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In principio era il Logos (non il "Logo")!!!

IL LOGO DI MUSSOLINI. Le radici dell’Europa e il "fascismo" (di tutte le ispirazioni). Il "gioco" di ogni progetto e "duce" autoritario è stato sempre questo: "AF-FASCInARE" E "AG-GIOGARE" IL POPOLO. NELLO AJELLO ed EMILIO GENTILE fanno il punto.

giovedì 7 dicembre 2006 di Federico La Sala
[...] I fascisti ebbero sempre una passione per i
simboli e i riti: il saluto romano, la camicia nera,
il manganello, il giuramento, il culto dei caduti,
le parate di massa. Da Gustave Le Bon, precursore
della psicologia della folla, Mussolini aveva
appreso che «una credenza religiosa o politica
si fonda sulla fede, ma senza i riti e i simboli la
fede non potrebbe durare». La massa, sentenziava
il Duce, è «un gregge di pecore finché non
è organizzata», ma per soggiogarla e guidarla (...)

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> Le radici dell’Eu-ropa e il "fascismo" (di tutte le ispirazioni). ---- Come il fascismo conquistò il potere. Marcia su Roma, golpe autorizzato. Le cinque cause della dittatura.

sabato 27 ottobre 2012


-  L’anniversario
-  Marcia su Roma, golpe autorizzato

-  di Angelo d’Orsi (il Fatto, 27.10.2012)

Novant’anni anni sono un buon tratto di tempo per riflettere su un avvenimento che ha cambiato la storia di un Paese, e ha contribuito a cambiare quella di un continente, e addirittura del mondo. Alludo alla Marcia su Roma, svoltasi negli ultimi giorni dell’ottobre 1922: uno strano evento, presentato spesso come un’allegra scampagnata; nella sostanza, si trattò di una dimostrazione di forza da parte di un movimento politico organizzato in forma di esercito, con il consenso delle autorità militari, nell’inerzia del governo, nel balbettio delle opposizioni, e, soprattutto, nella complicità del sovrano regnante.

L’ascesa al potere di Mussolini fu effetto non della capacità militare dei fascisti, quanto del tradimento dei suoi doveri costituzionali perpetrato dal capo dello Stato, il re Vitto-rio Emanuele III, complice l’inettitudine della classe politica, pronta all’abbraccio, rivelatosi poi mortale, con i fascisti, oppure convinta che si trattasse di un fenomeno transitorio e trascurabile. Fu dunque un atto eversivo, ma con il consenso dell’autorità, dai più alti gradi, fino alle sedi periferiche del potere civile e militare, largamente occupate dagli squadristi, senza incontrare resistenza.

MAI SI ERA vista una mobilitazione insurrezionale di tale portata nella storia nazionale, anche se la Marcia fu poca cosa, anche per la disorganizzazione, la difficoltà dei collegamenti e delle comunicazioni. Verso Roma si diressero, la mattina del 28 ottobre, circa 14 mila camicie nere, che dopo la “vittoria”, il giorno 30, divennero circa il doppio.

La Marcia - che ebbe come ispiratrice quella di D’Annunzio su Fiume del settembre ‘19 - e seguì all’adunata di Napoli, di pochi giorni prima, dove 30-40 mi-la camicie nere occuparono la città, per tre giorni (accolti dai saluti di Enrico De Nicola e dagli applausi di Benedetto Croce), avvenne solo nelle zone centrali del Paese, verso la capitale, a partire da Perugia dove si era installato il “quartier generale”, in un albergo di lusso, il Brufani, dalle cui suites i quattro capi designati (Italo Balbo, Michele Bianchi, Emilio De Bono, Cesare De Vecchi, poi insigniti del titolo di “quadrumviri”), impartivano ordini, più o meno rispettati, mentre consumavano drink. Nessuno di loro prese parte alla camminata, e neppure il “duce”, rimanendo al sicuro a Milano, alla sua scrivania di direttore del Popolo d’Italia, pronto, come notarono non pochi osservatori, alla fuga, essendo Milano a meno di un’ora dal confine svizzero: un tragitto che poi fu costretto a sperimentare nell’aprile del ’45, con gli esiti che sappiamo.

Mussolini aveva espresso chiaramente la propria filosofia opportunista e illiberale, in articoli e discorsi, affermando che il fascismo intendeva giungere al potere, con le buone o le cattive. A nessun magistrato, a nessun ministro venne in mente che si trattava di minacce all’ordine costituzionale, minacce che, da almeno due anni, i fascisti, organizzati in “squadre d’azione”, armate di tutto punto, provviste di mezzi di locomozione, stavano traducendo in pratica, ai danni di socialisti, comunisti e, meno, cattolici. In quelle convulse giornate del 27-30 ottobre ’22, i fascisti, peraltro divisi e in contrasto fra di loro, portarono avanti sia la linea militare ed eversiva, sia quella politica, trattativista.

VOLEVANO arrivare al governo, e davanti all’arrendevolezza delle autorità, nel silenzio della politica, alzarono ripetutamente la posta. Si sarebbero accontentati di qualche ministero, e finirono per avere la nazione, avviando, all’indomani della Marcia, con il famigerato discorso del bivacco (“Potevo fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco per i miei manipoli”), la trasformazione dello Stato liberale in regime totalitario. I fatti dell’ottobre furono quindi il punto d’arrivo di una violenza sistematica contro le organizzazioni e le strutture del movimento proletario, nelle campagne e nelle città.

La Marcia segnò il salto di qualità, almeno simbolicamente: attacco diretto allo Stato ma, ecco il paradosso, in nome della sua difesa dal “bolscevismo”, ossia, le lotte operaie e contadine. Interrotta per ben due volte in seguito all’emanazione del decreto di stato d’assedio da parte del Governo Facta, per due volte respinto dal re, la Marcia si risolse in una parata per le vie di Roma, non senza violenza (per esempio nel quartiere “rosso” di San Lorenzo), mentre un telegramma a Mussolini lo invitava a Roma per formare il governo.

VIAGGIÒ in vagone letto, affacciandosi via via dal finestrino per discorsi alla folla, e giunto alla meta si recò in albergo, dove si cambiò d’abito, lasciando quello civile per una divisa militare, al sovrano che lo attendeva al Quirinale, disse che si scusava per gli abiti sporchi e impolverati per la “battaglia”, ma che gli portava “l’Italia di Vittorio Veneto”.

Il “ventennio” cominciava con una tragica pagliacciata, che era l’altro volto del colpo di Stato monarchico; si sarebbe concluso, provvisoriamente, con un’altra buffonata, l’arresto di Mussolini nella notte del Gran Consiglio, il 25 luglio ’43 che, tecnicamente, fu un altro colpo di Stato del re, che tuttavia non pose fine al regime, la cui catastrofe fu accompagnata da quella della nazione nel doloroso biennio ’43-45.

Ma, all’azione eversiva chiamata “Marcia su Roma” i consensi furono ampi, dal Corriere della Sera alla Confindustria. Rispetto al tragico “biennio nero”, la Marcia si concluse senza quasi colpo ferire, un dato tranquillizzante che in realtà poteva significare, come ebbe a notare un osservatore, Luigi Salvatorelli, “scarsezza di serietà morale”. Un dato che non ci lascia molta speranza per il futuro dell’Italia.



-  La marcia su Roma
-  Le cinque cause della dittatura. Come il fascismo conquistò il potere

di Giovanni Belardelli (Corriere della Sera, 27.10.2012)

Alle 9 del mattino del 28 ottobre 1922, quando ormai era chiara la dimensione assunta dalla mobilitazione delle squadre fasciste convergenti su Roma, il presidente del Consiglio Luigi Facta si recò dal re per ottenerne la firma in calce al decreto che istituiva lo stato d’assedio. In questo modo, con il passaggio di tutti i poteri dall’autorità civile all’autorità militare, l’azione sediziosa dei fascisti, numerosi ma male armati, avrebbe potuto essere facilmente stroncata. Come è universalmente noto, quella firma non vi fu e lo stato d’assedio, benché già annunciato dai telegrammi inviati ai vari comandi militari, non entrò mai in vigore. In questo modo era aperta la via che di lì a due giorni avrebbe condotto Mussolini a ricevere l’incarico di formare un nuovo governo.

Sì è discusso molto sulle ragioni che indussero il re a quella decisione così gravida di conseguenze: tra esse, ebbe certamente un peso di rilievo il timore che l’esercito potesse rifiutarsi, ove fosse stato necessario, di sparare su dei rivoltosi che erano spesso ex combattenti e proclamavano di difendere la patria minacciata dai socialisti. In ogni caso, al punto in cui erano giunte le cose alla fine di ottobre del 1922, il fascismo era ormai l’attore chiave della scena politica italiana e una sua emarginazione appariva sostanzialmente impossibile.

Le ragioni che in soli tre anni e mezzo dovevano condurre Mussolini dalla fondazione, nel marzo 1919, di un minuscolo raggruppamento politico come i Fasci di combattimento alla presidenza del Consiglio furono varie. Una parte della responsabilità della vittoria fascista va attribuita al ceto politico liberale, soprattutto per l’illusione di poter utilizzare il movimento delle camicie nere al fine di riconquistare un’egemonia politica (e parlamentare). Un’egemonia che nel 1919 le varie e frastagliate forze liberali avevano perso a causa sia della nuova legge elettorale proporzionale, sia della nascita, per la prima volta da che esisteva lo Stato unitario, di un partito cattolico, il Partito popolare. In quella situazione la formazione di stabili maggioranze era resa molto difficile sia dalla diffidenza dei liberali a collaborare con i popolari (una diffidenza, peraltro, ricambiata), sia dall’impossibilità di una loro collaborazione con un Partito socialista nel quale la corrente riformista era di fatto ostaggio di una maggioranza su posizioni nettamente rivoluzionarie.

Una grande responsabilità nel determinare le condizioni che favorirono l’avvento al potere di Mussolini, probabilmente la responsabilità principale, la ebbe appunto il Partito socialista, uscito dalle elezioni del 1919 come la maggiore forza politica per numero di deputati. Fu da quel partito che venne allora il primo attacco allo Stato liberale durante il cosiddetto «biennio rosso» 1919-20, nell’illusione di poter realizzare la «dittatura del proletariato» e la «socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio». Si trattava di un programma sicuramente velleitario. Tuttavia sarebbe sbagliato considerare i socialisti massimalisti come null’altro che dei rivoluzionari da operetta. La minaccia di una rivoluzione di tipo bolscevico, fondata o meno che fosse, alimentò infatti nel Paese un timore ben reale che fu all’origine delle simpatie per le camicie nere di tanti appartenenti ai ceti medi, disposti a considerare la violenza squadrista come una difesa - eccessiva nei modi ma giusta nella sostanza - delle istituzioni.

Proprio una valutazione - o meglio un’illusione - del genere doveva favorire un altro fattore decisivo del successo fascista: la tolleranza verso le azioni illegali dello squadrismo da parte di molti appartenenti alle forze dell’ordine e alla magistratura. Non meno importante nell’alimentare le simpatie per il fascismo fu la durissima campagna socialista contro il conflitto da poco terminato, che a una parte dell’opinione pubblica apparve come un intollerabile insulto ai molti che in quella guerra avevano combattuto, perdendovi spesso la vita.

Alle elezioni del novembre 1919 il movimento di Mussolini si era presentato soltanto a Milano, ottenendo un numero di voti irrisorio, ciò che sembrava annunciare la sua prossima uscita di scena. Due anni dopo raggiungeva invece i 200 mila iscritti (il doppio di quelli di un Partito socialista ormai stremato dalle violenze fasciste) e si affermava sempre più come il principale protagonista della politica italiana: nelle elezioni del 1921 i fascisti, alleatisi con le forze liberaldemocratiche, mandavano alla Camera 35 deputati (e molti rimasero allora colpiti dalla loro età media, 37 anni, che dava concretezza anagrafica alla canzone Giovinezza).

La causa principale di questa impetuosa crescita stava nello squadrismo, cioè nella reazione armata contro le organizzazioni socialiste cui i fascisti diedero vita nelle campagne centrosettentrionali (e in Puglia) a partire dalla fine del 1920. Non a caso lo squadrismo si sviluppò nelle stesse zone del Paese in cui le organizzazioni socialiste utilizzavano forme di coercizione e di violenza ai danni dei proprietari terrieri, spesso piccoli e medi, che ora vedevano nell’azione violenta del fascismo una sacrosanta reazione contro i «rossi». Si trattava di un meccanismo che è stato descritto molto efficacemente, anche nei suoi risvolti psicologici, nel romanzo di Antonio Pennacchi Canale Mussolini; protagonista del libro è infatti una famiglia di mezzadri della Bassa Padana che aderisce al fascismo dopo essere stata fatta oggetto di una violenta azione intimidatoria da parte dei socialisti.

Lo squadrismo fu essenziale nel portare Mussolini al successo non solo perché distrusse gran parte delle organizzazioni socialiste, facendo trasmigrare centinaia di iscritti nei nuovi sindacati fascisti messi in piedi in quattro e quattr’otto. Fu essenziale anche perché gli fornì una risorsa politico-militare che nessun altro possedeva. Veramente decisiva fu però la grande abilità del futuro Duce nello sfruttare politicamente la forza dello squadrismo, giocando per così dire su due tavoli: da una parte dichiarava la propria disponibilità a costituzionalizzare il fascismo, cioè a ricondurre lo squadrismo nell’alveo della legalità, dall’altra continuava invece a lasciare mano libera alle azioni violente. A partire dalla primavera del 1922 queste azioni si fecero anzi più intense arrivando all’occupazione di intere città, come Bologna o Ferrara.

Per mesi, fino al giorno stesso della marcia su Roma, Mussolini condusse trattative segrete con i principali esponenti della classe dirigente liberale, mandò messaggi rassicuranti al re e ai vertici militari, lasciò intendere che si sarebbe accontentato di una partecipazione di qualche ministro fascista al governo. In realtà puntava a una vittoria completa, che lo vedesse alla testa di un nuovo esecutivo. La marcia su Roma (benché in varie località del Centro-Nord comportasse l’occupazione di prefetture, questure, stazioni ferroviarie, poste e telegrafi) doveva servire non a conquistare davvero il potere manu militari, ma a premere appunto sul re e sui maggiorenti del liberalismo perché si arrivasse a un governo presieduto dal leader fascista.

Si trattava di una strategia evidentemente rischiosissima, ma in qualche modo inevitabile. Vero o presunto che fosse, il «pericolo bolscevico» - che tanti consensi aveva portato al movimento dei fasci - ormai non esisteva più, annientato proprio dalla violenza squadrista. Per contro si faceva sempre più probabile una soluzione parlamentare della crisi politica italiana, magari con un ritorno di Giovanni Giolitti al potere. Fu per evitare un rischio del genere che Mussolini decise di troncare gli indugi e di fissare la marcia su Roma per il 28 ottobre.

Se il re non firmò lo stato d’assedio fu anche perché ritenne, come un po’ tutto il vecchio establishment liberale, che fosse inutile arrivare a uno scontro, che rischiava di ristabilire l’ordine al prezzo di molte vittime, quando ormai sembrava matura la soluzione politica della crisi. Una soluzione che avrebbe dovuto consistere nell’inserimento dei fascisti in un nuovo governo presieduto da Antonio Salandra. Naturalmente chi puntava a questo si ingannava. Mussolini, che seguiva l’evolversi della situazione da Milano, fece sapere a tutti quelli che lo contattarono di non essere disponibile a nessuna soluzione che non prevedesse per lui la presidenza del Consiglio. Sapeva infatti che, dopo che lo stato d’assedio non era stato firmato, le carte vincenti stavano tutte nelle sue mani.

La mattina del 30 ottobre gli squadristi, fermi da due giorni nei pressi di Roma, cominciarono a sfilare nella Capitale. La sera dello stesso giorno si costituiva il ministero Mussolini: un governo di coalizione, nel quale però i fascisti avevano una rappresentanza nettamente superiore alla loro forza parlamentare. Non rappresentava ancora la dittatura, ma, per i modi in cui era nato nonché per le decisioni che doveva assumere, metteva il Paese su una china pericolosa che alla dittatura avrebbe presto portato.


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