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Gioacchino da Fiore

LA POLONIA E IL VESCOVO SPIA, LA CADUTA DEL MURO DI BERLINO, GORBACIOV, E WOJTYLA. UNIONE SOVIETICA E CHIESA CATTOLICA: UNA SOMIGLIANZA CATASTROFICA E UN NODO NON ANCORA SCIOLTO !!! TUTTA L’ "ANALISI" IN UNA VIGNETTA DI "LE MONDE", RIPRESA DA "CUORE", DEL 1989 !!!

giovedì 11 gennaio 2007 di Maria Paola Falchinelli

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> CADUTA DEL MURO !!! UNIONE SOVIETICA E CHIESA CATTOLICA: UNA SOMIGLIANZA PERICOLOSA E CATASTROFICA. L’ "ANALISI" IN UNA VIGNETTA DI "LE MONDE", RIPRESA DA "CUORE", DEL 1989 !!!

lunedì 8 gennaio 2007

LA TESTIMONIANZA

E un giorno Papa Wojtyla mi disse: "Il regime ci provò anche con me"

di JOAQUIN NAVARRO-VALLS *

La nomina e successiva dimissione di Monsignor Wielgus e lo scalpore della confessione della sua collaborazione con i servizi segreti polacchi mi hanno fatto pensare a due episodi che mi sono capitati alcuni anni fa.

Era il giugno del 1988 ed ero a Mosca con il cardinale Casaroli in occasione della celebrazione del Millennium cristiano della Russia. Erano passati soltanto tre anni da quando Gorbaciov era salito al potere, e la sua perestroika era ancora soltanto una ipotesi. Alle 16.30 nella camera dell’albergo Sovietskaja dove soggiornavo ricevetti una telefonata. All’inizio la voce cominciò a parlarmi in russo; poi, di fronte alla mia richiesta di passare all’inglese, sentii rispondermi: "Niet!". Allora, chiesi di parlare in francese, italiano oppure spagnolo ma ad ogni mia offerta la voce ribadì: "Niet!". La conversazione sarebbe finita lì, se a quel punto egli non mi avesse chiesto di parlare in latino.

Io risposi con un certo imbarazzo: "Intelligo". Egli proseguì, dicendo: "Ego episcopus ucrainum sum". Mi disse che si chiamava Ivan Markitis. Mi spiegò di aver letto sulla Pravda della presenza in Russia di una delegazione cattolica e di essere venuto a Mosca dall’Ucraina per incontrarsi con noi.

Io pensai che sicuramente la telefonata era stata registrata dal Kgb. Due giorni dopo Gorbaciov ci avrebbe ricevuto al Cremlino, occasione che sarebbe stata la prima pietra del percorso che condusse, un anno dopo, all’incontro storico con Giovanni Paolo II in Vaticano. Poi, verificai il nome che la persona mi aveva dato e vidi che non corrispondeva a nessun vescovo da noi noto. A quel punto, dopo aver a lungo riflettuto, decisi di non incontrarlo. Pensai che il nostro incontro per lui sarebbe stata la fine.

Anche in un’altra occasione mi è accaduta un’esperienza analoga. Era il 1995 ed ero a Pechino per partecipare alla Conferenza internazionale sulla donna organizzata dell’Onu. Al Palazzo dei Congressi, dove si svolgeva l’iniziativa, si avvicinò una giovane donna cinese, forse fingendosi giornalista, che parlava un inglese molto rudimentale. Mi disse di essere cattolica e che voleva informarmi che tre vescovi cinesi underground avevano saputo della nostra presenza e volevano incontrarci.

Spiegai alla mia interlocutrice che noi non avremmo avuto problemi a vedere quei prelati, perché tutelati dallo statuto diplomatico, ma quelle persone sarebbero state immediatamente dopo arrestate. Anche in quella occasione, decisi di non fare l’incontro.

In definitiva, come ho imparato anche direttamente durante i miei soggiorni in Polonia nei primi anni Ottanta, bisogna conoscere bene la situazione in quei mondi per mettere i fatti nella giusta prospettiva. In questo senso, le motivazioni date dal nuovo vescovo polacco, relative alla possibilità di studiare all’estero o di garantire la propria incolumità personale, descrivono una situazione, una logica, che era molto diffusa in quel momento nei paesi dell’Est. Wielgus non avrebbe mai potuto avere i visti per studiare all’Università di Monaco, se non avesse accettato il compromesso che gli veniva offerto dal regime. E questa condizione era comune a molti altri suoi concittadini, sacerdoti o meno.

In quei paesi la situazione per molti sacerdoti e vescovi era molto difficile da vivere e molto semplice da spiegare: si viveva in una tensione continua tra l’eroismo e la compromissione. E non era una lotta in cui bisognava decidere una volta per tutte: la decisione doveva essere rinnovata almeno ogni giorno e spesso parecchie volte ogni giornata. Tutto dipendeva del capriccio ideologico del potere. Prima del 1957 molti sacerdoti furono torturati oppure scomparvero e furono uccisi.

Dopo il 1957 prima con Gomulka e poi con Gierek si rischiava soltanto l’ostracismo, la solitudine imposta, il divieto sistematico di studiare in una qualche università all’estero, l’impossibilità di avere un passaporto del proprio paese.

La percezione di tutta questa realtà era molto chiara anche a quello che sarebbe diventato il più famoso prete della Polonia: Karol Wojtyla. Egli però non aveva mai accettato alcun compromesso con il regime comunista. Bisogna dire che trovava in questo un grande aiuto nella sua estrema povertà che lo rendeva immune da qualsiasi ricatto: non aveva nulla, nulla gli poteva essere offerto. Non desiderava nulla; quindi, non era ricattabile. Egli non ha mai accettato coinvolgimenti, anche se conosceva a fondo le difficoltà che si dovevano affrontare per sopravvivere in Polonia.

Si può dire che la sua comprensione delle difficoltà del prossimo faceva parte, in fondo, della sua profonda spiritualità, della sua profonda libertà e, alla fine, della sua stessa vita di fede. Le reazioni verso i fatti che vedeva erano esemplificative del suo modo di essere e della sua ricca esperienza di vita, molto comprensiva verso gli altri. "Bisogna imparare a perdonare", mi disse una volta facendo riferimento a questi fatti. E lo diceva lui che non aveva bisogno di perdono alcuno per le "colpe" di tanti in quegli anni. E questo atteggiamento di giustificare alcune scelte di quegli anni è rimasto in lui anche quando anni dopo ha dovuto esercitare il perdono in nome di tutta la Chiesa.

Ma lui aveva, certamente, scelto un’altra strada. Wojtyla aveva vissuto nell’ecosistema della menzogna istituzionalizzata dal giorno della sua ordinazione come prete a quello della sue elezione a Papa. Tutti gli anni della sua formazione e poi dello sviluppo della sua personalità avevano avuto come humus questo ambiente sociale e culturale. Penso che soltanto le caratteristiche della sua persona siano state il vero motivo per cui Wojtyla scelse una strada diversa rispetto a tanti altri.

Certamente, egli dovette ricorrere a degli pseudonimi per pubblicare le sue poesie, le sue opere di teatro e i suoi saggi di antropologia personalista, finanche per realizzare la sua strategia di confronto con il regime. Egli però non ricorse all’anonimato per nascondersi o per accettare sotterfugi, ma per realizzare con maggiore libertà la sua lotta centrata nel senso della cultura, per l’educazione e per i valori in cui credeva, senza dover esporre pubblicamente e ufficialmente la Chiesa a rischi inutili.

La sua scelta "diplomatica" è stata in fondo così poco diplomatica, anche se, alla fine, coronata dal successo, perché portatrice di una visione più ricca di umanità. In effetti, il profondo rispetto che tutti hanno rivolto verso Giovanni Paolo II, anche in occasione della sua morte, era molto legato al suo carisma e al suo peculiare modo di essere così comprensivo verso gli altri, ma anche così intransigente nelle scelte fondamentali. Questo atteggiamento era capito perfettamente anche da chi non lo amava: incuteva rispetto e, alla fine, ammirazione.

Il Cardinale Wyszynski chiedeva sistematicamente in quegli anni ai giovani preti di sottoscrivere un impegno formale di lealtà verso la Chiesa in Polonia. A Wojtyla non lo chiese mai né Wojtyla formalizzò mai impegni di questo tipo. Non ce ne era bisogno. Lo sapeva Wyszynski. E lo sapevano anche tutti gli altri preti. E lo sapeva lui stesso.

Una volta ho sentito raccontare da lui, con un velo di ironia, delle volte che era stato convocato dalla polizia per gli inevitabili e frequenti interrogatori. Loro chiedevano delle sue posizioni sulla politica, sulla società, sulla struttura del potere. Lui non aveva fretta nelle sue risposte. E parlava dell’uomo in una concezione personalista, citando alcuni pensatori contemporanei ma anche l’Etica di Aristotele e perfino la Politica di Platone. Poi distingueva tra l’etica dei valori in Max Scheler e i pericoli di un solipsismo che si concretava nel "riflettere sulla riflessione".

Naturalmente, i funzionari non capivano niente di quei lunghi monologhi. Alla fine lo lasciavano partire: "Non è pericoloso" segnavano nei loro appunti. "E pensavano - mi diceva lui anni dopo ridendo - che un giorno anche io avrei potuto collaborare". Non è un caso, ad esempio, che Wojtyla sia stato l’unico vescovo polacco ad aver ottenuto il passaporto con il visto per partecipare a tutte le sessioni del Concilio Vaticano II. All’inizio, le autorità polacche pensavano erroneamente che egli avrebbe ceduto e accettato una qualche forma di incontro con il regime, passando se non dalla loro parte almeno ad una parte grigia e intermedia, cioè quell’ambito sbiadito che di solito chiamiamo "spazio di nessuno". Probabilmente, l’apparato politico aveva tenuto conto dell’abilità diplomatica e della grandezza di pensiero dell’interlocutore, ma certamente gli sfuggiva la sua alta visione dell’uomo e soprattutto, la sua libertà spirituale.

Tutte le volte che in discussione erano i valori fondamentali, allora non era più il momento di discutere, ma di affermare la verità. Quando non esiste libertà nell’aria che si respira, pensava, l’unico modo di sopravvivere sta nel non tradire la verità che si ha dentro poiché nel difendere e proteggere quella verità interiore sta l’unica forma di libertà che è veramente essenziale all’essere umano. Wojtyla in quegli anni non diceva soltanto la verità, ma piuttosto viveva nella verità: la verità che l’ecosistema totalitario di quelli anni, sistematicamente faceva affogare con la menzogna strutturata. Ed essendo così libero interiormente, non fu mai sottomesso a nessuna schiavitù, neanche a quelle forme di schiavitù minuta che erano tanto comuni intorno a lui per poter - dicevano - andare avanti. Ascoltando da lui i racconti di quelli anni, si aveva l’evidenza della straordinaria eleganza con cui aveva portato il peso che non sfugge in un modo o nell’altro a tutti noi: il peso di essere uomini.

Il coraggio e la coerenza fino all’eroismo, come si sa, sono virtù rare, e non tutti ne dispongono facilmente. Per questo, e soprattutto per quel "bisogna imparare a perdonare" che più di una volta ho ascoltato da Giovanni Paolo II riferito a quegli anni, penso che la difficoltà maggiore sta alle volte non nel giudicare - impresa sempre rischiosa - ma nel comprendere. O almeno nel cercare di comprendere. Il che non esclude l’ammirazione e magari anche la gratitudine verso chi nell’ambivalenza tra la compromissione e l’eroismo ha scelto la strada della verità.

* la Repubblica, 8 gennaio 2007


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