Violenza sulle donne, vincere una mentalità e tante ipocrisie
di Lucetta Scaraffia (Il Messaggero, 26 novembre 2013)
Il gesto fatto dal presidente Napolitano per suggellare la giornata dedicata alla violenza degli uomini sulle donne - cioè la nomina a Cavaliere della Repubblica di Lucia Annibali, l’avvocatessa di Pesaro sfregiata per ordine del fidanzato - è carico di significati positivi. Egli ha scelto infatti di rendere onore a una donna violentata che ha reagito con forza e coraggio, per celebrare un anniversario che spesso è solo occasione di lamenti e denunce.
È stato anche un chiaro rimando simbolico: se gli uomini credono di essere legittimati all’uso della violenza dalla necessità di difendere il loro onore maschile, il presidente segnala che l’onore vero è quello della vittima. Ed è un modo chiaro per far capire che le donne non sono solo vittime, ma che stanno affrontando con coraggio un’abitudine antica e vergognosa, quella della violenza, a cui molti uomini ricorrono per limitare la loro libertà, una libertà faticosamente conquistata.
È di questi gesti positivi che c’è bisogno, così come c’è bisogno di dichiarazioni di fiducia alle donne e alla loro capacità di individuare il male all’origine e di denunciarlo. Perché il problema della violenza contro le donne non è tanto un problema di repressione - la violenza contro di loro deve essere gravemente sanzionata, cert o, come deve esserlo ogni forma di violenza su un essere umano - ma un problema di cultura.
Una cultura che spesso vede le donne - almeno per un po’ - complici del proprio torturatore. Proprio per questo sono molto efficaci i manifesti che in questi giorni hanno tappezzato Roma - e speriamo anche il resto del Paese - con l’immagine di donne apparentemente felici, in cui però una frase di avvertimento getta un grido di allarme: «Se il tuo fidanzato è violento l’unico modo per cambiarlo è cambiare fidanzato» e altre parole dello stesso tenore, mirate ad aprire gli occhi alle vittime e a spingerle a sottrarsi alle situazioni pericolose, oppure a denunciarle.
Si tratta senza dubbio di una propaganda mirata alle donne, e molto efficace ai fini di un cambiamento dell’atteggiamento femminile, che spesso rasenta la complicità. Ma, dal punto di vista culturale, il cammino da percorrere è ancora lungo, e in parte da definire. Si possono avanzare molti dubbi sulla via proposta dal documento di Istanbul - e ripresa acriticamente in molti articoli in questi giorni - che vede nell’azzeramento di ogni differenza fra donne e uomini l’uscita di sicurezza contro la violenza. Alcuni arrivano a dire che se le bambine non giocano più alle bambole, e i bambini ai soldatini, ma entrambi lo stesso gioco, vivremo finalmente tranquilli.
Torna anche in questo caso il mito dell’uguaglianza intesa come uniformità, della cancellazione di ogni differenza come condizione base per garantire il rispetto reciproco. Una teoria pericolosa, che non si applica solamente alle donne e agli uomini, ma a ogni forma di differenza umana. Pericolosa perché - anche nell’ipotesi di un’intensa attività di uniformazione dei diversi - qualche cosa di diverso rimarrà sempre, e potrà costituire occasione di ostilità.
La via giusta invece è quella di lasciare esistere le differenze, ma offrire pari opportunità, e soprattutto insegnare il rispetto per ogni forma di vita umana, spiegando a ragazzi e ragazze che ogni essere umano è degno di rispetto, qualunque sia la sua identità sessuale, etnica, politica e religiosa. Solo in questo modo la difesa delle donne dalla violenza può diventare un pezzo del cammino da intraprendere per garantire il rispetto nei confronti di ogni essere umano, nei confronti della sua libertà e del suo diritto di fare scelte che magari altri non condividono. Solo in questo modo le donne si possono sentire parte dell’umanità a pieno titolo, e non una “minoranza” debole e vittimizzata che deve rinunciare alla sua specificità per salvarsi.