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Per la pace e il dialogo, quello vero ...

LA LINGUA ITALIANA E L’ EUROPA. Il Presidente NAPOLITANO: l’italiano "è una lingua di cultura, che può forse diventare una lingua franca". MEDITERRANEO, IMMIGRAZIONE, E INTEGRAZIONE. UNA RICERCA SUL LAVORO DELLA "DANTE ALIGHIERI". ***50 ANNI TRATTATI DI ROMA: LA COMMISSIONE "UE" AGGIUNGE ANCHE L’ITALIANO ***

sabato 20 gennaio 2007 di Federico La Sala
[...] Scrive il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nella prefazione: «Il lavoro della Dante Alighieri, di cui questo libro è testimonianza, va in questa direzione: aiuta cittadini di altri stati a inserirsi nella nostra cultura, attraverso gli atti comunicativi più semplici, quelli che passano attraverso il "buongiorno" e la "buonasera", parole che aprono e chiudono una giornata di fatica quotidiana, accompagnata, forse, anche da qualche "grazie" ricevuto e dato. [...] (...)

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> LA LINGUA ITALIANA E L’ EUROPA. --- La prima civiltà d’Italia che fece dialogare Mediterraneo orientale e Nord Europa (di Maurizio Assalto - Tra Etruschi e Celti galeotto fu il vino).

mercoledì 14 marzo 2012

Tra Etruschi e Celti galeotto fu il vino

Da sabato ad Asti grande mostra sulla prima civiltà d’Italia che fece dialogare Mediterraneo orientale e Nord Europa

di Maurizio Assalto (La Stampa, 14.03.2012)

Nel 1875 le vanghe dei sabbiatori al lavoro nel Tanaro, nei pressi del ponte di corso Savona ad Asti, incocciarono in qualche cosa di inaspettato: un magnifico elmo crestato etrusco in lamina di bronzo, risalente al IX-VIII secolo a. C. Il prezioso reperto è il pezzo simbolo, e insieme la ragion d’essere, della grande mostra «Etruschi. L’ideale eroico e il vino lucente», a cura di Alessandro Mandolesi e Maurizio Sannibale, ospitata al Palazzo Mazzetti di Asti dal prossimo sabato al 15 luglio, e pensata sui fili di un legame tra Italia del NordOvest e Etruria più intrecciati di quanto non si immaginerebbe. Il vino, ma non solo.

Deposto ritualmente entro una buca nell’alveo del fiume, l’elmo era probabilmente il dono di un mercante etrusco di età villanoviana a un capo indigeno del basso Piemonte, che era allora abitato dai Liguri. Un oggetto prestigioso, ostentatorio, che denota un reciproco riconoscimento tra pari. In questa fase gli Etruschi sono in grande espansione, mirano a creare nuovi sbocchi per i lori prodotti e allo stesso tempo cercano di procacciarsi la materia prima di cui sono sprovvisti: quell’oro presente per esempio nelle sabbie aurifere del Biellese. La valle del Tanaro è una direttrice commerciale importante: permette di raggiungere, al di là delle Alpi, la valle del Rodano, e quindi la Cornovaglia da dove proviene lo stagno indispensabile per ottenere il bronzo. Un’altra direttrice, la valle del Ticino, attraverso il Novarese e il Verbano porta invece alla Svizzera e alla valle del Reno, dove sono stati ritrovati in grande quantità vasi etruschi legati alla cerimonia del vino.

All’espansione commerciale si accompagna quella culturale. Nell’area di Golasecca, tra Piemonte e Lombardia, nel VI secolo a. C. si scrive con le lettere dell’alfabeto etrusco, mentre da Busca, in provincia di Cuneo, proviene l’iscrizione funeraria di un personaggio locale trasferitosi in Etruria e tornato a morire nella terra natìa, che nell’epitaffio ha emblematicamente unito il proprio nuovo nome etrusco (Larth) a quello celtico (Motico). Nella cosiddetta «età dei Principi» (VII secolo a. C.) gli Etruschi svolgono un ruolo di cerniera tra il mondo mediterraneo orientale e l’Europa celtica: diffondono la cultura del vino (tracce etrusche sono state rilevate nel Dna dei vini francesi meridionali, come pure, sembra, nel Nebbiolo piemontese), la pratica del simposio, gli usi, i costumi e i miti mediati dai poemi omerici. Non sono inventori, ma grandi rielaboratori che fondono, adattano e semplificano, e mettono in comunicazione: veri e propri veicoli di cultura.

Nelle diverse sezioni della mostra questa funzione cruciale per la storia della civiltà (che farà inorridire certi sedicenti Celti d’oggi, ma era tutt’altro che sgradita ai loro avi) è illustrata attraverso 340 pezzi provenienti in gran parte dai Musei Vaticani e quasi tutti recuperati tra i materiali meno noti dei depositi. Ecco una semplice urna cineraria del IX secolo, da Tarquinia, chiusa da un elmo di terracotta, a ricostituire idealmente una testa umana, ossia parte di ciò che si è perso con la cremazione. Ecco un raffinato «vaso parlante» di bucchero (VII secolo, da Cerveteri) che proclama «Io sono di Ramutha Kansinai», una donna, a testimonianza del rilievo sociale femminile in quell’epoca. E poi i vasi greci e etruschi del VII e VI secolo con le immagini del riscatto del corpo di Ettore, dell’agguato di Achille a Troilo, di Polifemo accecato da Ulisse, che dicono molto sulla rapidità con cui si erano diffusi in Occidente i miti cantati da Omero. La grattugia di bronzo per polverizzare il formaggio caprino da mescolare (vietato inorridire) al vino rimanda alla stessa abitudine greca, così come da quelli greci sono indistinguibili l’elmo, lo scudo e gli schinieri esposti nella sezione dedicata all’oplitismo.

La rassegna propone anche la riproduzione in scala 1 a 1 di un paio di tombe dipinte, quella «delle Bighe» (Tarquinia, VII secolo) e quella «del Triclinio) (stessa zona, V secolo) che illustra splendidamente il momento del banchetto (il banchetto reale, ma anche, allusivamente, quello nell’aldilà) attraverso l’immagine di due sposi attorniati da figli, musici, danzatori, animali domestici e fiere. Mentre è un pezzo originale la Tomba della Scrofa nera, restaurata grazie alla Fondazione Cassa di Risparmio di Asti e qui riassemblata per la prima volta. Come pure è a suo modo una primizia il sarcofago di pietra lavica del IV secolo, da Tuscania, che ha sul coperchio un giovane libante e sul bassorilievo della cassa le immagini della strage dei figli di Niobe: scoperto nel 1830 e all’epoca smembrato tra il Museo Archeologico di Firenze e i Musei Vaticani, è ricomposto ad Asti dopo quasi due secoli.

In chiusura si torna al punto di partenza, il filo che unisce Piemonte e Etruria. Nell’ultima sala sono esposti i disegni preparatori di Pelagio Palagi per il gabinetto «all’etrusca» di Carlo Alberto nel diletto castello di Racconigi, insieme con le sedie nello stesso stile realizzate per il sovrano che fu il primo a vagheggiare l’unità d’Italia. E proprio in questa chiave risorgimentale - antistraniera e antiromana, ossia avversa alla Roma papalina - il re sabaudo, come già i Medici, si richiamò agli Etruschi: in un certo senso, i primi unificatori della Penisola.


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