Giovedì Santo. E quella cura a preparare la «sala»
La diversa convivialità
di Pierangelo Sequeri (Avvenire, 05.04.2007)
La convivialità non è un fatto di massa. Devi fermare il tempo - il flusso, lo scorrimento e il tumulto - per aprire lo spazio della convivialità. Per la giusta prossimità, hai bisogno della giusta distanza. Di un certo raccoglimento, sia pure nel mezzo della confusione. Le distanze e l’accoglienza della tavola, insomma. Non è solo il fatto del prendere il cibo insieme, cucinarlo, offrirlo, dividerlo. Il fatto decisivo, è il simbolo originario e indistruttibile della prossimità affettiva e colloquiale dell’umano. Prossimità lietamente condivisa di tutte le cose intime e indifese dell’uomo, quelle che prendono l’anima per la gola. L’"abboffata" è il contrario della convivialità.
La convivialità è il luogo - materiale e spirituale - che viene spontaneamente cercato nel momento della vigilia e del ritorno dalle lunghe distanze e separazioni. Il più adatto per stemperarne le tumultuose emozioni, che rendono sproporzionatamente goffi e impacciati tutti gli altri tentativi di gesti o discorsi all’altezza dell’evento. È il tempo in cui facciamo rientrare le parti umane delle relazioni con i nostri simili, dopo che le abbiamo lasciate fuori dalla porta dei nostri ruoli, professioni, prestazioni, contratti, accordi, mentre adempivamo i protocolli doverosamente inodori, incolori e insapori, delle nostre funzioni. (Il fatto è che ormai siamo quasi sempre funzionari di qualcosa). È il luogo migliore per la conciliazione, quando il gelo dell’estraneità accumulata si scioglie dentro. E ci sembra quasi impossibile avere in comune di nuovo il profumo insostituibile del pane e il calore sincero del vino.
È il momento nel quale, più facilmente che in ogni altro, scopriamo la forza e la bellezza della parola, quando non è più semplicemente uno strumento artificioso e puntuto di comunicazione con l’altro. Il colloquio con i propri simili, che condivide cose buone della terra per incoraggiare l’anima ad uscire dal guscio, è l’essenza del rapporto umano. L’icona migliore della destinazi one sperata.
Leggere della minuziosa cura con la quale il Signore fa preparare il luogo dell’Ultima Cena, ci deve colpire. Tutti sanno che cosa accade poi, lì dentro. E come accade. Il grado di intimità che lì si accende, non si era mai prodotto prima, fuori di lì. E non si riprodurrà, se non quando - è il Signore a dirlo - Egli ritornerà con un vino nuovo. È nel segno della convivialità che il Risorto offrirà la certezza di essere stati, nel frattempo, perdonati, riconciliati, accuditi per tutto il tempo che resta.
L’icona della vita destinata, nella parola evangelica, risplende tipicamente nella forma del convito. Una lezione, per la mediocre qualità del nostro modo predicatorio di anticipare la vita eterna. Un giudizio, per la volgarità degli usi strumentali della convivialità, nella società del godimento e dello spettacolo. Una provocazione, per chi crede che la convivenza degli umani debba essere urgentemente riscattata e salvata dall’oscuramento della convivialità diffusa. Pagando il prezzo, naturalmente, che l’impegno delle sue pratiche più autentiche ci chiede. E cominciando dai luoghi in cui le parole e il parlarsi decidono il destino delll’anima. (Ne posso nominare uno? La scuola, l’ultimo legame colloquiale - non di massa! - fra le generazioni. Che abbiamo abbandonato a se stesso, codardi che non siamo altro). Ma come, tutto questo? La liturgia di oggi ce lo mostra, come.