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Eu-ropa!!!

FOIBE: GIORNO DEL RICORDO. MEMORIE E VERITA’!!! «Non dobbiamo tacere, assumendoci la responsabilità di aver negato o teso ad ignorare la verità per pregiudiziali ideologiche e cecità politica» (Il Presidente della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano) - a cura del prof. Federico La Sala

sabato 10 febbraio 2007 di Maria Paola Falchinelli
[...] «La disumana ferocia delle foibe fu una delle barbarie del secolo scorso, in cui si intrecciarono in Europa cultura e barbarie. Non bisogna mai smarrire consapevolezza di ciò - ha sottolineato - nel valorizzare i tratti più nobili della nostra tradizione storica e nel consolidare i lineamenti di civiltà, di pace, di libertà, di tolleranza, di solidarietà della nuova Europa che stiamo costruendo da oltre 50 anni, e che è nata dal rifiuto dei nazionalismi aggressivi e oppressivi, da (...)

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> FOIBE: GIORNO DEL RICORDO. MEMORIE E VERITA’!!! ---- BORIS PAHOR: IO, COSCIENZA SCOMODA PER L’ITALIA (di Isabella Bossi Fedrigotti)..

mercoledì 30 settembre 2009


-  In arrivo due libri dell’autore più volte candidato al Nobel.
-  «Sono stato tradotto tardi perché racconto l’oppressione di noi sloveni»

-  Io, coscienza scomoda per l’Italia

-  Boris Pahor: «Tutti gli uomini, se ne hanno l’occasione e la possibilità, sono cattivi»

-  di Isabella Bossi Fedrigotti (Corriere della Sera, 30.09.2009

PROSECCO PROSEK (Trie­ste) - È un omino asciutto e ironico lo scrittore di citta­dinanza italiana e lingua slo­vena, Boris Pahor, lucido e perfettamente memore di ogni dettaglio della sua tor­mentata vita nonostante gli anni siano 96. Poiché il bar Lucsa, nel quale «riceve» di so­lito, è chiuso per turno, aspetta in strada, lì accanto, impermeabile addosso e cartella in mano, l’aria di un austero professore di scuola, cosa che in realtà egli è stato per cir­ca vent’anni.

È contento perché il visitatore non si dà arie come temeva («Ne arrivano tanti di pomposi», dice) e si meraviglia quasi quan­do viene a sapere di essere lo scopo princi­pale del viaggio e non un secondo piccione - minore - da prendere con una sola fa­va. Ed è anche contento di apprendere che il visitatore è di Rovereto, in quanto è di Ro­vereto il primo editore italiano (Nicolodi, ora Zandonai) che ha infine creduto in lui, da molti anni conosciuto, pubblicato, invi­tato e premiato in Paesi come la Francia e la Germania.

Dopo la pubblicazione da Nicolodi del ro­manzo Il petalo giallo nel 2004 - una qua­rantina d’anni dopo la sua stesura - è stata una valanga. Sono stati tradotti Il rogo nel porto, Necropoli, Qui è proibito parlare e il 7 ottobre escono altri due libri di Pahor: da Rizzoli una lunga memoria in forma di in­tervista (condotta da Mila Orlic), intitolata Tre volte no, per intendere la sua opposizio­ne a fascismo, nazismo e comunismo; e da Zandonai il romanzo Una primavera difficile, che narra del ritorno alla vita fisica e sen­timentale di un reduce dei Lager, alter ego dello scrittore. «E il telefono nel mio studio - aggiunge lo scrittore -, che taceva sem­pre, ormai suona anche sei volte in un po­meriggio! Vogliono interviste, vogliono rac­conti, vogliono portarmi in giro per conve­gni, conferenze, incontri, per promuovere i libri. Adesso poi che ho un indirizzo di po­sta elettronica, l’unica cosa moderna che io abbia, arrivano messaggi di invito anche lì, ma li apro solo ogni tanto quando vado a Trieste da un amico editore, perché il computer da me non ha posto. Questa notorietà non mi piace tanto perché mi fa sentire co­me una specie di Lollobrigida senza reggi­petto che tutti vogliono vedere da vicino. Vi­ceversa, però, sono orgoglioso per la rivinci­ta della mia lingua e della mia cultura in passato così dolorosamente sprezzate. ’Bruti s-ciavi’ ci chiamava­no».

Perché l’Italia la scopre so­lo ora?

«A causa delle cose che scrivo, naturalmente, che ancora oggi non si vo­gliono conoscere e ricono­scere realmente. Di come, per esempio, il nazionali­smo italiano abbia vessato e oppresso la minoranza slo­vena, non solo durante il fa­scismo ma anche negli anni che lo hanno preceduto, su­bito dopo la Grande Guerra. Ci sono stati maestri che sputavano in bocca ai bam­bini sorpresi in classe a par­lare sloveno, ci sono stati li­cenziamenti e umiliazioni di ogni sorta. Gli impiegati pubblici di origine slovena venivano trasferiti d’ufficio in luoghi lontani e mio pa­dre, impiegato comunale, fu costretto a dimettersi per­ché rifiutò di spostarsi in Si­cilia. Ripiegò sul mestiere del nonno, vendere burro in piazza, e fummo perciò costretti a traslocare in un sottoscala. Arresti, botte e condanne a morte erano al­l’ordine del giorno, eppure il mito degli italiani brava gente è sempre vivo e caso mai si parla delle foibe, mai di quello che è toccato a noi. Se penso che ab­biamo dovuto aspettare il 2000 perché ve­nisse riconosciuto il bilinguismo in queste zone e addirittura il 2009 perché il discorso del presidente della Repubblica nel giorno della Memoria ricordasse anche ciò che il fascismo aveva fatto alla popolazione slove­na».

I romanzi e i racconti di Pahor riportano fedelmente le vicissitudini della sua lunghis­sima vita: l’unica cosa che inventa - assicu­ra - sono i nomi dei personaggi e i dialo­ghi, e soltanto perché non se li ricorda più.

«Avendo così tante cose da raccontare non vedo perché dovrei inventare. Io invento soltanto dal vero e mi fido di più di quegli scrittori che fanno altrettanto».

Nato nel 1913, ha fatto in tempo a vi­vere sulla sua pelle di scola­ro la chiusura degli istituti sloveni e l’italianizzazione forzata, esperienze narrate, per esempio, ne Il rogo nel porto e in Qui è proibito par­lare. Poi il liceo nel semina­rio di Capodistria - l’unica maniera di continuare gli studi per un quasi analfabe­ta di ritorno al quale era sta­ta portata via la lingua ma­dre - e la guerra in Libia, della quale porta nella me­moria una delle date più im­portanti della sua vita:

«Quella in cui a Bengasi, sot­to le bombe, passai l’esame di maturità, visto che quello del seminario non era rico­nosciuto. Quando andai a ve­dere i risultati fui apostrofa­to in corridoio da un profes­sore che mi chiese chi fossi. Boris Pahor. Ah, Pahor, fece con un sorriso, l’autore del migliore tema d’italiano! E fu grazie a quel tema che eb­bi sei anche in greco, mate­ria in cui avevo fatto scena muta a una domanda sui lirici visto che lì in Africa non ero riuscito a trovare il libro».

Necropoli, considerato il suo libro mag­giore, narra invece l’esperienza di deporta­to politico in vari Lager tedeschi, ultima sta­zione Bergen-Belsen. Un viaggio di quindi­ci mesi attraverso una serie di città dei mor­ti, appunto, imprigionato dai fascisti per i suoi legami con i resistenti sloveni e poi «passato» ai nazisti. Viaggio al quale pensa di essere sopravvissuto per due ragioni:

«Perché oltre al tedesco parlavo sloveno e qualche parola di francese, per cui un medi­co norvegese, internato politico a sua volta, mi prese come interprete-infermiere; e per­ché mi concentravo al massimo per vivere solo nel presente: non pensare al passato e nemmeno al futuro, solo oggi, adesso e cer­care di non soccombere. Ho ricordato do­po, scrivendo. Raccontare a voce era infatti impossibile, non aveva senso perché chi non è passato per quell’esperienza, anche se ci mette buona volontà, non può capire, non può. Forse è per questo che molti so­pravvissuti si sono poi uccisi. E la cosa più terribile della vita nel Lager - spiega anco­ra - non era il freddo, la fa­me, la dissenteria bensì l’as­suefazione all’orrore. L’uo­mo è fatto così, per fortuna e per disgrazia. Perciò i ca­daveri, gli innumerevoli, quotidiani cadaveri dei compagni di prigionia non erano più corpi che conser­vavano il ricordo di un es­sere umano, ma soltanto materia morta da buttare via».

L’assuefazione ha però anche un’al­tra faccia, per cui se qualcosa giunge all’im­provviso a interrompere una situazione di­ventata normale nonostante la sua tragicità, la si percepisce come uno strappo violento, come l’inizio di una nuova era. Per Pahor, la nuova era cominciò - ricordo vivo e incan­cellabile - con le lenzuola fresche di buca­to della Croce rossa di Lille, nelle quali dor­mì per la prima volta dopo un’eternità, l’in­domani della liberazione. E cosa le ha insegnato la sua lunga vita?

«Che l’uomo, tutti gli uomini, donne com­prese, se ne hanno l’occasione e la possibili­tà, sono cattivi. Per questo ho sempre paura che tutto possa ricominciare. L’altra paura, lo confesso, è molto più terra terra, e riguar­da il modo in cui andrò all’altro mondo. Ma è più che altro una lieve preoccupazione, perché ne ho visti così tanti andarci».


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