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PARIA. Gli ultimi della Terra ...

L’INDIA E IL SISTEMA DELLE CASTE. A Mumbai (la ex Bombay), una grande manifestazione dei Dalits (gli "Intoccabili") per rendere omaggio ad AMBEDKAR, uno dei principali artefici della Costituzione indiana.

L’’intoccabilità’ è quella pratica, inerente all’impianto castale, che considera altamente contaminanti per i membri delle caste superiori i rapporti con i soggetti segnati da un’impurità permanente.
mercoledì 6 dicembre 2006 di Federico La Sala
[...] Nonostante il passare degli anni, Ambedkar rimane per i dalits il simbolo più importante delle loro lotte di classe. Dalit lui stesso, grazie alle sue capacità, Ambedkar riuscì a studiare e a farsi ammettere al college ma subì comunque sempre umiliazioni e discriminazioni dovute alla sua origine. Dopo aver studiato a New York alla Columbia University tornò in India dove si unì al movimento indipendentista e fu nominato membro della commissione incaricata di redigere la costituzione (...)

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> L’INDIA E IL SISTEMA DELLE CASTE. -- Il ministero della suprema felicità. Arundhati Roy: voci da un’altra India (di Mara Accettura).

venerdì 23 giugno 2017

Arundhati Roy: voci da un’altra India

Venti anni dopo Il dio delle piccole cose, torna con un nuovo romanzo: Il ministero della suprema felicità. E racconta di intoccabili, attivisti kashmiri, trans, prostitute: anime inconsolabili. Che cercano rifugio nell’amore

di Mara Accettura foto di Suki Dhanda *

      • Arundhati Roy, 55 anni. Il suo nuovo, attesissimo romanzo esce il 6 giugno, in contemporanea in 26 paesi del mondo

Quando vinse il booker con il romanzo d’esordio Il dio delle piccole cose Arundhati Roy smorzò gli entusiasmi di chi la considerava già l’erede di Rushdie. Disse che non sapeva se ne avrebbe scritto un altro. E di lasciarla in pace, grazie mille, perché aveva altro da fare. L’attesa è stata estenuante, 20 anni, ma ne è valsa la pena. Perché Il ministero della suprema felicità (sempre per Guanda, il 6 giugno) colpisce dritto al cuore. Straripante di denuncia, travolgente e disperato, punta i riflettori sugli invisibili, tutti quelli che la nuova India, la superpotenza del nazionalismo indù di Modi, occupata a mostrare i muscoli e a contare i soldi ha confinato nell’oblio, o represso con la violenza. Anime inconsolabili, spezzate dalla vita, che cercano riparo nell’amore: trans, prostitute, intoccabili, militanti kashmiri che gridano Azadi!, libertà!, madri in lutto, bimbi abbandonati, animali malconci. «Sono tutti attraversati da un confine», racconta lei, «gli hijira (transgender) quello del genere, Tilo quello della casta, Biplab Dasgupta quello dello Stato, Musa quello dell’indopachistano. Hanno la guerra dentro e fuori di sé». Un mondo poetico e spietato, tessuto come un arazzo, in cui i vivi si appellano a santi improbabili, comunicano coi morti e i cimiteri sono gli ultimi baluardi di conforto e resistenza su cui costruire brandelli di bellezza e felicità.

Piccola e sorridente, una cascata di riccioli grigi, ciabatte di cuoio e uno scialle di lana rossa sulle spalle, Roy appare un po’ frastornata e vagamente fuori posto tra i tappeti e le boiserie dell’hotel a Covent Garden, Londra, dove è arrivata per festeggiare l’uscita del libro in 27 paesi del mondo. «Sono felice. La fiction è la mia vera casa». A 55 anni la sua voce suona lieve, come quella di una bambina. «Scrivere romanzi è come una danza, il mio corpo è totalmente rilassato. So che posso prendermi tutto il tempo che voglio. Nei saggi no, sento urgenza, rabbia. Una grande differenza». Finalmente sono stati accontentati i fan che le rimproveravano di essere scomparsa dalla scena letteraria, come se gli scritti acuminati sul capitalismo, Gandhi, i Dalit, il massacro dei musulmani nel Gujarat, i guerriglieri naxaliti, le dighe sul Narmada e Snowden non contassero.

Qual è stato il motivo di tanta attesa? «Non volevo fare la continuazione del Dio delle piccole cose. E volevo vivere. Questo libro è fatto di vita». A scorrere le pagine dense lo si capisce. «Ho accumulato esperienze come una roccia sedimentaria, nel mio Dna, e a un certo punto il romanzo mi è sembrata l’unica forma per raccontarle». La più libera, per legare storie molto diverse e sbatterci in faccia i segreti più scottanti del Kashmir, quella piccola valle dimenticata, occupata da 700mila soldati, dove la guerra per l’indipendenza è uno stile di vita e solo i morti sono liberi. «C’è molto rumore su quella regione ma nessuno sa che cosa davvero succede. È il trionfo del modo in cui le democrazie amiche del mercato funzionano. Le storie che vengono fuori da là sono sempre corrotte». O non fanno notizia. «Il terrore a volte è una persona che piomba a casa tua e lascia lì i suoi fucili e tu non sai che cosa ti accadrà. Fatti che non verranno mai denunciati in un report sui diritti umani, ma non per questo meno reali».

      • Roy a New Delhi. Le sue opere divulgative si occupano di temi politici e sociali come il fanatismo della religione induista e le opere delle multinazionali in India.

Il Ministero è il grande romanzo dell’altra India. Il cruccio dell’icona no global infatti è che la gente abbia un’idea edulcorata del suo paese: i film di Bollywood, l’ascesa del libero mercato, i depliant turistici, le scuole di yoga, la ricerca di spiritualità. «Invece no, è diventato un posto molto violento e militarizzato».

L’atmosfera è peggiorata da quando il primo ministro Narendra Modi ha preso il potere ed è cresciuta la marea del suprematismo indù, basato sulle caste. «È sinceramente difficile capire perché ha vinto ancora con una valanga di voti. Sono stati proprio i poveri a essere maggiomente colpiti dalla demonetizzazione. Gente che sta male ma sente di doversi sacrificare per l’induismo, la nazione o chissa che».

Le derive sono aberranti. «Lo scorso anno una folla arrabbiata ha ammazzato un uomo accusandolo di aver mangiato carne di manzo, di fronte alla sua famiglia. Un sacco di leggi speciali permettono detenzioni senza processi o alla polizia di uccidere istantaneamente. Il clima è tremendo. Il risultato è che nessuno è libero di parlare, e quindi non parla». Lei va avanti per la sua strada ma ci si chiede se, con un libro così spietato nel denunciare gli abusi del governo, non abbia paura di ritorsioni. «In India oggi bisogna avere paura di tutto. Non lo dico solo per me. Molti scrittori sono stati uccisi, deportati non solo dal governo ma da gruppi di caste locali, di vigilantes. I giornalisti sono arrestati e torturati, gli attivisti condannati all’ergastolo. Non so davvero che cosa potrà accadere. C’è un clima molto pericoloso, a meno che non si faccia propaganda per il governo».

I detrattori la accusano di sporcare ingiustamente l’immagine della patria. Di avere una visione manichea della vita e di essere una fervente ammiratrice del leader separatista Ali Shah Geelani che vuole reintrodurre la sharia. «Non è vero. Vogliono che io sia neutrale ma non posso, visto che ne succedono di tutti i colori. Quanto a Geelani, è molto chiaro da quello che scrivo che non appoggio la sharia. La verità è che lo stato indiano pubblicizza gli islamici più violenti e non i moderati, proprio per creare un nemico. È tutto complicato». La sua voglia furiosa di capovolgere il mondo non ha dato i risultati sperati. «Quando ho scritto del massacro in Gujarat pensavo che la gente sarebbe stata rimasta scioccata, ma la cosa scandalosa è che non lo era affatto, e che l’allora primo ministro del Gujarat lo è diventato dell’India. Un uomo adorato perché sa mettere i musulmani al loro posto». Per questo la sua visione della natura umana è diventata più amara. «Le persone violente e brutali non sempre vengono punite come nelle filastrocche per bambini. A volte vengono premiate».

Il dio delle piccole cose, scoperto dallo scrittore Pankaj Mishra, diventò un bestseller, finendo per vendere 8 milioni di copie. Sarà interessante capire cosa succederà col Ministero, incoraggiato dal suo grande amico John Berger, il critico d’arte e pittore scomparso qualche mese fa. «Gli avevo letto delle parti, e mi aveva soprannominata utmost (“suprema”, ndr)», sorride al ricordo. Il fallimento non la spaventa, sa che avere successo in un mondo che contesta senza tregua non è semplice. Inoltre: «Quando scrivi un romanzo puoi farlo solo sapendo che potresti fallire. Altrimenti non riesci a sperimentare».

Se la fama è sempre stata semplicemente un mezzo per difendere le cause in cui crede, i soldi le hanno permesso di finanziare l’impegno politico. Guai però a chiamarla attivista. «Non so quando sia stata inventata questa parola. Prima gli scrittori che raccontavano queste cose erano semplicemente scrittori, come Jean-Paul Sartre. Gli attivisti stanno fissi in un posto e combattono una battaglia, a volte tutta la vita. Hanno il diritto di chiamarsi così. Io scrivo per capire o fare qualcosa». Elabora: «Il Kashmir e il Narmada sono due valli, ma hanno cervelli completamente diversi. La prima ha una comprensione molto sofisticata della repressione, del carcere e della morte, mentre la seconda ce l’ha dell’economia dell’acqua e della natura, ma non capisce come funziona la macchina repressiva. Io metto tutto assieme e alla fine ho una visione del mondo. Questo fa di me una scrittrice». Messa così, è quello che dovrebbero costruire tutti gli scrittori: un paradigma, un modo nuovo di percepire la realtà. «Il problema è che oggi sono mercificati. Scrivono un libro, vincono il Booker, l’anno dopo ne scrivono un altro e poi un altro e così riproducono un progetto commerciale». Se non lo fanno, tutti si chiedono se per caso non siano morti. «Esatto. Ma è vero l’opposto. Sono morti gli altri perché sono diventati una moneta. Io non faccio questo, non mi interessa».

Il ministero ha una dimensione epica. Un mondo in cui cui ci si perde e ci si ritrova incontrando decine e decine di volti e storie. Nessuno è troppo marginale per non avere dignità letteraria. Tutti vengono ascoltati e consolati. «Sì volevo fermarmi e dire ciao anche ai personaggi più piccoli, chiedere come stanno, che cosa succede nella loro vita, e poi andare avanti. Non avevo uno schema in testa. A volte la città si trasforma in personaggio, altre è lo sfondo che diventa protagonista».

C’è una figura che ci ha ricordato lei. Si tratta di Tilo, l’ex studentessa di Architettura originaria del Kerala, l’outsider votata alla causa. «In un certo senso Tilo è figlia di Ammu, uno dei personaggi del Dio delle piccole cose (la madre dei gemelli, amorevole e selvatica, ndr)», riflette Roy. «Forse, come dice lei, per raccontare una storia frammentata bisogna diventare a poco a poco tutto. Ma probabilmente sì, mi somiglia. Il fatto è che in India tutti sono codici a barre ambulanti. Basta conoscerne il nome e si sa da dove vengono, a che casta appartengono, che lingua parlano. Io sono sempre stata seriamente fuori da questi schemi: i miei hanno divorziato quando avevo due anni e a 16 ero già via di casa (ha vissuto anche in uno slum, ndr). Questo fa di me una persona strana».

Anche il rapporto di Tilo con una madre così difficile e ingombrante è ricalcato sul suo? È risaputo che le due insieme sono come gli Stati Uniti e la Corea del Nord: due potenze nucleari a confronto. «Sì, un po’. A volte guardiamo dentro di noi per trovare le cose che ci disturbano di più. Mia madre ha definito la mia relazione con la morte, perché soffre di una grave forma di asma. Da bambina ho passato molto tempo con lei in ospedale, vigilando su ogni suo respiro con terrore. Ma ogni volta che sembrava spacciata è resuscitata». Nel libro no, muore, esattamente come nel Dio delle piccole cose. Una sorta di esorcismo che la fa sorridere.

Come dice il poeta Nazim Hikmet, citato all’inizio del libro, “Insomma, è tutta una questione di cuore”. Il cuore pulsa in tutti i personaggi, tranne in un paio di cattivissimi. Ci piace pensare che la storia tra Tilo e il guerrigliero Musa abbia un’origine autobiografica. Roy va e viene dal Kashmir ma non ha certo voglia di confidarsi sui suoi amici guerriglieri. «Ovunque vai, l’esercito o l’intelligence ti segue e magari ti minaccia», dice Roy. Tilo e Musa “combaciavano come i pezzi di un rompicapo irrisolto (e forse irrisovibile)”. Separati più volte dalla vita eppure inesplicabilmente uniti. «Sì, certo, si amano senza avere voglia di possedere né di trasformare l’altro in oggetto», dice. Roy è sposata ma vive da sola.

Come è maturata la sua idea dell’amore? «La vita è un esperimento così grande... e io voglio mantenere il diritto di non essere etichettata. Nella nostra società si è o in coppia o single, e single significa soli, mentre io vivo in modo che quelle non siano le uniche scelte. C’è molto amore intorno a me e una grandissima intimità. Ma c’è anche un accordo reciproco: permettere all’altro di cambiare, essere matto, ossessionato, sparire e ricomparire. Ho trovato un piccolo mondo di persone che lo capisce ed è magico. Sono grata. Uomini, donne, lesbiche, etero, transessuali, gente di tutte le caste. È una comunità molto piccola, e non dico che sia replicabile o l’inizio di una specie di rivoluzione sociale, ma è il mio mondo, quello che mi permette di amare, di essere amata. E di essere libera». Un ministero di suprema felicità.

*la Repubblica-D, 05 giugno 2017 (ripresa parziale - senza immagini).


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