IL GRANDE STORICO DELL’ARTE spiega come l’esperienza psichica dell’immaginare non solo consenta di mobilitare uno sguardo nuovo sul mondo ma soprattutto offra un enorme potere politico
L’immaginazione è soprattutto rivoluzione
di Georges Didi-Huberman (l’Unità, 19.09.2008)
Walter Benjamin ha parlato del surrealismo, questo straordinario dispiegamento dei poteri dell’immaginazione, come dell’«ultima istantanea sugli intellettuali europei». Con ciò, egli intendeva collocare l’immaginazione in un contesto immediatamente filosofico, se non addirittura politico. La questione, infatti, è anzitutto quella del rapporto «tra fronda anarchica e disciplina rivoluzionaria», tra libertà poetica ereditata da Rimbaud (di cui cita un passaggio tratto dalle Illuminazioni) e vincoli inerenti ad ogni azione politica collettiva. La vulnerabilità del rapporto tra illuminazione e azione è dovuta alla differenza, che può essere del tutto trascurabile o invece radicale, tra prendere posizione e prendere partito. Per esempio, non è sicuro che Aragon prenda già partito in Une vague de rêves, pubblicato nel 1924. Ma il «nucleo dialettico» del suo lavoro, come ebbe a dire Benjamin, è ben leggibile nella sua propensione a sperimentare, «là dove la soglia tra veglia e sonno (è)in ciascuno attraversata dal flusso e riflusso di un’enorme massa di immagini».
Descrivendo questa situazione poetica sperimentale e scoprendola agitata dal «flusso e riflusso di un’enorme massa di immagini», Benjamin utilizza una terminologia inaspettata per chi è solito associare questa «massa di immagini» alla «fantasia» personale del creatore ispirato. In effetti, non si tratta di fantasia, ma di una «esattezza automatica», qualità oggettiva di cui ogni flusso o riflusso di immagini risulta investito. In questo caso, dunque, l’illuminazione è automatica. Semplificando un po’ - giacché in ogni opera, in ogni esperienza concreta, tutto ovviamente si mescola e si complica - si potrebbe dire che, secondo Benjamin, il fondamento del surrealismo consiste proprio nell’associare, nel combinare, nel montare assieme due automatismi simmetrici: da una parte, il reflusso automatico delle immagini «interiori»; dall’altra, il flusso automatico delle immagini «esteriori».
Il primo automatismo è di natura psichica: è quello che va, nel libero impiego che ne fanno i surrealisti, dall’«automatismo mentale» di cui parla Pierre Janet alla «coazione a ripetere» di cui parla Freud. Automatismo di ripetizione e di ebbrezza che comporta, dice Benjamin, un «vero e proprio superamento creatore dell’illuminazione religiosa». La propedeutica a questo tipo di illuminazione non è dunque più il credo o l’esercizio spirituale alla maniera gesuitica, cose che Georges Bataille respingeva anche nella propria tecnica di «esperienza interiore», ma, eventualmente, il ricorso agli stupefacenti: una propedeutica «materialistica», dice Benjamin, «ma pericolosa». In Nadja di André Breton - che, su questo piano, rinnova la «dialettica dell’ebrezza» già presente in Dante, il Dante poeta del mondo terreno analizzato da Erich Auerbach e citato in questo saggio da Benjamin - è l’amore, e non la droga, a condurre all’illuminazione. Analogamente, nella Storia dell’occhio di Bataille, questa funzione sarà svolta dall’esperienza erotica.
Ebbene, in queste esperienze surrealistiche Benjamin scorge un’autentica unione di «energie rivoluzionarie»: uno «sguardo politico» finalmente rivolto al mondo in generale. L’esperienza psichica dell’immaginazione ha, qui, la vocazione di trasformarsi in presa di posizione: vi è «passaggio da un atteggiamento estremamente contemplativo all’opposizione rivoluzionaria». E ciò avviene grazie a una doppia conversione, a una doppia deviazione: l’ebbrezza interiore si trasforma in pensiero reminiscente (deviazione attraverso la durata), e quest’ultima mobilita uno sguardo nuovo sul mondo esteriore (deviazione attraverso le cose).
È a questo punto, ricorda Benjamin, che interviene «la fotografia (...)in maniera assai singolare». Grazie alle sue possibilità tecniche, quali l’inquadratura (ovvero i difetti di inquadratura), la messa in serie e la frammentazione (ovvero lo smontaggio e il rimontaggio), la fotografia rende visibile o, piuttosto, illumina un mondo «dove ogni giorno affiorano inimmaginabili analogie e intrecci di eventi». Benjamin la chiama capacità di lirismo - a condizione di sapere che il lirismo e l’illuminazione di cui si parla dipendono dalle possibilità dischiuse dal medium fotografico, ossia da un automatismo di riproduzione e di oggettività. Da ciò deriva il carattere a un tempo fantasmatico e documentario, testimoniale e rivoluzionario della produzione di immagini fotografiche, divenuta il principio paradigmatico del surrealismo letterario e artistico in generale.
Benjamin, com’è noto, chiama questo potere della fotografia «illuminazione profana» (profane Erleuchtung), espressione divenuta famosa, benché sia ancora tutta da charire. La sua «ispirazione», precisa Benjamin, è «materialista» e «antropologica». In quanto esperienza di illuminazione, essa scaturisce ormai direttamente dagli oggetti più umili e, soprattutto, dai corpi, che il surrealismo aveva riconosciuto come il primo luogo delle energie rivoluzionarie. Fare della poetica una politica equivale dunque a deviare, a trasformare - senza per questo negarla - la sorpresa da cui probabilmente traggono origine i gesti artistici: (...)
Il legame stabilito da Benjamin tra l’«illuminazione profana» e la tecnica fotografica rivela che il «flusso» dell’ebbrezza non sarebbe nulla - nulla che valga, che duri, che abbia valore critico - senza la costruzione delle sue immagini nel tempo. Costruzione della durata che non potrebbe effettuarsi, in effetti, senza una mediazione tecnica. Ciò che l’ebbrezza fa sorgere come illuminazione o «istante utopico» dell’immagine, tocca all’immaginazione - concepibile come «durata utopica» dell’immagine - trasformare in una esperienza di pensiero, in una «immagine di pensiero». Proprio perché è un gioco, proprio perché smonta continuamente ogni cosa, l’immaginazione è costruzione imprevedibile e infinita, ripresa perpetua di movimenti iniziati, contraddetti, sorpresi nelle loro inedite possibilità di cambiamento.
Ora, questa costruzione si svolge, dialetticamente, su due piani nello stesso tempo: essa dispone le cose per meglio esporne le relazioni. Crea rapporti insieme a differenze, lancia dei ponti sopra gli abissi che essa stessa ha dischiuso. È dunque montaggio, attività in cui l’immaginazione diviene una tecnica - un artigianato, un’attività manuale e strumentale - che produce pensiero alternando incessantemente differenze e relazioni. (...)
Diviso tra la posizione di Martin Buber e quella di Bertolt Brecht, Benjamin non fu compreso da nessuno dei due. La sua dialettica era troppo arrischiata, troppo esigente, così come il suo rapporto con la tradizione, da una parte, e la rivoluzione, dall’altra, era troppo anacronistico, apparentemente votato all’impossibile. Ma così facendo Benjamin toccava il cuore stesso della questione che qui ci interessa, e cioè il rapporto tra immaginazione e storia.
L’immaginazione del veggente - che si tratti di Rimbaud, di Kafka o dello stesso Benjamin - si appoggia necessariamente sui documenti dell’osservatore, ma si sente anche autorizzata a prendere il materiale storico in contropelo, disorganizzando, allegramente o dolorosamente, ciò che viene suggerito dalle evidenze causali di superficie. Occorrono delle immagini per fare la storia, soprattutto nell’epoca della fotografia e del cinema. Ma ci vuole l’immaginazione per rivedere le immagini e, dunque, per ripensare la storia.