Le storie di Ujjayini, l’antica città dove con i calendari ha origine il tempo
di Amartya Sen (la Repubblica, 06 febbraio 2017)
L’immensa varietà di sistemi calendariali che si riscontra in India mette in luce un importante aspetto del paese: la sua diversificazione in termini di culture e regioni. Ma l’India non è solo questo. Accanto a tanta eterogeneità c’è anche l’idea di un paese che ha attraversato i secoli come una realtà unitaria. Un’idea, naturalmente, negata da chi continua a ripetere che l’India era solo un vasto territorio frammentato in piccole o medie entità, che solo la forza del dominio britannico è riuscito più tardi a unificare. Non di rado gli inglesi pensano di essere gli «autori» dell’India, una rivendicazione di fantasia creativa perfettamente in linea con le convinzioni di Winston Churchill, per il quale l’India non era una realtà unitaria più di quanto lo fosse l’equatore. Significativo, però, che anche chi nega ogni carattere unitario all’India prebritannica non abbia poi grandi problemi a generalizzare sulla qualità degli indiani come popolo (persino Churchill non poteva fare a meno di affermare che gli indiani erano «il popolo più animalesco del mondo, insieme ai tedeschi»).
Generalizzazioni sugli indiani sono state fatte dai tempi di Alessandro Magno e di Apollonio (uno dei primi «esperti d’India») all’epoca «medievale» dei viaggiatori arabi e iraniani (che sul territorio indiano e il suo popolo hanno scritto molto) fino ai tempi moderni, con Herder, Schlegel, Schelling e Schopenhauer. Va poi notato che ogni ambizioso dominatore - di volta in volta Candragupta, Asoka, ‘Ala ud-Din o Akbar - tendeva a ritenere che il suo impero non fosse completo finché gran parte del paese non fosse sotto il suo controllo. Ovviamente, guardando al passato storico non dobbiamo pensare di trovarvi una preesistente «nazione indiana» in senso moderno, ansiosa di diventare uno Stato nazionale. E tuttavia è difficile non cogliere le identità e i nessi socioculturali che ne sono stati la premessa.
Potremmo chiederci quale contributo possa apportare la riflessione sui calendari a questo dibattutissimo tema. La varietà dei calendari, divisi non solo dai loro riferimenti religiosi ma anche dalle diversità regionali, sembra in rotta di collisione con qualsiasi prospettiva di un’India unitaria. Bisogna però osservare in proposito che molti di questi calendari presentano forti analogie, sia per quanto riguarda i mesi sia per quanto concerne l’inizio dell’anno. Il Kaliyuga, il Vikram Samvat, il Saka, il Shôn bengalese e altri ancora, per esempio, iniziano tutti intorno a metà aprile. Evidentemente l’inizio è stato fissato in relazione allo stesso punto di riferimento, l’equinozio di primavera, dal quale hanno finito per discostarsi nel lungo arco di tempo degli ultimi due millenni, durante i quali la «correzione» relativa al valore intero della lunghezza dell’anno in giorni è stata leggermente inadeguata - ancora una volta in misura piuttosto simile.
Naturalmente, il fatto che per un anno il valore intero di 365 giorni sia solo approssimativo era ben noto ai matematici indiani che elaborarono quei calendari. L’aggiustamento periodico adottato normalmente per compensazione in molti calendari indiani consiste nell’aggiunta di un mese intercalare (definito un malamasa) per rimettere le cose in linea con quanto previsto dal computo. Per ottenere una correzione adeguata è però necessario calcolare la lunghezza dell’anno con precisione, operazione difficile da effettuare con gli strumenti e le conoscenze dell’epoca in cui i vari calendari furono concepiti o riformati. Nel VI secolo il matematico Varahamihira calcolò l’esatta lunghezza dell’anno in 365,25875 giorni, valore prossimo a quello esatto, ma ancora leggermente sbagliato, dal momento che la lunghezza dell’anno sidereo è di 365,25636 e quella dell’anno tropico è di 365,24220. Gli errori hanno finito per discostare i diversi calendari dell’India settentrionale dai punti fissi che avevano preso a riferimento, per esempio l’equinozio di primavera, ma in questo scostamento si sono mossi insieme.
Questa dimostrazione di unità nei piccoli errori ha le sue eccezioni, dal momento che i calendari indiani del Sud (per esempio il Kollam) e i calendari lunari o lunisolari (come quello del Nirvana del Buddha) seguono regole diverse. Sarebbe del resto difficile immaginare una generale uniformità nella varietà di calendari - o di culture - riscontrabile in India. Ciò che bisogna cercare è piuttosto l’interesse che i vari utilizzatori dei diversi calendari sembrano aver avuto per le soluzioni adottate dagli altri.
Uno degli elementi che rivelano la presenza di una prospettiva calendariale unitaria è, come abbiamo visto, l’identificazione di un meridiano primo e di una località di riferimento principale (come Greenwich in Gran Bretagna). È allora interessante notare la posizione che l’antica città di Ujjayini (oggi Ujjain), capitale di varie dinastie induiste (e teatro di numerose attività letterarie e culturali nel corso del I mil- lennio d.C.), conservò a lungo come località di riferimento per molti dei principali calendari indiani. Pare che il calendario Vikram Samvat (con punto zero al 57 a.C.) abbia avuto origine in questa antica capitale. Ma Ujjayini è il luogo di riferimento fondamentale anche per il sistema Saka (punto zero al 78 d.C.) e per molti altri calendari indiani.
Anche oggi, anzi, alla posizione di Ujjaini si fa riferimento per fissare l’orario indiano (sotto questo aspetto la città svolge insomma la funzione di una Greenwich indiana). «L’ora ufficiale indiana», quella che governa le nostre vite, è ancora, con minima approssimazione, l’ora di Ujjayini - 5 ore e 30 minuti in anticipo sul Gmt. Per chi visitasse l’odierna Ujjain, ridotta a un modestissimo e sonnolento paesone, potrebbe forse essere di qualche interesse sapere che quasi duemila anni fa un celebre trattato astronomico, intitolato Paulisa Siddhanta, antesignano del capolavoro dell’Aryabhatiya, concentrava l’attenzione sulla longitudine di tre luoghi del pianeta: Ujjain, Benares e Alessandria. Ujjain resta un’ottima testimonianza del legame fra calendari e cultura.
La letteratura indiana ci ha lasciato splendide descrizioni di Ujjayini, in particolare nell’opera di Kalidasa (V secolo d.C.), forse il più grande poeta e drammaturgo della letteratura sanscrita classica. La raffinata bellezza della Ujjayini di Kalidasa persuase il romanziere britannico Edward Morgan Forster a visitare la città, nel 1914, con l’idea di ricostruire mentalmente come dovesse apparire ai tempi degli incantevoli racconti di Kalidasa. Raccolse vari passi di Kalidasa, fra i quali le emozionanti descrizioni delle sere in cui «le donne si recano in segreto dai loro amati» inoltrandosi in «un’oscurità che si potrebbe tagliare con un ago». Ma dalle antiche rovine della città non poté cavare granché, né gli riuscì di suscitare nella gente del luogo il benché minimo interesse per la sua ricerca storica e letteraria. Immerse le caviglie nel fiume sipra, cantato da Kalidasa con romantici accenti, e abbandonò il suo progetto, rassegnandosi all’idea che «i vecchi edifici sono edifici, le rovine sono rovine».
Senza voler sollevare la questione se in quella rinuncia al rigore storico ci sia un tratto comune, non si può non rimanere impressionati dalla costante centralità che Ujjain ha conservato come luogo di riferimento dell’orario indiano, nonostante il potere politico e il predominio letterario e culturale fossero migrati ormai da tempo altrove. La tradizione può essere grande alleata di un’unità partecipata.