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Gioacchino da Fiore

LA POLONIA E IL VESCOVO SPIA, LA CADUTA DEL MURO DI BERLINO, GORBACIOV, E WOJTYLA. UNIONE SOVIETICA E CHIESA CATTOLICA: UNA SOMIGLIANZA CATASTROFICA E UN NODO NON ANCORA SCIOLTO !!! TUTTA L’ "ANALISI" IN UNA VIGNETTA DI "LE MONDE", RIPRESA DA "CUORE", DEL 1989 !!!

giovedì 11 gennaio 2007 di Maria Paola Falchinelli

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> CADUTA DEL MURO !!! UNIONE SOVIETICA E CHIESA CATTOLICA: UNA SOMIGLIANZA PERICOLOSA E CATASTROFICA. L’ "ANALISI" IN UNA VIGNETTA DI "LE MONDE", RIPRESA DA "CUORE", DEL 1989 !!!

martedì 9 gennaio 2007

La spia che venne dal clero

di Siegmund Ginzberg *

Quella del pastore che scende a patti col lupo per salvare il proprio gregge è una storia che si ripete. Per mettere a repentaglio la propria reputazione ci vuole talvolta più coraggio che mettere a rischio la propria vita, più eroismo a lavorare pazientemente per i compromessi che fare i martiri. A meno che uno il patto col lupo (o il diavolo) non lo faccia per salvare solo la stalla, non il gregge, solo l’istituzione di cui fa parte, la propria parrocchia, senza muovere un dito per le pecore delle greggi di altro colore, oppure addirittura solo se stesso e il proprio comodo.

A proposito dello scandalo che sta scuotendo i vertici della Chiesa polacca (l’arcivescovo di Varsavia, Stanislaw Wielgus, dimissionario confesso per collaborazione coi servizi segreti comunisti, il rettore della cattedrale di Cracovia, Janusz Bielanski, che lo segue a ruota, il primate di Polonia, Jozef Glemp, sotto accusa per averli difesi), il dottor Joaquìn Navarro-Valls, che era stato portavoce di Papa Wojtyla, ha elegantemente scritto di aver imparato da Giovanni Paolo II che «la difficoltà maggiore sta alle volte non nel giudicare - impresa sempre rischiosa - ma nel comprendere. O almeno nel cercare di comprendere». Ricorda di avergli sentito raccontare, «con un velo di ironia, delle volte che era stato convocato dalla polizia». «Loro chiedevano della sue posizioni sulla politica, sulla società, sulla struttura del potere». Lui parlava di filosofia. Quelli non capivano niente, e alla fine gli davano il passaporto. Navarro Valls racconta che Wojtyla gli disse ridendo: «Pensavano che un giorno anche io avrei potuto collaborare». Era forte del fatto che non avevano molti argomenti di ricatto: «Non aveva nulla, nulla gli poteva essere offerto. Non desiderava nulla; quindi non era ricattabile». Sta di fatto che, se non si compromise, non fece nemmeno nulla per deludere le «speranze» dei suoi nemici. Era stato l’unico vescovo polacco ad ottenere il passaporto con il visto per partecipare a tutte le sessioni del Concilio Vaticano. Era un grande leader spirituale, ma anche un politico accorto. Le autorità comuniste lo trattarono sempre coi guanti finché restò a Varsavia. Ricordo il vecchio, tremendo Gian Carlo Pajetta che scherzava: «Chissà se in Italia riusciremo ad essere all’altezza dell’attenzione che gli dedicava il governo polacco; sicurezza totale, un elicottero sempre a disposizione...». Con estrema eleganza, fu lui a metterli nel sacco, non viceversa. E può essere che per questo qualcuno abbia dato l’ordine di ammazzarlo. Ma era già Papa quando dalla Chiesa venne l’ordine a Walesa di non esagerare nello scontro e mettersi da parte.

Diverso lo stile dei commenti che sulla vicenda polacca arrivano dal Vaticano di Benedetto XVI. Un cardinale, il prefetto della congregazione per i vescovi, Giovanni Battista Re, si è precipitato per prima cosa a salvare il Papa e la casa madre dal pasticcio: «Noi non sapevamo nulla della collaborazione (di Wielgus) coi servizi segreti». Il portavoce, Federico Lombardi, si è messo addirittura ad evocare oscuri complotti, a denunciare una «ondata di attacchi» alla Chiesa cattolica in Polonia, persino «molti aspetti di una strana alleanza fra i persecutori di un tempo e altri suoi avversari, e di una vendetta da parte di chi nel passato l’aveva perseguitata ed è stato sconfitto dalla voglia di libertà del suo popolo». Un linguaggio del genere Papa Wojtyla non l’avrebbe permesso nemmeno quando gli spararono. Non è solo poco «elegante», il guaio è che rischia di essere controproducente, aumenta la confusione anziché chiarire le cose. Dei Papi verrebbe da dire quel che Machiavelli diceva dei principi (e dei leader in generale), e cioè che la maggior dote è la fortuna. Se c’è una cosa su cui questo Papa non sembra aver avuto fortuna, sin dall’inizio del suo pontificato, è la comunicazione. Prima le gaffe sulle responsabilità tedesche nell’Olocausto, poi il putiferio della lezione di Ratisbona, ora la faccenda polacca, un’impressione continua di dover rimediare a un malinteso dopo l’altro.

Ma con chi ce l’hanno? Con la destra ultra nazionalista, antieuropea, quasi «leghista», dei gemelli Kacynski? Con una non specificata ala di nostalgici dei servizi comunisti? Con nostalgici del Papa polacco in polemica col Papa tedesco? Con un possibile regolamento di conti all’interno della gerarchia cattolica polacca? Il primo a pubblicare, lo scorso autunno, una lista di 37 agenti, informatori, collaboratori dei servizi segreti del regime comunista, che avrebbero contribuito a perseguitarlo, era stato padre Henryk Jankoswski. Nella lista figuravano ben 9 sacerdoti, e persino un vescovo. Padre Jankowski non è uno qualunque: era il confessore di Lech Walesa; in passato avevano creato parecchio imbarazzo le sue tirate ultrà e antisemite.

In fatto di «compromessi» tra uomini di religione e potere, le cose sono spesso più complicate di quanto appaia a prima vista. C’è una predisposizione al vivere e lasciar vivere, se non a stare dalla parte del potere, qualunque sia, ma c’è modo e modo. È quasi mezzo secolo che in Cina ci sono due chiese cattoliche, pronti additarsi come traditori: la chiesa «patriottica», di regime, e la Chiesa fedele al papa. Succede per gli ortodossi: se nessun Papa ha messo piede in Russia non è colpa di Putin ma della Chiesa di Mosca. A scatenare la rivolta del 1989 contro il regime di Ceausescu, era statala persecuzione di un pastore protestante della minoranza ungherese di Timisoara, Lazlo Tokes, abbandonato dal suo vescovo, poi accusato di essere al soldo della Securitate. Fucilato il dittatore, il leader spirituale del 90 per cento dei rumeni, l’allora settantacinquenne patriarca ortodosso Theocist, fu costretto alla dimissioni e a ritirarsi in convento, per essersi compromesso troppo col regime. Ma il caso che ricordo allora mi aveva più impressionato era quello del rabbino capo di Romania, Moses Rosen. Aveva 77 anni quando fu accusato di avere collaborato con troppo entusiasmo con Ceausescu, di essere stato un suo agente e portavoce all’estero, uno strumento del regime. Il vecchio rabbino rispose che delle accuse non gli importava un fico secco, che tutto quello che aveva fatto era per proteggere il suo popolo, che era fiero di essere riuscito a comprare da quel «fascista» di Ceausescu le libertà di emigrare per 300.00 ebrei, mezzo suo gregge, e la libertà di culto per quelli che restavano, e che, se necessario, l’avrebbe rifatto tutto da capo.

* l’Unita, Pubblicato il: 09.01.07, Modificato il: 09.01.07 alle ore 8.34


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