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Auto-analisi

APOCALYPTO di Mel Gibson. Splatter? Tutto meno che splatter !!! E’ uno specchio eloquente della nostra realtà (non del popolo Maya!!!): dovrebbe essere proiettato dovunque, a casa e a scuola - di Giancarlo Dotto.

mercoledì 10 gennaio 2007 di Maria Paola Falchinelli
[...] Apocalypto è un film che andrebbe eventualmente vietato, e solo agli adulti, ma per la sua scandalosa bellezza, per la violenza, questa sì efferata, degli sguardi e delle parole. Uno spartito di un lirismo selvaggio, che non dà scampo dall’inizio alla fine. Tutti gli sguardi e tutte le parole di cui non siamo più capaci. La paura e il dolore [...]

Proiettate Apocalypto a scuola
di GIANCARLO DOTTO *
Andate a vederlo con (...)

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> APOCALYPTO di Mel Gibson. Splatter? Tutto meno che splatter !!! E’ uno specchio eloquente della nostra realtà (non del popolo Maya!!!)

lunedì 15 gennaio 2007

Il filo rosso della crudeltà

di GIOVANNI DE LUNA (La Stampa, 15.01.2007)

Guardate Apocalypto e lasciate perdere i Maya. Non cercate il rigore filologico in questo film, non fermatevi alla rappresentazione sanguinolenta di una idolatria pagana capace di generare le mostruosità dei sacrifici umani. Lasciate perdere il passato che il cinema racconta e pensate al presente, a quel presente che come un’ossessione incombe violento e spietato in tutti gli ultimi film di Mel Gibson. Guardiamola in faccia la crudeltà del presente, cominciando da quella che prorompe nelle nostre case quando si spezza la crosta della normalità. È come se la modernità avesse steso un velo sottilissimo a coprire abissi di crudeltà e di efferatezza che pensavamo appartenere solo a una storia molto più antica di noi. Sotto la superficie levigata del tinello tirato a lucido della casa dei due assassini di Erba, sotto il perbenismo legalitario di chi è pronto sempre a invocare la pena di morte, affiorano i tratti di una fortezza assediata al cui interno l’incubo di un nemico sempre evocato, alimentato dagli stereotipi delle chiacchiere al bar e dai rancori condominiali, ha finito col trasformare quello spazio domestico in una trincea da difendere a tutti i costi.

Nella casa di Erba la modernità è arrivata con la tranquillità economica, l’ordine, la pulizia, il televisore, il camper; e lì si è fermata. E ha lasciato irrompere nella loro squallida domesticità una violenza che noi - per rassicurarci - abbiamo cercato di confinare nei secoli bui del nostro passato: il loro gesto di sgozzare, tagliare, abbattere a bastonate, bruciare è tecnologicamente arcaico, primordiale, ma appartiene in realtà tutto alla nostra contemporaneità, nutrita dai succhi di una violenza che insidia i fondamenti della convivenza civile. Ed è proprio sul rapporto tra civiltà e barbarie che il film di Gibson ci aiuta a riflettere. Da Braveheart a The Passion, quale che sia il passato messo in scena, sono sempre le urgenze del presente a dettarne le tesi interpretative. In questo caso si tratta di rassicurare l’Occidente, attribuendo alla sua civiltà i tratti edificanti del «migliore dei mondi possibili». È come se, indugiando nella rappresentazione della barbarie dei Maya, Gibson volesse offrirci nuove armi per rafforzare la nostra identità culturale e religiosa, attribuendo alle croci e alle caravelle dei conquistadores (che appaiono nella scena finale) i tratti di un’icona salvifica, illuminando il cattolicesimo e i valori dell’Occidente con la luce del progresso e del riscatto dalla ferinità primordiale dell’homo hominis lupus.

Il corpo del nemico ucciso

Nella contrapposizione tra i Maya sanguinari e la missione redentrice dell’Occidente è evidente quindi la tentazione ottimistica di guardare alla barbarie come a uno stadio regressivo della nostra storia, confinato in un passato tribale, primitivo, un aspetto residuale del processo di civilizzazione destinato progressivamente a scomparire. Lasciamo perdere le teste mozzate che rotolavano giù dalle piramidi maya e guardiamo quelle che rimbalzano dai nostri teleschermi. In realtà, il taglio della testa e le mille altre «profanazioni» a cui viene sottoposto il corpo del nemico ucciso non sono né un residuo, né una caduta; appartengono pienamente agli uomini che abitano la nostra contemporaneità. Per restare solo all’Iraq, prima ancora dell’«esposizione» di Saddam, i suoi figli uccisi e sfigurati, poi imbellettati e messi in mostra, i quattro vigilantes americani bruciati, smembrati, legati ai parafanghi delle auto, trascinati nelle strade di Falluja, appesi a un ponte di ferro sul Tigri, gli ostaggi decapitati davanti alle telecamere, i cadaveri smembrati di Nassiriya, i giochi sadici dei torturatori con i cadaveri dei detenuti nel carcere di Abu Ghraib ci hanno ricordato come ancora oggi la guerra consista essenzialmente nel modificare (bruciare, danneggiare, colpire con un proiettile, mutilare) il corpo umano. L’uso che Gibson fa della contrapposizione civilizzazione/barbarie, tradotta in quella tra «moderno» e «arcaico», è in questo senso decisamente fuorviante.

La matrice religiosa della violenza

Oggi, anche alla luce dell’irruzione postnovecentesca del fondamentalismo islamico e di quello che succede sui vari fronti di guerra, risulta veramente difficile espellere dalla modernità la matrice religiosa della violenza, il peso sempre più marcato che in essa rivestono gli aspetti rituali e simbolici. Certo le tecnologie di una guerra da questo punto di vista esasperatamente moderna e l’avvento delle comunicazioni di massa definiscono i tratti di indubbia specificità rivestiti dalle crudeltà contemporanee. Ma alla fine emerge sempre un versante simbolico-rituale che in qualche caso schiaccia sullo sfondo tutte le altre possibili motivazioni di quelle violenze, di quei gesti e di quelle morti. Proprio dal confronto con il presente emerge così la profonda ambiguità che segna la tesi di Mel Gibson: nell’evocare la «barbarie», è anche plausibile un’interpretazione catastrofista di quelle pratiche, che indica invece nel suo riaffiorare oggi un punto di non ritorno, l’inizio di un processo inverso di «annullamento della civiltà» in cui la spinta alla civilizzazione si è esaurita e l’umanità comincia ad avviarsi lungo un percorso di inarrestabile decadenza.


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