In arrivo due libri dell’autore più volte candidato al Nobel.
«Sono stato tradotto tardi perché racconto l’oppressione di noi sloveni»
Io, coscienza scomoda per l’Italia
Boris Pahor: «Tutti gli uomini, se ne hanno l’occasione e la possibilità, sono cattivi»
di Isabella Bossi Fedrigotti (Corriere della Sera, 30.09.2009
PROSECCO PROSEK (Trieste) - È un omino asciutto e ironico lo scrittore di cittadinanza italiana e lingua slovena, Boris Pahor, lucido e perfettamente memore di ogni dettaglio della sua tormentata vita nonostante gli anni siano 96. Poiché il bar Lucsa, nel quale «riceve» di solito, è chiuso per turno, aspetta in strada, lì accanto, impermeabile addosso e cartella in mano, l’aria di un austero professore di scuola, cosa che in realtà egli è stato per circa vent’anni.
È contento perché il visitatore non si dà arie come temeva («Ne arrivano tanti di pomposi», dice) e si meraviglia quasi quando viene a sapere di essere lo scopo principale del viaggio e non un secondo piccione - minore - da prendere con una sola fava. Ed è anche contento di apprendere che il visitatore è di Rovereto, in quanto è di Rovereto il primo editore italiano (Nicolodi, ora Zandonai) che ha infine creduto in lui, da molti anni conosciuto, pubblicato, invitato e premiato in Paesi come la Francia e la Germania.
Dopo la pubblicazione da Nicolodi del romanzo Il petalo giallo nel 2004 - una quarantina d’anni dopo la sua stesura - è stata una valanga. Sono stati tradotti Il rogo nel porto, Necropoli, Qui è proibito parlare e il 7 ottobre escono altri due libri di Pahor: da Rizzoli una lunga memoria in forma di intervista (condotta da Mila Orlic), intitolata Tre volte no, per intendere la sua opposizione a fascismo, nazismo e comunismo; e da Zandonai il romanzo Una primavera difficile, che narra del ritorno alla vita fisica e sentimentale di un reduce dei Lager, alter ego dello scrittore. «E il telefono nel mio studio - aggiunge lo scrittore -, che taceva sempre, ormai suona anche sei volte in un pomeriggio! Vogliono interviste, vogliono racconti, vogliono portarmi in giro per convegni, conferenze, incontri, per promuovere i libri. Adesso poi che ho un indirizzo di posta elettronica, l’unica cosa moderna che io abbia, arrivano messaggi di invito anche lì, ma li apro solo ogni tanto quando vado a Trieste da un amico editore, perché il computer da me non ha posto. Questa notorietà non mi piace tanto perché mi fa sentire come una specie di Lollobrigida senza reggipetto che tutti vogliono vedere da vicino. Viceversa, però, sono orgoglioso per la rivincita della mia lingua e della mia cultura in passato così dolorosamente sprezzate. ’Bruti s-ciavi’ ci chiamavano».
Perché l’Italia la scopre solo ora?
«A causa delle cose che scrivo, naturalmente, che ancora oggi non si vogliono conoscere e riconoscere realmente. Di come, per esempio, il nazionalismo italiano abbia vessato e oppresso la minoranza slovena, non solo durante il fascismo ma anche negli anni che lo hanno preceduto, subito dopo la Grande Guerra. Ci sono stati maestri che sputavano in bocca ai bambini sorpresi in classe a parlare sloveno, ci sono stati licenziamenti e umiliazioni di ogni sorta. Gli impiegati pubblici di origine slovena venivano trasferiti d’ufficio in luoghi lontani e mio padre, impiegato comunale, fu costretto a dimettersi perché rifiutò di spostarsi in Sicilia. Ripiegò sul mestiere del nonno, vendere burro in piazza, e fummo perciò costretti a traslocare in un sottoscala. Arresti, botte e condanne a morte erano all’ordine del giorno, eppure il mito degli italiani brava gente è sempre vivo e caso mai si parla delle foibe, mai di quello che è toccato a noi. Se penso che abbiamo dovuto aspettare il 2000 perché venisse riconosciuto il bilinguismo in queste zone e addirittura il 2009 perché il discorso del presidente della Repubblica nel giorno della Memoria ricordasse anche ciò che il fascismo aveva fatto alla popolazione slovena».
I romanzi e i racconti di Pahor riportano fedelmente le vicissitudini della sua lunghissima vita: l’unica cosa che inventa - assicura - sono i nomi dei personaggi e i dialoghi, e soltanto perché non se li ricorda più.
«Avendo così tante cose da raccontare non vedo perché dovrei inventare. Io invento soltanto dal vero e mi fido di più di quegli scrittori che fanno altrettanto».
Nato nel 1913, ha fatto in tempo a vivere sulla sua pelle di scolaro la chiusura degli istituti sloveni e l’italianizzazione forzata, esperienze narrate, per esempio, ne Il rogo nel porto e in Qui è proibito parlare. Poi il liceo nel seminario di Capodistria - l’unica maniera di continuare gli studi per un quasi analfabeta di ritorno al quale era stata portata via la lingua madre - e la guerra in Libia, della quale porta nella memoria una delle date più importanti della sua vita:
«Quella in cui a Bengasi, sotto le bombe, passai l’esame di maturità, visto che quello del seminario non era riconosciuto. Quando andai a vedere i risultati fui apostrofato in corridoio da un professore che mi chiese chi fossi. Boris Pahor. Ah, Pahor, fece con un sorriso, l’autore del migliore tema d’italiano! E fu grazie a quel tema che ebbi sei anche in greco, materia in cui avevo fatto scena muta a una domanda sui lirici visto che lì in Africa non ero riuscito a trovare il libro».
Necropoli, considerato il suo libro maggiore, narra invece l’esperienza di deportato politico in vari Lager tedeschi, ultima stazione Bergen-Belsen. Un viaggio di quindici mesi attraverso una serie di città dei morti, appunto, imprigionato dai fascisti per i suoi legami con i resistenti sloveni e poi «passato» ai nazisti. Viaggio al quale pensa di essere sopravvissuto per due ragioni:
«Perché oltre al tedesco parlavo sloveno e qualche parola di francese, per cui un medico norvegese, internato politico a sua volta, mi prese come interprete-infermiere; e perché mi concentravo al massimo per vivere solo nel presente: non pensare al passato e nemmeno al futuro, solo oggi, adesso e cercare di non soccombere. Ho ricordato dopo, scrivendo. Raccontare a voce era infatti impossibile, non aveva senso perché chi non è passato per quell’esperienza, anche se ci mette buona volontà, non può capire, non può. Forse è per questo che molti sopravvissuti si sono poi uccisi. E la cosa più terribile della vita nel Lager - spiega ancora - non era il freddo, la fame, la dissenteria bensì l’assuefazione all’orrore. L’uomo è fatto così, per fortuna e per disgrazia. Perciò i cadaveri, gli innumerevoli, quotidiani cadaveri dei compagni di prigionia non erano più corpi che conservavano il ricordo di un essere umano, ma soltanto materia morta da buttare via».
L’assuefazione ha però anche un’altra faccia, per cui se qualcosa giunge all’improvviso a interrompere una situazione diventata normale nonostante la sua tragicità, la si percepisce come uno strappo violento, come l’inizio di una nuova era. Per Pahor, la nuova era cominciò - ricordo vivo e incancellabile - con le lenzuola fresche di bucato della Croce rossa di Lille, nelle quali dormì per la prima volta dopo un’eternità, l’indomani della liberazione. E cosa le ha insegnato la sua lunga vita?
«Che l’uomo, tutti gli uomini, donne comprese, se ne hanno l’occasione e la possibilità, sono cattivi. Per questo ho sempre paura che tutto possa ricominciare. L’altra paura, lo confesso, è molto più terra terra, e riguarda il modo in cui andrò all’altro mondo. Ma è più che altro una lieve preoccupazione, perché ne ho visti così tanti andarci».