Proiettate Apocalypto a scuola
di GIANCARLO DOTTO *
Andate a vederlo con tutti i pregiudizi del caso e anche un po’ di rancore quel sadico sanguinario di Mel Gibson, ma andateci, vi prego, e appena si fa buio in sala, profittatene. Mollate. Abbandonatevi. Lasciatevi traviare, stuprare, non fate resistenza, sono vostri quei fiati mozzati, quelle teste recise, i cuori spiantati. E per chi si contenta e gode, minimo garantito comunque, una formidabile esperienza sensoriale, due ore e più sull’ottovolante, i cinque euro meglio spesi della vita. Ma c’è dell’altro, molto altro, non solo grande cinema, nell’insostenibile foresta di Mel Gibson.
Sbirri del Codacons, ministro Rutelli, presunti psicologi di una presunta infanzia, gnomi e gnomesse di certo snobismo liquidatorio, più laido che laico, barbosi filologi della verità storica, avete preso un granchio colossale. Determinati nell’afferrare per il bavero i dormienti signori della censura, quando per una volta, grazie al loro sonno, eravamo stati il Paese più civile del mondo. Apocalypto è un film che andrebbe eventualmente vietato, e solo agli adulti, ma per la sua scandalosa bellezza, per la violenza, questa sì efferata, degli sguardi e delle parole. Uno spartito di un lirismo selvaggio, che non dà scampo dall’inizio alla fine. Tutti gli sguardi e tutte le parole di cui non siamo più capaci. La paura e il dolore.
Splatter? Tutto meno che splatter. Non c’è un’immagine superflua. Non c’è una parola che non valga la pena d’essere ascoltata. La lingua dei Maya è pura evocazione. Il vecchio saggio che parla alla tribù: «Il buco dell’uomo, la sua ferita, è non smettere mai di desiderare». Millenni prima di Jacques Lacan. Mel Gibson un sadico? Non c’è sadismo dove c’è compassione. Sono gli sguardi compassionevoli di cui non siamo più capaci. «Torna da me», supplica lei bambina incinta dal fondo del pozzo al suo uomo disperso nella foresta. Un film che è tutta un’invocazione, a noi che non sappiamo più invocare. «Dormi adesso figlio mio. Non ci sarà più dolore», dice il guerriero più feroce al figlio morente. Mel Gibson uno psicopatico? Non più di chi se ne sta la sera a casa a spolpare che importa se un fegato d’oca o un cuore di tapiro, mentre un tale a Baghdad lo impiccano a vista tra una notizia sul ritorno dalle vacanze di Giorgino e uno sculettamento a caso delle veline. Non è questa apatia indifferenziata, l’essenza del sadismo?
Cinema primordiale forse, ma non rozzo e nemmeno elementare. Ossessionato a mostrare l’orrore e la fragilità della carne, ma ancora di più ossessionato a mostrare lo struggente delirio simbolico con cui gli uomini ci provano da sempre a nobilitare la loro orrenda e fragile storia priva di senso. Almeno per questo Apocalypto dovrebbe essere proiettato nelle case, nelle famiglie e nelle scuole, dove gli insegnanti avrebbero finalmente qualcosa da insegnare.
* La Stampa, 10.01.2007
La lite in un ateneo californiano durante un dibattito sull’ultima pellicola. Manda a quel paese la docente che lo accusa di aver fatto un film violento e inesatto
Gibson di nuovo nella bufera per Apocalypto
Offende un’insegnante di cultura maya *
LOS ANGELES - Mel Gibson perde di nuovo la pazienza e si mette nei guai, questa volta mandando a quel paese una professoressa di storia maya che lo ha accusato di aver fatto un film pieno di stereotipi e violenza e di dare un’idea fuorviante della cultura maya.
L’ennesimo incidente per il regista è avvenuto alla California State University, nel corso di un dibattito organizzato dall’ateneo per discutere la sua ultima pellicola. Alla fine dello screening, il regista si è trovato di fronte un pubblico severo e preparato sulla civiltà maya.
Gibson ha iniziato a rispondere alle domande degli studenti, molto contenti di avere il divo fra loro, ma quando la docente Alicia Estrada gli ha chiesto se avesse mai letto qualcosa di serio sui maya, il regista non è riuscito a mantenere la calma, l’ha mandata a quel paese e l’ha accusata di essere una provocatrice a caccia di guai.
Gli oltre 130 studenti presenti al dibattito sono rimasti sconvolti dalla reazione del regista e hanno a lungo applaudito la professoressa che, dopo lo scambio di battute, è stata costretta ad abbandonare l’aula. Ma prima che la docente uscisse di scena, Mel Gibson ha aggiunto: "Fatti un film tutto tuo". Il microfono è poi passato a un rappresentante delle comunità maya che però non è riuscito a terminare il suo discorso perché l’audio è stato interrotto bruscamente. "Faccia una domanda o se ne vada anche lei", lo ha ammonito un portavoce di Mel Gibson.
La docente ha deciso di non lasciar cadere la cosa e ora esige le scuse del regista. Alicia Estrada chiede che Gibson si scusi pubblicamente per il suo comportamento. "Dovrebbe farlo non soltanto con me - ha detto la docente - ma anche con il Centro Studi Centroamericani, con la California State University e soprattutto con tutte le comunità maya del Messico e del Centro America".
L’ex eroe di Madmax e Braveheart ultimamente, in quanto a tatto e a politicamente corretto, non ne azzecca una. L’anno scorso era stato arrestato a Los Angeles per guida in stato di ubriachezza. In quell’occasione si era lasciato andare a insulti antisemiti contro un poliziotto ebreo. Già in passato accusato di razzismo per il suo film La Passione di Cristo, con Apocalypto ha irritato anche le comunità indigene maya.
* la Repubblica, 25 marzo 2007
Il filo rosso della crudeltà
di GIOVANNI DE LUNA (La Stampa, 15.01.2007)
Guardate Apocalypto e lasciate perdere i Maya. Non cercate il rigore filologico in questo film, non fermatevi alla rappresentazione sanguinolenta di una idolatria pagana capace di generare le mostruosità dei sacrifici umani. Lasciate perdere il passato che il cinema racconta e pensate al presente, a quel presente che come un’ossessione incombe violento e spietato in tutti gli ultimi film di Mel Gibson. Guardiamola in faccia la crudeltà del presente, cominciando da quella che prorompe nelle nostre case quando si spezza la crosta della normalità. È come se la modernità avesse steso un velo sottilissimo a coprire abissi di crudeltà e di efferatezza che pensavamo appartenere solo a una storia molto più antica di noi. Sotto la superficie levigata del tinello tirato a lucido della casa dei due assassini di Erba, sotto il perbenismo legalitario di chi è pronto sempre a invocare la pena di morte, affiorano i tratti di una fortezza assediata al cui interno l’incubo di un nemico sempre evocato, alimentato dagli stereotipi delle chiacchiere al bar e dai rancori condominiali, ha finito col trasformare quello spazio domestico in una trincea da difendere a tutti i costi.
Nella casa di Erba la modernità è arrivata con la tranquillità economica, l’ordine, la pulizia, il televisore, il camper; e lì si è fermata. E ha lasciato irrompere nella loro squallida domesticità una violenza che noi - per rassicurarci - abbiamo cercato di confinare nei secoli bui del nostro passato: il loro gesto di sgozzare, tagliare, abbattere a bastonate, bruciare è tecnologicamente arcaico, primordiale, ma appartiene in realtà tutto alla nostra contemporaneità, nutrita dai succhi di una violenza che insidia i fondamenti della convivenza civile. Ed è proprio sul rapporto tra civiltà e barbarie che il film di Gibson ci aiuta a riflettere. Da Braveheart a The Passion, quale che sia il passato messo in scena, sono sempre le urgenze del presente a dettarne le tesi interpretative. In questo caso si tratta di rassicurare l’Occidente, attribuendo alla sua civiltà i tratti edificanti del «migliore dei mondi possibili». È come se, indugiando nella rappresentazione della barbarie dei Maya, Gibson volesse offrirci nuove armi per rafforzare la nostra identità culturale e religiosa, attribuendo alle croci e alle caravelle dei conquistadores (che appaiono nella scena finale) i tratti di un’icona salvifica, illuminando il cattolicesimo e i valori dell’Occidente con la luce del progresso e del riscatto dalla ferinità primordiale dell’homo hominis lupus.
Il corpo del nemico ucciso
Nella contrapposizione tra i Maya sanguinari e la missione redentrice dell’Occidente è evidente quindi la tentazione ottimistica di guardare alla barbarie come a uno stadio regressivo della nostra storia, confinato in un passato tribale, primitivo, un aspetto residuale del processo di civilizzazione destinato progressivamente a scomparire. Lasciamo perdere le teste mozzate che rotolavano giù dalle piramidi maya e guardiamo quelle che rimbalzano dai nostri teleschermi. In realtà, il taglio della testa e le mille altre «profanazioni» a cui viene sottoposto il corpo del nemico ucciso non sono né un residuo, né una caduta; appartengono pienamente agli uomini che abitano la nostra contemporaneità. Per restare solo all’Iraq, prima ancora dell’«esposizione» di Saddam, i suoi figli uccisi e sfigurati, poi imbellettati e messi in mostra, i quattro vigilantes americani bruciati, smembrati, legati ai parafanghi delle auto, trascinati nelle strade di Falluja, appesi a un ponte di ferro sul Tigri, gli ostaggi decapitati davanti alle telecamere, i cadaveri smembrati di Nassiriya, i giochi sadici dei torturatori con i cadaveri dei detenuti nel carcere di Abu Ghraib ci hanno ricordato come ancora oggi la guerra consista essenzialmente nel modificare (bruciare, danneggiare, colpire con un proiettile, mutilare) il corpo umano. L’uso che Gibson fa della contrapposizione civilizzazione/barbarie, tradotta in quella tra «moderno» e «arcaico», è in questo senso decisamente fuorviante.
La matrice religiosa della violenza
Oggi, anche alla luce dell’irruzione postnovecentesca del fondamentalismo islamico e di quello che succede sui vari fronti di guerra, risulta veramente difficile espellere dalla modernità la matrice religiosa della violenza, il peso sempre più marcato che in essa rivestono gli aspetti rituali e simbolici. Certo le tecnologie di una guerra da questo punto di vista esasperatamente moderna e l’avvento delle comunicazioni di massa definiscono i tratti di indubbia specificità rivestiti dalle crudeltà contemporanee. Ma alla fine emerge sempre un versante simbolico-rituale che in qualche caso schiaccia sullo sfondo tutte le altre possibili motivazioni di quelle violenze, di quei gesti e di quelle morti. Proprio dal confronto con il presente emerge così la profonda ambiguità che segna la tesi di Mel Gibson: nell’evocare la «barbarie», è anche plausibile un’interpretazione catastrofista di quelle pratiche, che indica invece nel suo riaffiorare oggi un punto di non ritorno, l’inizio di un processo inverso di «annullamento della civiltà» in cui la spinta alla civilizzazione si è esaurita e l’umanità comincia ad avviarsi lungo un percorso di inarrestabile decadenza.