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TV

"DR. HOUSE". UN PERSONAGGIO E UN FENOMENO TELEVISIVO. La sua essenza: un "nerd", un pò come il "tenente Colombo".

Segnalazione del prof. Federico la Sala
sabato 20 gennaio 2007 di Maria Paola Falchinelli
[...] Un fenomeno televisivo che buca lo schermo, legato a un personaggio davvero atipico, rude, ironico e geniale alle prese con malattie improbabili, come rabbia, lupus, e perfino la peste. Per catturare la sua essenza in una sola parola si è detto che è un ’nerd’, termine inglese con cui viene definito chi mostra una forte predisposizione per la ricerca intellettuale, associata ad una intelligenza superiore alla media, ma al contempo è solitario e asociale [...] (...)

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giovedì 25 gennaio 2007

Dr. House, siamo donne non sante

di Rossella Battisti *

Perché mi piace il dottor House? Semplice, perché non è il Clooney di E.R.. Ovvero, non è il solito belloccio delle serie tv americane, il piacione ombroso, quello che non deve chiedere mai perché tanto tutte sono disponibili e lui pure, una notte a talamo non la si nega a nessuna. House no, è uno che gli devi entrare dentro, e le strategie non servono: lui ti scruta con un doppio sguardo diagnostico e l’anima è nuda. Non che non noti la bellezza, quando per l’ospedale capita una superba teenager che a quindici anni è già modella da copertina, House osserva e ne sottolinea lo charme ma al tempo stesso intuisce un rapporto scabroso con il padre-manager, avverte i colleghi e se ne esce dalla stanza. Bastano pochi segni, le alterazioni del corpo che tradiscono quelle della psiche, la malattia come mappa per ricostruire il vissuto.

Ne sa qualcosa il nostro dottor Scontroso, il professionista delle poche parole ma affilate - calzato con british aplomb da Hugh Laurie -, c’è passato anche lui per il dolore e ancora ci sosta perché le conseguenze dell’embolo che ha avuto (e del ritardo nel diagnosticarlo) lo seguono a ogni passo, quando poggia a terra la gamba matta che ha subito l’operazione e che gli procura sofferenze lancinanti, costringendolo a soffocarle con dosi massiccie di antidoloriferi. Anche questo lo rende umano, plausibile nel suo andare al nocciolo delle cose senza ammortizzatori, così come nel restare sospeso nella sua incapacità di affrontare il mondo delle relazioni. Troppo dolore, dentro e fuori. Mascherato da un’implacabile ironia, sale della vita, anche quando lo si dispensa sulle ferite.

È vero, anche in E.R. si allude di tanto in tanto all’infelice adolescenza di Clooney - un padre sempre assente e donnaiolo - ma è un vecchio copione (non solo televisivo) quello a cui serve una giustificazione nel passato per eternare uno stato di immaturità: al dottor Ross ormai cresciuto e pasciuto non mancano le possibilità per riscattarsi dall’infelicità, dalle doti di pediatra scrupoloso a quelle di bell’uomo sano. Insomma, basta coi dottori da bere. House, invece, è un peterpan arpionato dal destino uncino, infilzato per sempre al bastone che lo àncora a terra. Solleticherebbe l’istinto materno se non fosse pronto a sibilarti subito contro, a rispedire al mittente la sindrome dell’io-ti-salverò, come quando tiene a distanza la giovane assistente Cameron, ne irride il buonismo, respinge le profferte amorose che qualsiasi altro maschio devastato considererebbe una manna dal cielo. Allontana l’equazione sesso-potere che dai tempi della camera ovale è diventata mediaticamente universale. Lui è così, preferisce crogiolarsi da solo nel suo cuore spinoso, con del buon jazz di sottofondo, magari una suonatina di piano alla suonala ancora Sam.

Un po’ Humphrey Bogart e un po’ Corto Maltese e un po’ Paperino. Detesta il lavoro di routine, le regole, il bon ton, le piccole noiose prigioni in cui ci dibattiamo tutti noi metropolitani moderni. Si gingilla con i videogiochi, le palline da tennis (persino lo skateboard quando, casualmente e per un breve momento sembra aver recuperato l’uso non doloroso della gamba). S’imbambina finché non scatta l’emergenza, e l’«ossessione», così ben identificata da un altro paziente di House - un famoso musicista costretto a una paralisi progressiva da una diagnosi inesatta - che accetta di farsi curare proprio perché riconosce la stessa monomaniacale passione: lui per il jazz, l’altro per la medicina.

Mi piace House perché è un ribelle perdente, uno che non sarà mai uno yuppie, che non farà mai carriera perché rinuncia ai compromessi del potere pur di seguire le sue verità, anche quelle sbagliate. E non ti schiaccia come paladino di virtù perché è pieno di difetti e pochissime enormi qualità. L’uomo ideale imperfetto per noi donne reali imperfette.

Come collega deve essere un incubo: lavorare con lui è un karma più che un caso: scorbutico, nervoso, tranchant com’è, pronto a risvegliare il peggio che è in te e stare a vedere l’effetto che fa. Ma una volta attraversata la prova, ti svegli migliore. Nei rapporti umani lo scopri manipolatore, astuto, a volte machiavellicamente meschino (vedi i suoi tentativi di riconquistare l’ex moglie), ma anche terribilmente vulnerabile. Il primo a farsi male, come gli dice il collega amico.

Uno così non ti resta indifferente, lo vorresti cambiare e poi salvare, più spesso buttare. Poi ci ripensi e, il cielo non voglia servisse, te lo auguri come dottore. Abituato a passeggiare sull’orlo dell’abisso, senza paura di guardarci dentro. Che ti cura a distanza fino all’ultimo e non perde tempo in chiacchere. A tenerti la mano basterà Cameron.

* l’Unità, Pubblicato il: 25.01.07, Modificato il: 25.01.07 alle ore 12.15


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