ASCOLTI: ’DR.HOUSE’ TORNA E BATTE MASSIMO RANIERI *
ROMA - Il dottor Gregory House è tornato ed é apparso subito in gran forma tanto da battere Massimo Ranieri che ieri in diretta tivù, tra lo scoop e la ’carrambata’, lacrime e commozione, ha mostrato la sua figlia segreta: la prima puntata della terza stagione delle avventure del grande diagnosta del Princeton Plainsboro Teaching Hospital, ieri su Italia 1 alle 21,05, non ha battuto record ma ha fatto segnare comunque un grande risultato in termini di ascolti tenendo inchiodati alla televisione poco meno di cinque milioni di telespettatori, sfiorando il 18% di share.
Se è vero che le ultime due puntate della seconda serie (terminata il 22 novembre) avevano registrato una media di 5.525.000 telespettatori, adesso con il cambio di collazione dal mercoledì al venerdì, House si trova di fronte due pezzi da novanta: ’Tutte donne tranne me’, lo show di Massimo Ranieri su Raiuno, e ’Scherzi a Parte’ su Canale 5. Esame brillantemente superato per House che, nella puntata di ieri (’Il significato’), ha regalato ai suoi fan momenti davvero topici: dopo essere stato ferito da due colpi di pistola e curato con la Ketamina, eccolo fare jogging in shorts e t-shirt, arrivare sudato in ospedale dopo dieci chilometri di corsa, ritrovare il suo gruppo di lavoro e scegliere i suoi primi due casi dopo il ’fattaccio’.
Gioca con lo skate, si fa il bagno di notte nella fontana dell’ospedale, invita la sua ’allieva’ Allison Cameron a pranzo: House è finalmente felice anche se il sogno di gettar via per sempre il bastone è destinato a durare lo spazio di due sole puntate. Sì perché il dolore si riaffaccia e lui sembra ormai consapevole che gli effetti della Ketamina sono destinati a svanire. In più i suoi ’amici’ e colleghi gli mentono su un paziente e alla fine la depressione é dietro l’angolo e la tentazione di ritornare ad assumere oppiacei è forte (il prossimo episodio ha come titolo italiano ’Zoppo... ma in gamba’).
Si chiude la puntata sulle note della suite dei Rolling Stones ’You can’t always get what you want’ con House nel suo studio solo e in penombra. Un fenomeno televisivo che buca lo schermo, legato a un personaggio davvero atipico, rude, ironico e geniale alle prese con malattie improbabili, come rabbia, lupus, e perfino la peste. Per catturare la sua essenza in una sola parola si è detto che è un ’nerd’, termine inglese con cui viene definito chi mostra una forte predisposizione per la ricerca intellettuale, associata ad una intelligenza superiore alla media, ma al contempo è solitario e asociale.
Per House ciò che più conta è fare centro così come ha fatto centro Hugh Laurie che, a 46 anni, ha scoperto il successo globale e compensi da capogiro. Nel complesso, funziona la serata culto di Italia 1 perché dopo House era pronto il trittico medico: a seguire ’Grey’s Anatomy’ (13,63%), Nip/Tuck (11,73%) per chiudere con l’esordiente Huff in onda a mezzanotte circa. Una scommessa vinta e una serata cult per gli amanti del Medical Drama che hanno trovato tutti insieme i loro eroi.
Hugh Laurie |
* ANSA » 2007-01-20 12:28
Diagnostica.
Molte le analogie tra il ragionamento clinico e i metodi
investigativi della letteratura gialla.
E le qualità del detective ideale, osservazione, deduzione e conoscenza (Conan Doyle), dovrebbero ispirare il lavoro di ogni sanitario
Se il medico indaga come Sherlock Holmes
di Claudio Rapezzo (la Repubblica, 12.05.2015)
IN UN ’EPOCA della medicina caratterizzata dal ricorso sempre più “routinario” alle tecnologie diagnostiche, il ragionamento medico appare in crisi. Il rischio, oltre che di spendere una quantità eccessiva di denaro pubblico e privato, è di rendere approssimativo l’iter diagnostico del paziente coi relativi danni umani. Una breve riflessione sulle analogie fra il ragionamento diagnostico in medicina e i metodi investigativi della letteratura “gialla” potrebbe contribuire alla “causa” del metodo clinico, e quindi a migliorare la prestazione sanitaria. E la salute di tutti.
Le analogie fra metodo clinico e scienza dell’investigazione, fra grandi clinici e grandi detective, nonché i richiami incrociati fra medico e detective, fra crimine e malattia sono abbondantemente presenti nella letteratura, nel cinema e nella televisione. Sia il medico sia il detective hanno, come finalità principale del loro agire, l’identificazione del colpevole di una situazione abnorme e pericolosa (la diagnosi della malattia da un lato, l’identificazione dell’assassino dall’altro). Per arrivare a ciò, entrambi debbono, inoltre, reperire, archiviare e “gestire” una notevole quantità di informazioni sia tecnico- scientifiche, sia di cultura generale.
Il periodo storico e la classe sociale di riferimento dei due ambiti coincidono. Il poliziesco vive il suo momento di grande splendore nella seconda metà del XIX secolo, nel clima di fiducia nelle illimitate possibilità della scienza. Nello stesso periodo, la medicina registra l’affermarsi del più classico dei paradigmi indiziari, quello imperniato sulla semeiotica medica, la disciplina che consente di diagnosticare le malattie “interne” e quindi inaccessibili all’osservazione diretta, attraverso la valorizzazione di “segni” che, insignificanti agli occhi del profano, possono essere decifrati soltanto dall’esperto e lo conducono alla diagnosi finale.
Ma medicina e romanzo poliziesco sono collegati anche da rapporti strettamente letterari nonché da uno scambio (letterario) di ruoli. La storia della letteratura poliziesca è ricca di figure di medici: medici che indagano in prima persona, che affiancano i detective professionisti come esperti (in genere anatomo-patologi), medici assassini e medici vittime. Per non parlare dell’ampio bagaglio tecnico medico-scientifico a cui gli autori classici del poliziesco hanno spesso attinto per escogitare soluzioni raffinate per delitti sempre più sofisticati.
Per usare le parole che Sir Arthur Conan Doyle fa pronunziare a Sherlok Holmes ne Il Segno dei Quattro: «Tre sono le qualità necessarie al detective ideale, capacità di osservazione, deduzione e conoscenza». Questa affermazione è, di fatto, il manifesto ideologico di tutta la letteratura poliziesca, a forte matrice anglosassone, che si sviluppa fra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, impersonata dai detective classici dell’epoca aurea del “giallo”: Auguste Dupin, Sherlock Holmes, Miss Marple, Hercule Poirot. Se queste tre caratteristiche continuano a rappresentare i pilastri fondamentali del ragionamento investigativo, emerge progressivamente nella letteratura poliziesca del Novecento l’importanza di altre due qualità: la capacità di ricostruzione psicologica e ambientale della vittima (teorizzata sia dal Maigret di Simenon sia da Padre Brown di Chesterton) e la capacità di percepire le incongruenze all’interno della scena del crimine (è il caso tipicamente del Tenente Colombo di Levinson & Link).
Come nel caso dell’investigatore, anche in quello del clinico “ideale” si realizza, o si dovrebbe realizzare, una fusione armonica fra tutti i modelli investigativi delineati in precedenza. Questa evenienza è però decisamente rara. I modelli proposti recentemente dal cinema e dalla fiction televisiva non sono necessariamente positivi. Il caso più emblematico è quello del Dr. House. Se da un lato lo schema mentale adottato per arrivare alla diagnosi è molto simile a quello di Sherlock Holmes, basato sulla valorizzazione di segni fisici “patognomonici” e sul ragionamento abduttivo, il modello clinico proposto è quello di un medico che preferisce occuparsi soltanto dei casi più rari e difficili, mentre gli altri pazienti sono per lui fondamentalmente una perdita di tempo.
* Direttore U-O Cardiologia, Policlinico Sant’Orsola, Università degli Studi di Bologna
Lo ha scovato la Cnn: si chiama William Gahl e lavora in un clinica del Maryland
Si occupa solo di casi disperati: "I nostri malati spesso senza via d’uscita
Trovato il vero Dr. House
"Ma non amo l’eroe tv"
di GABRIELE ROMAGNOLI *
Non si clona il dottor House. Realtà e fiction non sono vasi comunicanti, una trasfusione provocherebbe crisi di rigetto, reazioni allergiche, un rash cutaneo, occorrerebbe ("presto!") una puntura lombare prima di procedere a una diagnosi così improbabile che, quando tutto il probabile è stato scartato, risulterebbe azzeccata. Un solo uomo potrebbe farla: il suo nome è House, dottor House. Ma non esiste e non esisterà mai. Invano la Cnn si è affannata a scovare un suo alter ego.
Qualcuno che gli somiglia l’ha pure trovato, nella persona del dottor Gahl, responsabile del Programma Malattie Non Diagnosticate all’Istituto di ricerca sanitaria. Tradotto: un medico dei casi, più che seri, disperati. Il Dottor Ultimo Consulto. Se non ci capisce qualcosa a lui non resta che accendere la tv e sperare che gli sceneggiatori lo battano. Nella sua clinica di Bethesda, Maryland, il dottor Gahl riceve le richieste di tutti i pazienti scaricati dai suoi colleghi come rebus riservati ai solutori più che abili, geniali. Tra di loro sceglie (in proporzione di uno ogni venti) quelli a cui cercare una soluzione e un futuro.
Le similitudini con il dottor House della serie televisiva finiscono qui. Gahl è pacioccone quanto House è affilato. Fa gioco di squadra con i suoi collaboratori quanto House li usa come giri di riscaldamento per arrivare da solo al traguardo. Gahl è equilibrato, presumibilmente sposato e padre, House s’innalza facendo leva sul baratro che è la sua anima, accarezzata da ex mogli risposate, ladies con il tassametro, ma soprattutto da se stesso. Poi c’è la madre di tutte le differenze: House è infallibile, Gahl ammette che in molti casi si è dovuto arrendere pure lui. In un memorabile episodio House ha giocato (con qualche successo) contro Dio. Gahl si rimette alla natura delle cose, dove lo scibile incontra necessariamente il proprio limite e l’intuizione è un’avventura non ripetibile.
Per questo al dottor Gahl non piace il Dottor House ("quello ha casi freschi e li risolve al volo, noi cronici spesso senza via d’uscita"). E, va da sé, al dottor House non piacerebbe il dottor Gahl. Al netto della maledizione di sentirsi più intelligente di chiunque altro (e la dannazione sta nel fatto che è proprio così), House non aprezzerebbe mai la metodologia di Gahl (ogni metodo è per lui un ostacolo), la sua empatia con il paziente (riconosce solo l’antipatia per la malattia), la sua ammissione che la resa è possibile (mai, mandate la pubblicità mentre io scovo il morbo che non c’era).
Nella realtà non c’è nessun dottor House, non ce n’è uno, ce ne sono centomila. Ognuno conosce un House, che non fa il medico ma l’avvocato, l’artigiano o quel che è e trascina con indolenza la propria superiorità, trasformando la virtù in difetto e viceversa. Quella è l’essenza di House, non la sua professione, il campo che ha scelto per "giocare a Dio". Se non porta un camice non è solo per insofferenza degli schemi. House non è un medico, è uno stile di vita.
Cercarne l’immagine riflessa nella realtà è come voler afferrare il volto di Narciso nel lago. E’ la pervicacia puerile dei partecipanti alle presentazioni di libri che alzano la manina e domandano all’autore: "Che cosa c’è di autobiografico nella sua opera?". Tutto. E niente. Nel cercare l’impossibile clone del dottor House la Cnn ha ereditato un vecchio virus, quello per cui si è nel tempo identificato Sherlock Holmes con un biologo amico di Conan Doyle, tutte le orribili donnette dei romanzi di Simenon in sua madre e la monaca di Monza con una monaca di Monza. Ogni riferimento a persone realmente esistite è puramente impossibile. I vasi non comunicano. House resta in una clinica dell’altrove, dove ogni enigma ha la soluzione capovolta, Dio può perdere ai punti e l’unico mistero insondato sta sotto il tailleur della Caddy.
Sapere che c’è un dottor Gahl addetto ai casi disperati che ne sceglie uno su venti e poi forse neppure lo risolve non ci conforta. Lasciateci il dottor House e basta. Lui solo può regalarci qualche illusione: che il talento possa prevalere sulla ruffianeria, che un uomo senza fede sia la sola cosa in cui credere, che esista un’etica dell’amoralità. E, illusione suprema: che si possa ancora fare buona televisione.
* la Repubblica, 5 febbraio 2009
IL CASO
Un medico vero elogia il dottore della tv: «È attaccato alla vita»
Nasce l’etica «Dr. House»
Non è un santo, ma soffre, e la sua sofferenza è una risorsa per le domande che riversa sui pazienti, coinvolti in una vera ricerca di senso
di Carlo Bellieni (Avvenire, 14.09.2007)
È ripresa in questi giorni la serie di «Dottor House», telefilm-cult della Fox, la storia del burbero e misantropico Gregory House: forse efficace, ma con cui nessuno vorrebbe umanamente avere a che fare.
Ma allora perché «Dottor House» piace tanto? Vediamo di capire con un esempio. Una puntata della serie precedente racconta la storia di un bambino autistico, che viene salvato con un’operazione chirurgica da morte certa per un’infezione. In uno scambio di battute con il collega Wilson (Robert Sean Leonard), House vede i volti dei genitori che lo riportano a casa e dice: «Di solito a questo punto, in una scala da 1 a 10, il punteggio di felicità dei genitori che riportano a casa il figlio è 10; qui è solo un 6!». Ma a quel punto il bambino si stacca dai genitori, si avvicina ad House e lo fissa negli occhi (i bambini autistici raramente fissano lo sguardo altrui, e lui non l’aveva mai fatto) e regala a House la sua Playstation... i genitori corrono da lui e in lacrime l’abbracciano piangendo dalla commozione, con House che conclude «Ecco, questo è un 10 pieno!».
Dunque, ecco il primo punto che colpisce: lo sguardo insolitamente positivo nel guardare certi "dilemmi etici" cui di solito la risposta è del tipo eugenista (quante volte passa il messaggio che un bambino autistico "deve" essere una "vita sbagliata" e unicamente un ostacolo per la vita serena della famiglia).
Ma non è un esempio isolato: in un altro episodio House rianima il jazzista paralizzato, nonostante ci sia un "testamento biologico" che impone di "lasciarlo andare"; una mamma sceglie di morire pur di non abortire; una bambina affetta da tumore è lucida al punto di essere il conforto per la madre che la vede giorno per giorno morire; House dissuade la moglie di un giocatore di baseball ad abortire («È vita!») e mostra alla direttrice sanitaria l’insensatezza della fecondazione eterologa. Questo, unito al progressivo riavvicinamento alla fede dell’intensivista Chase (Jessee Spencer), alle numerose canzoni a sfondo religioso (Waiting on an angel di Ben Harper, per esempio), a discorsi etici molto interessanti («Serve forse essere religiosi per dire che un feto è vita?», chiede la dottoressa Cameron), sono decisamente insoliti in telefilm-cult, di solito adagiati su posizioni di relativismo etico. Ma c’è un altro punto, forse più profondo:
J.K. Chesterton, riferendosi ai delinquenti che il suo Padre Brown smascherava, scrisse che il segreto del suo prete-investigatore era di essere come loro: «"Cioè che lei potrebbe peccare e diventare così?", chiesero a Padre Brown. "No - rispose - che io sono davvero come loro"». Ecco: House soffre, ma la sua sofferenza finisce per diventare una risorsa, arrivando a portare su di sé il disagio di chi sta male, col risultato di non trascurare quei segni che a tutti gli altri, invece, sfuggono. E dal dolore personale nasce una domanda che riversa sui pazienti, coinvolti in una vera ricerca di senso. Non a caso una delle canzoni che fanno da colonna sonora alla inquietudini di House è Desire («Vago senza direzione e motivo/ Cos’è questo fuoco che mi brucia lento?/ Oh desiderio!/ Mi conosci, non ti è fatica aspettarmi/ Non me lo mostri, ma è Dio che prego/ affinché tu mi trovi, mi veda, tu corra/ e non ti stanchi mai/ Oh desiderio!»). Dunque il rapporto tra medico e paziente non è a senso unico: non c’è chi solo dà, e chi solo riceve, ma è un legame di arricchimento per entrambi. Ed è il prototipo del rapporto davvero curativo: o riconosce un bisogno di umanità più profonda sia nel medico che nel malato, oppure è... zoppo. Quando House va dalla manager depressa dicendole disperato che avrebbe mentito per farle avere un trapianto di cuore, prima vuole ridestare in lei l’attaccamento alla vita («Devi dirmelo! Perché io... non lo so!») per sentirlo ridestare in sé. Certo, non vogliamo santificare House: è dichiaratemente ateo, a tratti flirta con l’idea dell’eutanasia o dell’aborto, e questo non lo condividiamo. Ma sarebbe così stupe facente sentirlo scagliarsi contro la droga o il sesso incestuoso, se fosse già un sant’uomo? Se fosse un santo non colpirebbe lo spettatore quando si fa interrogare dalla manina del feto che sbuca dall’utero aperto, e gli abbraccia il dito della mano, restando poi incantato ore e ore a riguardare quel dito e domandarsi il mistero di una vita nascosta ma presente. È un lavoro in corso, quello che avviene nell’animo di House, anche quest’anno ne vedremo delle belle.
House non c’è mai per i pazienti, ma alla fine sbuca di soppiatto dalla porta e ci mette alle corde chiedendoci se vogliamo vivere. Forse non è un buon medico, ma è umilmente sicuro di essere povero come gli altri. E da medico posso dire che questo è un buon inizio.
La (a-?)socialità di Dr. House
Written by
Francesco Giacomantonio *
Friday, 10 August 2007
È in uscita un libro di un collettivo filosofico (Biltris), che ha provato a sviluppare una filosofia di un personaggio considerato il caso televisivo della scorsa stagione, il Dr. House.
Il testo (La filosofia del Dr. House. Etica, logica ed epistemologia di un eroe televisivo, Ponte alle Grazie, Milano 2007), si diletta su tutta una serie di speculazioni filosofiche che riguardano modo di ragionare e la insolita morale del bizzarro dottore. Raccogliendo e completando questo esercizio, si potrebbe, dunque, far scendere in campo anche la filosofia sociale e la sociologia, per arricchire ulteriormente il quadro proposto.
Sin da una primissima osservazione del suo modo di vestire, di presentarsi, di comunicare, di parlare, di guardare, di camminare, House appare subito, soprattutto in un contesto medico ospedaliero, un individuo per il quale è difficile conferire una definizione e una collocazione sufficientemente chiara e distinta. Questo è vero sia dal punto di vista lampante della sua condotta etica, della sua logica e della sua visione di ragione, sia da quello della sua condotta sociale in cui tutti questi ambiti confluiscono e si sostanziano.
Che relazione ha House con il mondo, con gli altri esseri umani, con i colleghi? Che tipo di socialità esprime? Dovremmo parlare, stando a molti suoi comportamenti, di asocialità, misantropia? Un’analisi attenta sembra mostrare invero che House, più che negare la socialità si diverta costantemente a decostruirla, a smontarla a svelarne, con compiaciuta ironia, le sempre instabili, illusorie, immaginarie, e spesso utilitariste fondamenta.
Certamente House non mostra grande disponibilità ai rapporti interpersonali (si pensi alla sua riluttanza a svolgere l’attività di consulto ai pazienti), molti dei quali appaiono per lui, dal punto di vista puramente ontologico, un peso, forse perché lo costringono a guardare quei comportamenti umani miseri, deboli, odiosamente mediocri, finanche dolorosamente stolidi, dai quali egli si è emancipato, nei riguardi dei quali egli ormai è completamente disincantato, quasi in senso weberiano.
House, probabilmente, sfugge la socialità perché in essa non vede nulla che possa stimolarlo, rallegralo, dargli quel senso di pienezza che avverte invece cimentandosi nella soluzione dei casi difficili.
Perciò, posto molte volte alle strette di fronte agli obblighi sociali ricordatigli costantemente dalla Cuddy, dai suoi assistenti, da Wilson, egli sembra mettere in pratica tutto l’armamentario concettuale sviluppato dalla microsociologia contemporanea, dall’approccio drammaturgico di Goffman all’etnomedodologia di Garfinkel, all’analisi fenomenologia da Schutz a Berger.
In che modo? Per House, come per Goffman, il sociale, la socialità, le relazioni, sono una mera rappresentazione scenica o teatrale. Tutti gli uomini si trovano in frames, ossia in contesti. Il frame è appunto la cornice cognitiva e il contesto sociale di comprensione, che rende intelligibile un flusso di eventi, ponendovi intorno una cornice, inserendoli in un contesto interpretativo. Il self individuale in quest’ottica, esiste sia soltanto come un complesso di parti distinte, ciascuna delle quali è socialmente costruita, sia in un mondo che esiste anch’esso solo come un serie di costrutti incorniciati, nessuno dei quali ha una qualche pretesa alla realtà diversa da quella che il self conferisce ad esso. Il self è l’ultima garanzia che ciò che le persone fanno e gli eventi che a loro capitano sono ancorati al mondo. House attraverso le sue battute, fa slittare non solo i contesti semantici, ma anche quelli sociali che ad essi sono correlati. Così egli destabilizza continuamente i frames e, parallelamente, anche il senso di sé che gli individui hanno.
In tal senso House sviluppa anche una pratica etnometodologica, poiché utilizzando discorsi di senso comune, tanto con i pazienti quanto con i colleghi, porta alla luce i “codici”, spesso latenti o volutamente occultati, insiti nelle relazioni sociali tra gli individui o nei gruppi.
House galleggia fenomenologicamente nel sociale, perché rifiuta di assumere i ruoli precostituiti, sfugge (o cerca di sfuggire) a quella coazione a ripetere che Freud riteneva fosse il principio più forte che dominasse l’animo umano, tanto da sovrastare e finanche sostituire il principio del piacere. Ma proprio perché gli esseri umani sono in genere coattivi, House non può, non vuole, non ha motivo di relazionarsi a loro, perché egli è almeno parzialmente lontano dalla coazione a ripetere.
Dunque, vi è in lui una certa originalità. È comune nei contesti moderni e metropolitani per gli uomini darsi una connotazione, uno stile molto marcato e distinto; normalmente, questa operazione, come osservava con lucida acutezza Simmel, non è fine a sé stessa: la specificazione della propria individualità è necessaria per farsi riconoscere e trovare, quindi, persone simili con cui aggregarsi. Non così per House: la sua personalità assai specifica contiene certamente uno stile marcato, ma tale stile non ha alcuna finalità relazionale esplicita: egli è cosi fondamentalmente per sé stesso, non per gli altri.
Il modo in cui House vive la socialità a monte del disagio che spesso provoca negli interlocutori, gli conferisce, tuttavia, la straordinaria capacità di approcciarsi alla diversità nelle sue forme concrete più varie (bambini, anziani, donne).
Il suo indugiare in svaghi come serie televisive, moto, videogames, gli dà l’opportunità di avvicinarsi ai bambini quasi come fosse egli stesso ancora tale. Il suo vivere ai margini del sociale lo aiuta a interpretare i motivi più profondi che possono stare dietro le patologie degli anziani.
E, rispetto alle donne, riesce a mantenere un distacco sentimentale, iperbolizzando la dimensione sessuale e sollevandola sempre istrionicamente, dinanzi a una scollatura, un tacco, una gonna seducente, una forma sottolineata, una postura equivoca. House si riafferma come soggetto nei contesti sociali della tarda modernità, rifiutando di sparire in quelle pratiche disciplinari che Foucault scovava quasi paranoicamente nelle scienze, nelle istituzioni, nelle scuole, negli ospedali (appunto) e nelle dimensioni della medicalizzazione. House ha paura che i discorsi sociali effettivamente occultino la sua soggettività e la riafferma attraverso il momento dell’eccedenza, dell’inaudito. Di fronte ai limiti della scienza reagisce con una soggettività ancora più scientifica, di fronte a un’etica medica limitata dalle regole del contesto sociale in cui essa si costituisce, reagisce con un’etica fondata sulla socialità che egli intrattiene con sé stesso. Perché House ha una ricca socialità con sé stesso, perché considera sé stesso un ottimo interlocutore, forse il migliore. Tanto da porsi in un episodio come arbitro che giudica sé stesso e Dio mentre analizza un caso.
Aristotele ammoniva che solo un Dio o una bestia possono vivere al di fuori della polis, ovvero al di fuori di un contesto di socialità. Se House, o persone come lui, siano un Dio o una bestia, non è questa la sede per indagare la questione. Forse solo Dio (quello vero) sa quanto abbiamo bisogno di persone così. Gli uomini, invece, non sanno e possono solo chiederselo. Il che è già un buon viatico per non essere bestie.
Dr. House, siamo donne non sante
di Rossella Battisti *
Perché mi piace il dottor House? Semplice, perché non è il Clooney di E.R.. Ovvero, non è il solito belloccio delle serie tv americane, il piacione ombroso, quello che non deve chiedere mai perché tanto tutte sono disponibili e lui pure, una notte a talamo non la si nega a nessuna. House no, è uno che gli devi entrare dentro, e le strategie non servono: lui ti scruta con un doppio sguardo diagnostico e l’anima è nuda. Non che non noti la bellezza, quando per l’ospedale capita una superba teenager che a quindici anni è già modella da copertina, House osserva e ne sottolinea lo charme ma al tempo stesso intuisce un rapporto scabroso con il padre-manager, avverte i colleghi e se ne esce dalla stanza. Bastano pochi segni, le alterazioni del corpo che tradiscono quelle della psiche, la malattia come mappa per ricostruire il vissuto.
Ne sa qualcosa il nostro dottor Scontroso, il professionista delle poche parole ma affilate - calzato con british aplomb da Hugh Laurie -, c’è passato anche lui per il dolore e ancora ci sosta perché le conseguenze dell’embolo che ha avuto (e del ritardo nel diagnosticarlo) lo seguono a ogni passo, quando poggia a terra la gamba matta che ha subito l’operazione e che gli procura sofferenze lancinanti, costringendolo a soffocarle con dosi massiccie di antidoloriferi. Anche questo lo rende umano, plausibile nel suo andare al nocciolo delle cose senza ammortizzatori, così come nel restare sospeso nella sua incapacità di affrontare il mondo delle relazioni. Troppo dolore, dentro e fuori. Mascherato da un’implacabile ironia, sale della vita, anche quando lo si dispensa sulle ferite.
È vero, anche in E.R. si allude di tanto in tanto all’infelice adolescenza di Clooney - un padre sempre assente e donnaiolo - ma è un vecchio copione (non solo televisivo) quello a cui serve una giustificazione nel passato per eternare uno stato di immaturità: al dottor Ross ormai cresciuto e pasciuto non mancano le possibilità per riscattarsi dall’infelicità, dalle doti di pediatra scrupoloso a quelle di bell’uomo sano. Insomma, basta coi dottori da bere. House, invece, è un peterpan arpionato dal destino uncino, infilzato per sempre al bastone che lo àncora a terra. Solleticherebbe l’istinto materno se non fosse pronto a sibilarti subito contro, a rispedire al mittente la sindrome dell’io-ti-salverò, come quando tiene a distanza la giovane assistente Cameron, ne irride il buonismo, respinge le profferte amorose che qualsiasi altro maschio devastato considererebbe una manna dal cielo. Allontana l’equazione sesso-potere che dai tempi della camera ovale è diventata mediaticamente universale. Lui è così, preferisce crogiolarsi da solo nel suo cuore spinoso, con del buon jazz di sottofondo, magari una suonatina di piano alla suonala ancora Sam.
Un po’ Humphrey Bogart e un po’ Corto Maltese e un po’ Paperino. Detesta il lavoro di routine, le regole, il bon ton, le piccole noiose prigioni in cui ci dibattiamo tutti noi metropolitani moderni. Si gingilla con i videogiochi, le palline da tennis (persino lo skateboard quando, casualmente e per un breve momento sembra aver recuperato l’uso non doloroso della gamba). S’imbambina finché non scatta l’emergenza, e l’«ossessione», così ben identificata da un altro paziente di House - un famoso musicista costretto a una paralisi progressiva da una diagnosi inesatta - che accetta di farsi curare proprio perché riconosce la stessa monomaniacale passione: lui per il jazz, l’altro per la medicina.
Mi piace House perché è un ribelle perdente, uno che non sarà mai uno yuppie, che non farà mai carriera perché rinuncia ai compromessi del potere pur di seguire le sue verità, anche quelle sbagliate. E non ti schiaccia come paladino di virtù perché è pieno di difetti e pochissime enormi qualità. L’uomo ideale imperfetto per noi donne reali imperfette.
Come collega deve essere un incubo: lavorare con lui è un karma più che un caso: scorbutico, nervoso, tranchant com’è, pronto a risvegliare il peggio che è in te e stare a vedere l’effetto che fa. Ma una volta attraversata la prova, ti svegli migliore. Nei rapporti umani lo scopri manipolatore, astuto, a volte machiavellicamente meschino (vedi i suoi tentativi di riconquistare l’ex moglie), ma anche terribilmente vulnerabile. Il primo a farsi male, come gli dice il collega amico.
Uno così non ti resta indifferente, lo vorresti cambiare e poi salvare, più spesso buttare. Poi ci ripensi e, il cielo non voglia servisse, te lo auguri come dottore. Abituato a passeggiare sull’orlo dell’abisso, senza paura di guardarci dentro. Che ti cura a distanza fino all’ultimo e non perde tempo in chiacchere. A tenerti la mano basterà Cameron.
* l’Unità, Pubblicato il: 25.01.07, Modificato il: 25.01.07 alle ore 12.15
La resa politica all’esistente
Marco Revelli: «Veltroni? E’ l’antitesi del dr House. Non vede le cause del male»
di Cinzia Gubbini *
Dietro Fassino niente? Per il sociologo Marco Revelli «questa è la prima impressione che può arrivare dal congresso dei Ds», che ha appena dato vita al partito Democratico. Ma in realtà «se scendiamo un po’ più a fondo e se ad esempio leggiamo in filigrana l’intervento di candidatura di Veltroni, scopriamo che idee ce ne sono poche. Ma un nucleo duro, di sostanza, c’è».
Quale?
Un messaggio di resa della politica allo stato di cose presenti, alla deriva che ha caratterizzato la società in questi ultimi quindici anni. Resa all’esistente significa accettazione della società così com’è stata plasmata in questi anni di trionfo del mercato come unica e possibile condizione sociale. Cioè come normalità. Lo stato patologico del corpo sociale viene assunto come fisiologico.
Il discorso di Veltroni sembrava disegnare un partito il cui ruolo non è provare a indirizzare i processi, ma accompagnarli.
Peggio. Se fosse così ci sarebbe qualcosa di virtuoso: il rifiuto del primato del demiurgo e del moderno principe su un sociale considerato inferiore. Qui, invece, il sociale viene assunto come un tutto indifferenziato, come una grande narrazione - la narrazione dei media, con il linguaggio dei media - da gestire così com’è, come si gestirebbe un’impresa. Senza rinunciare a un ruolo autoritario, ma senza selezionare gli aspetti virtuosi e gli aspetti viziosi. Per stare anche noi al gioco del linguaggio mediatico, Walter Veltroni è l’opposto simmetrico del dottor House (protagonista della serie televisiva Dr House-Medical Division, ndr). Il dottor House è il professionista che usa il proprio cattivo carattere per fare il bene. La sua diagnostica è basata sulla ricerca delle verità, anche le più scomode, sul rifiuto dell’ipocrisia, della verità tranquillizzante. Il male va guardato in faccia per essere curato. Viceversa, Veltroni fa il buono per convivere con il male. La sua diagnostica è basata sul racconto edificante del reale, in cui persino il negativo compare per rendere più fulgido il positivo. In cui anche la disgregazione sociale è in funzione dell’ostentazione dei buoni sentimenti. E, soprattutto, in cui il drammatico peso del negativo nell’assetto attuale della società non è riconosciuto come tale. Il male non ha più un’eziologia, non ha più né cause, né soggetti. Appartiene all’ordine delle cose e come tale deve essere gestito
Sembra non esistano più oppressori e oppressi. In questo quadro qual è lo spazio del conflitto?
Non c’è, perché non c’è lo spazio della verità. Tutto rimane a livello del racconto in cui, però, scompare il momento della tragedia, che è la verifica sociale dell’incomponibilità di alcune contraddizioni che imporrebbero di scegliere. L’ apocalisse culturale attuale è rimossa, e con essa la ricerca delle sue cause. Se la patologia viene assunta come normalità, non si ha il problema di rimuoverla, ma di gestirla momento per momento. E questo ceto politico logoro, ormai senza visione del mondo e senza passioni, trova la propria ragion d’essere in una funzione manageriale, trattando i soggetti sociali come clienti di servizi e spettatori della rappresentazione politica. E trattando se stessi come fornitori.
Sarà anche una politica senza passioni, ma non negherà che il partito degli amministratori sul piano locale stravince. Non crede che le persone chiedano proprio un’amministrazione efficiente?
Certamente nella costruzione del partito Democratico traspare un’idea di politica come amministrazione. Ma nel contesto locale, dove amministrati e amministratori si guardano, permane un legame. In quello spazio esploso, in crisi, che è lo spazio pubblico nazionale, invece, dietro l’illusione del governo come gestione di servizi si nasconde il governo come mediazione tra lobby, come coalizione di interessi. Questa logica dichiara esplicitamente di trasformare il cittadino in cliente e spettatore. Ma in realtà, poi, misura i processi di produzione dei servizi e la loro selezione nel rapporto con i poteri forti. Sono gli stessi cittadini a cui si dichiara di voler fornire servizi quelli a cui viene somministrata - quando occorre prendere decisioni forti - la Tav che gli passa in casa, la base americana che arriva a lambire il centro storico, la centrale a Turbogas nel Lazio, l’area di stoccaggio delle scorie nucleari. Questi sarebbero cittadini utenti? Quando devono essere prese le decisioni di fondo, si sbatte loro la porta in faccia. E’ una logica oligarchica. Allora cosa fa questa gente? Si candida a gestire lo spazio. E su questo terreno si apre un conflitto: tra chi quello spazio lo vuole abitare e chi quello spazio lo vuole gestire come luogo di attraversamento dei diversi flussi che strutturano il mondo contemporaneo: infrastrutture, energia, merci, traffico, capitale. La politica oggi come «governo della società così com’è» è la politica che si posiziona sui flussi e si contrappone ai luoghi.
Ma lei non salva nulla della modernità?
Sono d’accordo con le analisi di chi, come Pietro Barcellona, sostiene che debba essere dichiarato esplicitamente il fallimento del progetto moderno come applicazione sistematica della razionalità strumentale e della potenza produttiva della tecnica come risoluzione di tutti i problemi sociali. Oggi vediamo il meccanismo della modernizzazione economica divorare e disfare la società. Questa è la matrice delle contraddizioni e dei possibili conflitti. Rimossi i quali rimane una predica da parroci di campagna, che nasconde gli artigli d’acciaio dei manager dei flussi
Mai come oggi, però, c’è la capacità delle persone si autorganizzarsi anche al di fuori del cappello delle grandi ideologie
Certo, per fortuna c’è una reticolarità di autorganizzazione del territorio. Soprattutto laddove riesce a muoversi sotto il radar dei media e può sviluppare il proprio discorso senza l’innesto tossico di quella logica. Allora nasce un nuovo linguaggio e un nuovo discorso, spesso trasversale alle tradizionali divisioni della politica. Lì scatta una forma partecipata della democrazia che sta agli antipodi del discorso edificante.
A questo punto, qual è il ruolo di ciò che resta della sinistra?
La prima cosa riguarda la parola. Dirsi la verità anche quando questa è sgradevole. Occorre inventare un modo della politica che non ha precedenti nel Novecento, che deve essere inventato da zero, perché davvero tutto è cambiato. Non basta tirare fuori dal cassetto della nonna le vecchie ricette, anche questo è un racconto edificante. Bisogna accettare di sporcarsi le mani e i piedi nei territori dove i linguaggi e i processi sono spesso spiacevoli: è più facile discutere in una sezione di partito che in un comitato che si organizza contro gli immigrati o ai bordi di un campo nomadi o ai cancelli della Fiat dei miracoli di Marchionne, perché lì ci si prospettano dimensioni tragiche del sociale.
http://www.ilmanifesto.it - materialiresistenti (24/04/2007 - 16:02)