L’uomo che vuole morire
di LIETTA TORNABUONI *
C’è qualcosa di davvero eroico in Piergiorgio Welby, l’uomo che vuole morire. Se avesse voluto, se ne sarebbe andato in pace: forse non sarebbe stato difficile avere l’aiuto di un medico, di un parente, d’un amico per compiere una semplice azione letale. Nessuno avrebbe scoperto nulla, nessuno (magari sapendo) sarebbe intervenuto. Ma Welby, da autentico radicale, ha voluto usare il desiderio di mettere termine alla sua pena, con un gesto pubblico, in funzione sociale, per dare un esempio e una faccia alla battaglia per la legalizzazione dell’eutanasia, per far esplodere le contraddizioni.
Ci è riuscito. Hachiesto aiuto al Presidente della Repubblica e al ministro della Sanità, agli uomini di legge, ai cittadini come lui. Intorno al suo letto s’è addensato un mare di ipocrisie: non è consentito né pertinente al mio ruolo, la legislazione italiana manca su questo tema di formali possibilità di intervento, non mi sentireimai di collaborare a un simile gesto, si potrebbero impiegare metodi più taciti e meno brutalmente simbolici, la vita è un dono di Dio e soltanto Dio dà o toglie. Eccetera. Per più di novanta giorni, soffrendo come soffre, ha esposto se stesso alla pubblica compassione o curiosità, si è lasciato fotografare e filmare, si può immaginare con quale disagio: quel corpo immoto, quelle braccia bianche e magre incrociate sull’addome dilatato, quegli occhi attentissimi e inquieti, quella figura della moglie sempre vigile e presente.Durante circa tre mesi ha patito: nei malati che si sentono vicini alla fine, anche il minimo turbamento suscita un’ansia terribile, nonostante ogni volontà propria o solidarietà altrui.
Ma il compito che aveva affidato a se stesso lo ha assolto. I politici più freddi si sono comportati politicamente, badando nelle dichiarazioni alla scissione tra cattolici o non cattolici sull’eutanasia, e preoccupandosi di non aprire conflitti nelle rispettive coalizioni. Noi, per settimane, e non soltanto nei talk show televisivi, abbiamo discusso sul valore della vita, sul diritto di rifiutarla, sulla proprietà del corpo malato o sano, sul prevalere della legge sull’umanità o viceversa, sulla sofferenza più crudele della morte. Non ci sono molte occasioni per discutere simili temi: anche perché per sfuggire ad argomenti così si farebbe di tutto. Se per una volta abbiamo riflettuto, lo dobbiamo a Piergiorgio Welby.
* (La Stampa. 21.12.2006)