non sono eroi né uomini santi, ma sono coloro che un giorno, in un’ora, in un attimo, hanno salvato un essere umano, o hanno impedito che fosse compiuto un crimine, o hanno scelto di pagare il prezzo più alto alle loro idee.
È quindi quasi logico che i giusti siano in generale uomini fragili, imperfetti come noi tutti, e attratti dai piaceri terreni: come Dimitar Peshev, il bulgaro che salvò dalla deportazione tutti gli ebrei del suo paese; come Raul Wallenberg, il donnaiolo svedese che strappò alla morte migliaia di israeliti. Oppure come il tunisino, frequentatore di case chiuse, che rischiò la vita per aver nascosto in casa sua centinaia di ricercati dai nazisti. Peshev, come Perlasca, come il console fascista italiano di Salonicco Guelfo Zamboni, tutti assai poco loquaci, hanno sempre risposto: «Ho fatto il mio dovere» . È una lezione, la loro, semplicissima e straordinaria. Anche se in un mondo intossicato dalle iperboli, spesso non fa notizia.