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"Occidente" e "Oriente". «Chi è più credibile», si chiedeva Pascal, «Mosè o la Cina»? François Jullien e Jean François Billeter: dibattito in corso - a cura di pfls

lunedì 8 gennaio 2007 di Maria Paola Falchinelli
L’alterità cinese, a carte scoperte
In «Pensare l’efficacia in Cina e in Occidente», François Jullien ribadisce ancora una volta che il grande paese asiatico è l’unico altrove possibile per il «noi» europeo. Ma, ribatte il sinologo Jean-François Billeter, questo è un mito che può trovare legittimità solo in un contesto filosofico
di Marco Dotti (il manifesto, 06.01.2007)
A dispetto delle critiche, talvolta molto dure, che di continuo gli vengono mosse, anche nel suo ultimo libro Pensare (...)

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> "Occidente" e "Cina". «Chi è più credibile», si chiedeva Pascal, «Mosè o la Cina»? François Jullien e Jean François Billeter: dibattito in corso.

lunedì 8 gennaio 2007

Riflessione L’Oriente che non c’è

Riflessione su visioni esotiche e pregiudizi di un immaginario comune.

di Adel Jabbar

Ringraziamo il carissimo amico Adel Jabbar per averci inviato la sintesi di un suo intervento in un recente convegno. Adel Jabbar, di origine irachena, è sociologo, ricercatore del RES di Trento, insegna "Sociologia delle culture e delle migrazioni" presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. *

“L’Oriente che non c’è” è un titolo che sembra fumoso e ambiguo e di fatto lo è. Un episodio accadutomi qualche anno fa dimostra la nebulosità di tale accezione, quando un giorno, ad un corso all’università, si facevano delle riflessioni sulla razionalità come caratteristica dell’Occidente, a differenza della emotività che era perlopiù caratteristica dell’Oriente. A quel punto mi sono posto e ho posto questa domanda: “dove iniziano e dove finiscono Oriente e Occidente?”

Quando si disquisisce di Oriente e Occidente, ci si riferisce a entità che non esistono e che non hanno un’effettiva consistenza, quasi fossero delle amebe. Poi se per capire guardiamo la geografia, le cose si complicano ancora: ad esempio si pensa al Marocco come fosse parte dell’Oriente, mentre si trova più ad occidente dell’Italia.

Quando si parla di grandi contenitori (come Oriente e Occidente), sovente si trascura il fatto che dentro tali spazi ci sono le persone. E nella storia le persone non hanno fatto altro che camminare. Da sempre l’uomo cammina verso l’opportunità e in questo cammino si intrecciano esperienze, credenze, scienze, tecniche, saperi e sapori.

Di fronte alla complessità della storia, è necessario oggi decostruire il proprio immaginario al fine di ripristinare una vera memoria capace di incrementare il proprio campo visivo. Si pensi alla Divina Commedia, riferimento fondamentale della letteratura italiana, che è stata in qualche modo ispirata dalla letteratura arabo-musulmana del periodo andaluso in Spagna. Fino al Rinascimento era normale, nei luoghi di studio europei, trovare libri scritti da pensatori arabo-musulmani. Ma l’Europa, a seguito del Rinascimento, ha cercato di farsi un’autarchica identità, togliendo dalla propria memoria i riferimenti positivi ad altri mondi, in particolare al mondo musulmano. La volontà era quella di rompere con la propria storia, come se l’Europa non avesse più avuto bisogno degli altri.

Quando oggi si rivendicano le radici cristiane dell’Europa, si dimentica che Cristo, Maria, i discepoli, molti dei grandi santi europei non lo erano. Le culture, tutte, sono il prodotto di scambi ed intrecci, conseguenza del camminare delle persone, per cui anche i musulmani fanno parte della medesima storia, quella delle relazioni. I musulmani, a loro volta, hanno attinto dalla cultura ebraica, cristiana, greca, romana, indiana, cinese, etc. I musulmani, sono a modo loro “occidentali”, per il fatto di aver dovuto confrontarsi con la matrice cristiana, greca, romana. Non si può ignorare che per lunghi secoli i musulmani siano stati mediatori tra culture lontane (Africa nera, Cina ed Europa). Quindi gli arabi sono stati capaci di trasformare la loro terra arida in una piattaforma girevole, mettendo in contatto l’Europa con le terre ricche dell’Africa, dell’India e della Cina. Tali contatti hanno fatto sì che la cultura araba potesse interloquire con altri modelli culturali e l’erede di ciò è stata l’Europa, che nel Rinascimento ha saputo fondere diversi saperi e tradizioni.

Questa circolazione, oggi, si esprime attraverso quattro dimensioni, che incidono sulle diverse identità territoriali, producendo trasformazioni sociali e cambiamenti culturali:

-  dimensione finanziario-economica: lo spostarsi dei capitali implica impatti sulle diverse popolazioni che attraversano, producendo il fenomeno della delocalizzazione degli investimenti e delle merci;

-  dimensione informativo-mediatica: essa rappresenta oggi una delle fonti che produce le maggiori pratiche di connessione tra i luoghi: velocità e simultaneità dell’informazione, formazione dell’opinione pubblica, in cui alcune agenzie fanno la parte da leone (Reuters, Associeted Press e France Press);

-  dimensione relativa agli stili di vita: grandi città, collocate in diversi contesti geografici, culturali, religiosi, sono attraversate da tendenze, mode, prodotti che le rendono spesso arredate dalle medesime insegne pubblicitarie e costruite con i medesimi stili urbanistici;

-  dimensione politica: a livello mondiale si assiste ad un attivismo di un unico attore politico, in grado di determinare la vita politica di quasi la totalità del pianeta.

Queste quattro dimensioni possono essere sintetizzate nella globalizzazione, in cui il centro del mondo esercita una quasi indiscussa egemonia sulla vasta periferia del sistema.

I musulmani, oggi, sono gli abitanti di un’area geografica priva di unità politica, con scarsa sovranità, economicamente subalterna, culturalmente soggiogata, militarmente inesistente. Quindi abitanti delle periferie del mondo. Sono accomunati ad altre popolazioni che non sono musulmane dagli stessi problemi: disagio economico, instabilità politica, conflitti, etc. Il profilo del musulmano generalmente trasmesso dai mezzi di informazione, aggressivo, minaccioso, misogino, con forte identità, portatore di un progetto contrario alla democrazia e alla libertà, nella realtà è molto diverso. I musulmani vivono in 56 Stati, diversi per tradizioni culturali, sistemi politici, condizioni economiche, alleanze internazionali. L’unica caratteristica che li accomuna, in modo differenziato, è la scarsissima autonomia politica.

Le sfide di oggi sono comuni. Pensiamo alla questione ambientale (inquinamento dei mari, dell’aria, le scorie industriali, la qualità del cibo, etc.), alla questione della giustizia sociale (redistribuzione della ricchezza), alla questione della dignità e della libertà della persona: sono temi trasversali, problemi dell’umanità. L’invito che Giovanni Paolo II ha rivolto, il 27 ottobre 1986, ai diversi rappresentanti delle religioni è stato lungimirante e consapevole della comunanza delle problematiche mondiali.

Dibattito finale

Perché c’è il terrorismo? Da dove nasce?

Le motivazione che stanno alla base del sorgere del terrorismo possono essere sinteticamente elencate:

-  il fallimento dei processi di modernizzazione, che non hanno dato i risultati sperati in termini di sovranità politica, modelli economici corrispondenti ai bisogni della società e soprattutto il venire meno del riconoscimento del pluralismo culturale e politico nella società;

-  tale fallimento ha trasformato le classi dirigenti, spesso moderniste e secolarizzate, in élite che gestiscono gli affari dello Stato quasi che si trattasse di affari privati;

-  l’ingerenza straniera e il neocolonialismo;

-  la caduta delle vecchie ideologie, socialista, comunista e anticoloniale, ha aperto un vuoto politico, riempito da “nuovi” attori che utilizzano la religione politicamente in modo spregiudicato.

Il pensiero riformista islamico si trova circondato da fondamentalismo, modernismo e neocolonialismo violenti, cosa che rende la sua azione decisamente limitata e con difficoltà di accesso allo spazio pubblico. Contro il terrorismo è, invece, necessario un pensiero riformista, capace di elaborare un progetto che attinga alla tradizione musulmana, capace di aprirsi alle questioni mondiali e di vivere lo spazio riconoscendo la pluralità che lo caratterizza. A tale proposito va ricordata una grande figura del riformismo islamico dell’inizio del novecento, Badashah Khan, soprannominato il Ghandi musulmano, che è stato fautore dell’indipendenza dell’India, sostenitore della laicità e fondatore di un esercito non-violento (i Servitori di Dio). Le azioni degli appartenenti a questa organizzazione sono state la diffusione dell’istruzione, la tutela della salute e la giustizia sociale.

Questione dei Sunniti e degli Sciiti.

Entrambi rivendicano di essere interpreti del pensiero musulmano ortodosso. La differenza nasce attorno ad una questione politica: chi è il successore del Profeta? Gli Sciiti sostengono che il successore dovrebbe essere appartenente alla discendenza del Profeta, mentre i Sunniti allargano la possibilità della successione anche ai suoi compagni. Con l’andar del tempo, questa diatriba è divenuta una controversia di tipo teologico, quando gli Sciiti sostennero che il motivo per cui avevano ristretto la successione ai soli discendenti del Profeta derivasse dal fatto che i discendenti erano anche i veri possessori della fede. Oggi questo non c’entra con la problematica in Iraq, non esistendo più né discendenti né compagni del Profeta; si tratta, al contrario, di competizione politica e di conquista del potere tra vari gruppi, all’interno di una situazione a tal punto complessa, piena di insidie e contraddizioni, da rendere quasi inutile lo schema che vuol dimostrare che il conflitto odierno è tra sunniti e sciiti.

Perché i musulmani odiano gli USA?

Più che di odio si tratta di critica e contrarietà. La politica estera statunitense ha spesso sostenuto e sostiene regimi dispotici o illiberali, in Paesi musulmani e non.

Nei primi non è successo come in Italia, dove l’immagine degli americani è ancora quella di liberatori. Tutt’altro. Esiste la consapevolezza che essi sono stati responsabili dell’appoggio di regimi dispotici come nel Cile di Pinochet, nell’Iran dello Scià, nelle Filippine di Marcos e in altri Stati del mondo. Agli occhi di molti popoli musulmani la politica statunitense è una politica contraria ai loro interessi e alle loro aspirazioni, proprio perché molti governi dispotici o illiberali, arabi e musulmani, godono del sostegno statunitense. Senza dimenticare che la nascita degli Stati Uniti si è basata sulla schiavizzazione della popolazione nera e sulla distruzione della componente indigena e questo molti popoli lo sanno.

Perché le donne devono portare il velo?

Innanzitutto indossare il velo rappresenta una scelta personale. Infatti, in molti Paesi musulmani, alcune donne lo portano, altre no. Tra coloro che lo indossano vi è chi lo fa per tradizione, chi per scelta sociale, chi per scelta politica. Non a caso, anche all’interno della medesima famiglia alcune donne lo portano, altre no. In pochi Paesi indossarlo è obbligatorio (come in Arabia Saudita e Iran), in altri è persino proibito (Tunisia e Turchia). Senza dimenticare che esiste anche un approccio maschilista, che vuole esercitare il controllo sul corpo della donna, coprendola, a differenza di un’altra forma di controllo maschile, prevalente nella società europea, che vuole il corpo femminile giovane e scoperto. Entrambe le forme di controllo rispondono alle esigenze di una certa cultura maschilista.

Utilizzo delle categorie Oriente-Occidente

Si tratta di un uso strumentale per mettere l’uno contro l’altro, mentre si hanno questioni comuni, che necessitano di mettere in campo energie comuni. Il muro contro muro è un approccio fuorviante, che non risponde alla realtà concreta. Si è europei e arabi, musulmani e cristiani, indiani e cinesi, statunitensi e latinoamericano, tutti sono dentro un mondo globale, dentro un sistema politico-economico mondiale, in cui esistono svantaggiati e avvantaggiati al di là delle loro appartenenze religiose, linguistiche, statuali.

Come favorire l’inserimento da noi dei musulmani?

Bisogna trasformare la coabitazione in convivenza. Se consideriamo l’aspetto economico e le aspirazioni ad un certo stile di vita sono pressocché integrati. Ma si deve pensare alla partecipazione, al coinvolgimento e chiedersi “dove si vuole andare?”. Serve un tavolo civico di dialogo. E’ necessario il passaggio alla coesistenza, alla corresponsabilità e alla condivisione.

* www.ildialogo.org, Lunedì, 08 gennaio 2007


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