Contraddizioni d’India
Il premio Nobel analizza l’economia del Paese, in cui per masse di cittadini la crescita non si è tradotta in benefici
di Giorgio Barba Navaretti (Il Sole-24ore-Domenica, 20.04.2014
«La pazienza è una forma minore di disperazione travestita da nobile virtù» secondo Il dizionario del diavolo scritto da Ambrose Bierce nel 1906. Questa definizione, per Jean Drèze e Amartya Sen ben rappresenta la straordinaria capacità di sopportazione degli indiani, che solo ogni tanto esplode in rabbia violenta, soprattutto negli scontri religiosi tra musulmani e indù.
Capacità di sopportazione che potrà determinare l’esito della lunga tornata elettorale per il rinnovo del Parlamento indiano. L’India, infatti, è profondamente divisa tra le classi medie (20% della popolazione) che hanno beneficiato enormemente della rapida crescita economica e della modernizzazione del Paese e una massa ancora immensa di indigenti, che non hanno accesso neppure ai servizi più essenziali. Metà delle famiglie ancora vive in case senza gabinetti.
Il fuoco dei media e dei commentatori occidentali sulla straordinaria ascesa delle classi più privilegiate nasconde e allontana dal dibattito pubblico e dall’azione politica il dramma di milioni di persone che ancora vivono nelle condizioni di povertà dei tempi dell’indipendenza. Il grande premio Nobel indiano e il suo co-autore di lunga data, economista di origine belga trapiantato in India, hanno scritto un lungo saggio che ci conduce nelle pieghe nascoste e nei contrasti più profondi dell’economia indiana e che è un "must" per chi voglia capire l’immenso Paese.
L’attenzione ai dimenticati potrà apparire sorprendente al lettore distratto. Rispetto al 1950 l’India di oggi ha un reddito pro capite cinque volte maggiore (negli ultimi vent’anni è cresciuto in media dell’8% all’anno), una durata della vita attesa alla nascita che è passata da 32 a 66 anni, un tasso di mortalità infantile che è calato da 180 a 44 per migliaia di nuovi nati, una percentuale della popolazione che vive al di sotto della linea di povertà che è calata dal 47% al 22% nelle campagne e dal 35% al 20% nelle città (centinaia di milioni di poveri in meno).
Progressi straordinari, ma che non si sono realmente trasformati in benefici veri per coloro che rimangono alla base della piramide sociale ed economica. I dati sulla crescita economica nascondono il fatto che in molti indicatori di benessere umano l’India è stata raggiunta e superata da Paesi che ancora sono in media molto più poveri come il Bangladesh e il Nepal. Usando queste misure, nell’Asia del Sud oggi solo il Pakistan sta peggio dell’India. E se è vero che la proporzione di individui al di sotto della linea di povertà si è ridotta, il livello della soglia è talmente miserabile che superarla di poco non significa certo un miglioramento delle condizioni di vita effettive.
Oltre all’analisi puntuale e poco nota su questi trend di sviluppo fatta dai due autori, la parte davvero interessante del libro è la relazione tra questa evoluzione e la democrazia. Il lunghissimo processo elettorale in tutto il Paese (dal 7 aprile al 12 maggio) con un’altissima partecipazione degli aventi diritto (815 milioni) è la dimostrazione di quanto solida e pervasiva sia la democrazia indiana dall’indipendenza.
Ora, dato che i poveri hanno un voto e sono molto numerosi e possono dunque influenzare le scelte di governo, non si capisce come mai i successi nella crescita economica non si siano tradotti in politiche inclusive che migliorassero le condizioni economiche e sociali della base della piramide.
Come è possibile che oggi le condizioni sociali siano assai migliori in Cina, dove la democrazia certo non c’è? Il confronto tra i due colossi asiatici è forse indice che la democrazia non sia efficace nell’eliminare la povertà? Domanda retorica a cui i due autori rispondono ovviamente no. Il problema non è la democrazia in sé ma il suo funzionamento.
Del resto in una delle sue analisi più lucide su fame e carestie pubblicata sull’«Economic Journal» del 1983, Sen sosteneva come, grazie alla democrazia e alla diffusione delle informazioni attraverso la libera stampa, in India non sarebbe stato possibile l’esplodere di fami devastanti come quella cinese del ’58 dove in tre anni morirono tra i 14 e i 16 milioni di persone. Come è possibile che questa stessa democrazia non abbia invece indotto politiche efficaci di redistribuzione in questi anni di forte crescita?
Il problema per Sen e Drèze, in linea con il principio di John Rawls di democrazia deliberativa, è la mancanza di «governo attraverso la discussione» pubblica. La democrazia è tale non solo attraverso il voto, ma anche attraverso la partecipazione della popolazione alla deliberazione, al dibattito sulle scelte politiche e sul loro merito. Solo i problemi e le questioni che diventano oggetto di deliberazione hanno valenza politica, ossia diventano di rilievo per la classe politica.
Le fami e le carestie, anche se colpiscono una proporzione limitata della popolazione, sono eventi così drammatici e simbolici da avere immediata copertura di stampa. Questioni meno eclatanti ma fondamentali per il benessere dei cittadini, come la qualità della nutrizione, l’accesso alle scuole o la salute pubblica, sono argomenti molto poco coperti dai media.
In India i poveri, anche se votano, sono completamente esclusi dalla componente deliberativa della democrazia. Non hanno voce nel dibattito pubblico e la libera stampa indiana è totalmente indifferente ai problemi e alle sofferenze degli indigenti.
Delle centinaia di milioni di indiani che vivono ancora in condizioni di grandi miseria si parla poco. E quando si fa riferimento a politiche populiste, ad esempio l’aumento dei salari dei funzionari pubblici o i sussidi ai prezzi della benzina, sono di fatto politiche rivolte a una parte della popolazione comunque infinitamente più benestante dei miserabili al fondo della piramide.
Insomma, la disuguaglianza economica viene rafforzata e consolidata dalla disuguaglianza nell’accesso al dibattito pubblico. Ma i poveri votano lo stesso, direte giustamente. Certo, ma come le persone votano dipende anche da quanto capiscano i problemi da affrontare e se pensino che debbano e possano essere affrontati.
I poveri indiani, dunque, non solo sono al di sotto della soglia di povertà, ma anche al di sotto della soglia di consapevolezza necessaria a uscire dalla miseria attraverso il voto e l’azione politica democratica. Il voto cambierà poco se nel seggio elettorale la loro disperazione non si trasformerà in impazienza.