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PARIA. Gli ultimi della Terra ...

L’INDIA E IL SISTEMA DELLE CASTE. A Mumbai (la ex Bombay), una grande manifestazione dei Dalits (gli "Intoccabili") per rendere omaggio ad AMBEDKAR, uno dei principali artefici della Costituzione indiana.

L’’intoccabilità’ è quella pratica, inerente all’impianto castale, che considera altamente contaminanti per i membri delle caste superiori i rapporti con i soggetti segnati da un’impurità permanente.
mercoledì 6 dicembre 2006 di Federico La Sala
[...] Nonostante il passare degli anni, Ambedkar rimane per i dalits il simbolo più importante delle loro lotte di classe. Dalit lui stesso, grazie alle sue capacità, Ambedkar riuscì a studiare e a farsi ammettere al college ma subì comunque sempre umiliazioni e discriminazioni dovute alla sua origine. Dopo aver studiato a New York alla Columbia University tornò in India dove si unì al movimento indipendentista e fu nominato membro della commissione incaricata di redigere la costituzione (...)

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> L’INDIA E IL SISTEMA DELLE CASTE. ---- Nonostante le numerose leggi garantiste e il sistema delle quote per pubblico impiego e università centinaia di milioni di cittadini sono ancora discriminati

martedì 30 settembre 2008

la Repubblica 30.12.2007

-  La rivolta dei fuoricasta
-  India ancestrale

-  La recente marcia su New Delhi dei dalit, gli intoccabili, e degli adivasi, gli aborigeni, che formano un quarto della popolazione indiana e che rivendicano terre e diritti, è la manifestazione-simbolo della complessa guerra di tutti contro tutti che da anni dilania il paese dei bramini
-  Nonostante le numerose leggi garantiste e il sistema delle quote per pubblico impiego e università centinaia di milioni di cittadini sono ancora discriminati
-  Nel 2005 il ministero dell’Interno ha contato ventiseimila casi di violenze commesse contro le caste inferiori: case distrutte, omicidi, stupri

È la rivolta degli intoccabili. Erano più di ventimila nelle strade di New Delhi, qualche settimana fa, i manifestanti arrivati alla meta dopo quasi un mese di marcia. Migliaia e migliaia di dalit, gli intoccabili fuoricasta, e adivasi, gli aborigeni delle tribù cacciati in gran numero dalle terre e dalle foreste ancestrali per far posto a industrie, dighe, ferrovie e autostrade della moderna, «incredible India». Erano partiti da Gwalior, nel Madhya Pradesh, e lungo tutti i trecento chilometri del percorso avevano gridato sempre lo stesso slogan: «Hal karo, bhai, hal karo, zameen ki samasya hal karo!», risolvete, per favore risolvete il problema delle terre. In un paese ormai abituato a rivolte, proteste e manifestazioni quotidiane di milioni di esclusi dal boom tecnologico, ben pochi giornali e tv hanno riferito di questa satyagraha su modello gandhiano dei poveri tra i poveri, giunti da tredici diversi stati della grande federazione.

Nemmeno quando il 19 ottobre tre partecipanti, membri della tribù sahariya, sono stati investiti e uccisi da un camionista ubriaco. Forse qualche titolo in più l’avrebbero guadagnato assaltando per protesta autobus, posti di polizia o uffici pubblici, come è successo altrove. Ma, fedeli ai principi non violenti, hanno sepolto i loro morti, gli hanno reso un omaggio commosso e si sono rimessi in cammino verso la capitale.

La marcia Gwalior-Delhi è solo l’ultima delle clamorose iniziative prese "dal basso" per tentare di risollevare le sorti di centinaia di milioni di cittadini inesorabilmente legati a uno status sociale che ha matrici religiose antiche e, evidentemente, ancora indelebili nonostante la miriade di leggi garantiste scaturite dalla nobile Costituzione scritta sessant’anni fa dallo storico leader dei dalit Bhimrao Ambedkar.

Dalit e adivasi - rispettivamente il sedici e l’otto per cento della popolazione - hanno teoricamente goduto in questo ultimo mezzo secolo di privilegi impensabili nel passato, a partire dalle quote riservate di impieghi pubblici e posti nelle università. Ma una grande massa di almeno mezzo miliardo di esseri umani continua a essere in gran parte vittima dei pregiudizi inculcati a ogni livello nel dominante sistema induista di caste dei varna (letteralmente, i colori), formati dalle categorie "superiori" dei sacerdoti-intellettuali bramini, dei guerrieri kshatriya, dei commercianti vaisya, e da quella inferiore ma numericamente dominante dei servitori, o sudra, pari al cinquanta per cento del miliardo e cento milioni di indiani. Anche questi ultimi, raccolti sotto l’altrettanto discriminante denominazione di Obc (sigla inglese per "altre caste arretrate") subiscono a loro volta il peso di un’atavica sottomissione, di un peccato originale che nell’induismo significa "impurità", "intoccabilità". Come i dalit e gli aborigeni, ben pochi sudra-Obc hanno posti rispettabili o possiedono terre proprie, oltre a essere spesso vittime di abusi razziali. Ma il diritto alle quote riservate acquisito grazie al loro peso elettorale - più che a criteri di giustizia sociale - ha creato, all’interno del ginepraio di oltre tremila caste e sottocaste delle Obc, sacche di privilegio che sono andate a pesare, ancora una volta, sugli ultimi gradini del sistema.

È in questa fase storica che dal cilindro magico della «più grande democrazia dell’Asia» è emersa nel maggio di quest’anno Mayawati Kumari, una vera e propria regina dei dalit destinata - almeno nei suoi intenti - a cambiare per sempre il volto politico e sociale del continente. Le immagini della sua terza cerimonia d’investitura a primo ministro dell’Uttar Pradesh, il più popoloso Stato dell’India, sono state celebrate come le più significative icone della fine di un’era. Frotte di neo-ministri bramini, che in passato non avrebbero mai mangiato al suo stesso tavolo, si sono prostrati a toccarle la veste in segno di deferenza, dopo che con abile mossa strategica se li è fatti alleati per battere il precedente governo dominato dal potente clan Obc degli Yadav. In America, dove si guarda con attenzione inedita all’India, il settimanale Newsweek ha inserito Mayawati tra le otto donne più influenti del mondo e la sua ibrida alleanza intercasta è seguita con ansia crescente dallo stesso governo in carica a Delhi, consapevole che la politica liberista del Congresso ha lasciato indietro anche un numero consistente di bramini, incapaci di preservare i privilegi e stare al passo coi tempi.

E alla vigilia di Natale il partito di Sonia Gandhi ha dovuto assistere in Gujarat alla vittoria di un altro nemico altrettanto minaccioso, Narendra Modi, figlio di un venditore di tè e membro delle Obc nonché icona del Bjp, il partito castista e nazionalista per eccellenza, che tra il 1998 e il 2004 ha governato il Paese. Nonostante l’accusa di aver appoggiato le rivolte hindu che cinque anni fa costarono la vita a tremila musulmani, anche lui per la terza volta ha conquistato alle urne uno stato da trenta milioni di anime, raccogliendo i voti di elettori sia di casta alta che sudra come lui, compresi dalit e tribali. Il suo successo, attribuito al forte carisma e ai progressi economici nel suo stato fortemente industrializzato, di certo conferma che la dinamica dei varna e il loro peso in politica resta ancora un mistero insondabile. Ma se è vero che il sistema delle garanzie sociali e la modernizzazione del Paese hanno spinto in alto milioni di ex paria istruiti verso le categorie del ceto medio, le motivazioni della marcia dei ventimila da Gwalior a Delhi e i settemilacinquecento casi di abusi contro i dalit nel solo Uttar Pradesh dall’elezione di Mayawati in poi, dimostrano che per masse di fuoricasta le discriminazioni sociali sono forse peggiori che nel passato. L’ultimo dato reso noto dall’Ufficio nazionale d’investigazione del ministero degli Interni riporta nel 2005 oltre ventiseimila casi di atrocità contro le caste inferiori. È stato calcolato che ogni ora - specialmente nelle aree rurali - due dalit vengono uccisi, due case di poveracci vengono distrutte e due donne violentate. Nello stesso lasso di tempo altrettanti intoccabili subiscono aggressioni per i motivi più disparati, una violazione ai rigidi divieti imposti dalla tradizione di entrare nei villaggi o nei templi delle caste alte, di attingere acqua dalla stessa fonte, di indossare le scarpe o il cappello al passaggio di un bramino, di intrattenersi fuori dai loro ghetti o - peggio di tutti - reclamare terre o innamorarsi di una persona d’altra casta. Che non si tratti di fenomeni relegati alle sole popolazioni arretrate delle campagne lo dimostra un recentissimo caso avvenuto nella tecnologica Hyderabad, capitale dell’Andra Pradesh, dove la figlia di un celebre attore di basso ceto, Chiranjeevi, ha sposato il figlio di un bramino tra scandali e minacce di morte.

Chi viaggia per l’India impiega anni a capire lo stratificato e sempre più sottile processo di esclusione che da almeno tremila anni affligge la società, complice l’ortodossa interpretazione delle sacre scritture dei Veda fornita dai loro depositari, principalmente gli intellettuali bramini che dominano il mondo dei media e della politica pur professando spesso una mentalità laica. Un fenomeno al quale non sono immuni gli stessi comunisti che governano su modelli capitalisti stati come il Bengala e il Kerala, al punto da trasformare in un caso nazionale l’impresa di Gaurishankar Rajak, un lavapanni del villaggio di Dumba, nel Jharkhand, che tutte le settimane da ventuno anni scrive a mano e distribuisce a sue spese in ciclostile un battagliero giornaletto dedicato ai problemi dei dalit come lui.

I casi eclatanti di cronaca non mancano mai, l’ultimo qualche tempo fa proprio in un villaggio dell’Uttar Pradesh governato da Mayawati, dove un’anziana dalit di nome Jeewam Shri è stata data alle fiamme dal padre di una ragazza di ceto elevato, che non voleva fidanzarla al figlio di Jeewam. Prima di morire la donna ha fatto il nome del suo aggressore ma, invece di ribellarsi, il promesso sposo e gli altri parenti hanno preferito abbandonare il villaggio. Spesso infatti la giustizia indiana procede con tale inefficacia o lentezza che le vittime diventano bersaglio di ulteriori violenze, com’è accaduto lo scorso anno a un attivista dalit del Punjab, Bant Singh, al quale sono stati mutilati tutti e quattro gli arti per aver cercato giustizia contro i violentatori di sua figlia, tutti membri di una casta superiore.

Anche casi di massacri contro intere comunità di intoccabili, pure riportati con grande risalto dalla stampa, sono finiti senza colpevoli. Come nello stato Far west del Bihar, dove opera la milizia dei latifondisti hindu Ranvir Sena. Con la giustificazione di voler fare piazza pulita dei maoisti naxaliti che si battono con le armi contro i soprusi dei proprietari terrieri bhumihar, il Ranvir Sena ha portato a termine dalla sua nascita nel ‘94 una clamorosa serie di stragi rimaste tutte impunite: le più eclatanti nel ‘97 a Laxmanpur Bathe (sessanta dalit uccisi tra cui ventinove donne e sedici bambini), nel gennaio del ‘99 a Shanker Bigha (ventitré vittime), e nel febbraio dello stesso anno a Narayanpur (dodici morti).

Ma il Bihar non è un’eccezione. A distanza di quindici anni, il governo del Rajastan non ha ancora pubblicato gli atti del processo senza colpevoli contro gli autori della strage di diciassette dalit bruciati vivi nel villaggio di Kumber. E per arrivare a tempi più recenti, nel Maharastra, a poche ore dalla capitale del commercio e dello spettacolo Mumbay, procede tra sospette lentezze il processo contro gli autori del linciaggio di massa avvenuto un anno fa nel villaggio di Khairlanji. La quarantenne dalit Surekha e sua figlia di diciassette anni sono state picchiate, stuprate e mutilate pubblicamente da centocinquanta powar e kalar (due caste classificate come Obc) che hanno anche bastonato a morte altri due figli. La colpa di Surekha era stata di testimoniare contro dodici membri delle caste superiori - tali si considerano anche molte Obc - che avevano ucciso un dalit per una contesa di terre. Per la prima volta l’episodio sembrò scatenare un movimento nazionale dei fuoricasta, che scesero in piazza in diversi stati e continuarono per giorni minacciando di marciare su Delhi. Ma, come sempre nella storia degli oppressi dell’India, non sono riusciti a trovare un’unità di intenti e di azione, divisi da odi, pregiudizi atavici e interessi di clan spesso determinati dalla confusione legislativa con cui vengono applicate in diversi stati e con diversi criteri le stesse leggi di garanzia.

Le quote di posti pubblici e di accessi universitari riservate a dalit, tribali e Obc (fino a un tetto del 49,5 per cento del totale fissato dalla Corte suprema), dopo aver scatenato le proteste e le ondate di suicidi di membri delle caste alte nel ‘90, sono state anche la causa di vere e proprie guerre tra poveri per stabilire gli aventi diritto. Nel complicato mosaico di clan e sottoclan avvengono infatti spesso cambi di status che seguono di regione in regione esigenze elettorali, prima che di censo. Una delle battaglie più sanguinose si è verificata a giugno in Rajasthan tra gujjar e meena, con trenta morti, cento feriti e il blocco di importanti arterie come la Jaipur-Delhi. I gujjar, ex pastori oggi catalogati come Obc, avevano visto ridotte le loro percentuali di posti riservati dopo il declassamento alla loro medesima categoria - sempre per motivi di quote - della popolosa ed elettoralmente potente comunità di proprietari terrieri jaat. Per recuperare parte dei diritti persi, i gujjar del Rajasthan hanno allora chiesto di autodeclassarsi al gradino di scheduled tribe, ovvero di tribù aborigena. Ma così facendo andavano a intaccare la percentuale di posti riservati già attribuiti ai clan tribali dei meena e dei bhil, che hanno risposto con altrettanta durezza, sia nelle piazze che in parlamento.

Ovunque, nell’India delle "mille rivolte" raccontata da Naipaul, ci si batte ormai con le unghie e con i denti per un posto in quota, affidandosi al partito che promette più posti in cambio di voti, alimentando le critiche di quanti temono che la spartizione tra caste finirà con lo sgretolare un sistema, magari ingiusto ma consolidato e efficace, di avanzamento per meriti.

La realtà è che i meriti sono stati acquisiti dai ceti alti grazie al tradizionale accesso all’educazione, mentre i posti disponibili in uffici pubblici e scuole specializzate non sono facilmente moltiplicabili, specialmente oggi che avanza il processo di privatizzazione lasciato in mano alle grandi imprese dove non contano quote e leggi anti-apartheid.

Per questo la marcia dei ventimila da Gwalior a Delhi rischia di aver percorso invano la strada dell’utopia. Come Gandhi, otterranno forse ammirazione e rispetto ma non le loro terre ancestrali.


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