TRIESTE. In occasione della giornata che domenica farà memoria delle vittime della violenza titina, apre il centro di documentazione
Viene inaugurato a Basovizza, luogo delle fosse comuni e delle violenze comuniste, e vuole
essere un mezzo per la riappacificazione fra sloveni e italiani
Foibe, ricordo e riconciliazione
DA TRIESTE FRANCESCO DAL MAS (Avvenire, 07.02.2008)
Sotto il segno della ’memoria condivisa’. Di più: nella prospettiva della riconciliazione. Come, peraltro, sollecita il vescovo di Trieste Eugenio Ravignani, a ogni ’Giorno del ricordo’. Quello del 10 febbraio, domenica prossima, ha infatti in agenda l’inaugurazione a Basovizza del Centro di documentazione, con la mostra storica permanente sulla stagione delle grandi violenze sul confine nordorientale. E ci sarà anche un testo didattico di accompagnamento. Il tutto orientato ad una condivisione di questa tragica storia: «o, almeno ci proviamo», si schermiscono i componenti della Commissione promossa dal Comune di Trieste e composta dagli storici Giuseppe Parlato (presidente), Raoul Pupo, Roberto Spazzali, Paolo Sardos Alberini (della Lega nazionale, che ha in gestione il museo) e Adriano Dugulin. Siamo appunto a Basovizza, sul Carso triestino, la foiba per antonomasia. Ma sulle foibe non ci si dilunga troppo in questo Centro, neppure nella Mostra; vengono descritte puntualmente e si fa memoria degli infoibati, ma senza eccessi, senza ridondanze. Si preferisce insistere sul concetto di stragi. Si fa netta distinzione tra infoibati e deportati. Per l’inghiottitoio di Basovizza non ci si limita a rilanciare l’’ipotesi giornalistica’ dei 2500 martiri che vi sarebbero stati sepolti. Gli storici hanno voluto una ricostruzione ’rispettosa della memoria’ ma anche ’rigorosa’ rispetto a quello che già si conosce.
Il ’Giorno del Ricordo’ coincide, si sa, con la data esatta del Trattato di pace di Parigi (che nel 1947 sancì la perdita dei territori dell’Istria e di Pola) ed il drammatico esodo dei 350 mila italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia e le vittime delle Foibe. Si tratta di una delle pagine più drammatiche e dolorose della storia del Novecento sul confine Nordorientale.
Dopo decenni di letture opposte di quanto accaduto; di separazioni e lacerazioni, si tenta, appunto, una ricucitura. Tanto che domenica mattina il vescovo Ravignani officerà una messa sulla foiba, ritenendo, appunto, che, memoria a parte, ci siano i presupposti almeno per una memoria riconciliante. «Il Centro di documentazione testimonia in primo luogo il perenne omaggio dell’Italia - sottolinea Raoul Pupo, uno degli storici più autorevoli su quest’area del Paese - alle vittime delle stragi. Allo stesso tempo consente di offrire migliore risposta alla domanda di storia che negli ultimi anni si è fortemente intensificata, soprattutto da parte del mondo della scuola».
La mostra permanente allestita nel Centro presenta infatti una spiegazione, seppur sintetica, ma appunto condivisa, dei fatti, delle logiche che li hanno prodotti e della loro collocazione «all’interno della stagione di conflitti e prevaricazioni che ha purtroppo distinto il Novecento al confine orientale d’Italia».
Per intenderci, se gli sloveni vogliono venire oggi a Basovizza - chiosa Pupo - possono farlo senza sentirsi sotto accusa. La Commissione come è riuscita a raggiungere un approdo che nessuno contesta? «Abbiamo scelto di evitare ogni concessione alla retorica - risponde Pupo -, convinti che l’evidenza dei fatti possiede già una propria drammatica eloquenza.
Abbiamo inoltre cercato di evitare ogni ambiguità nel linguaggio, perché spesso in passato la confusione terminologica ha alimentato polemiche irrispettose delle memorie dolenti che quegli episodi ancora evocano, ed ha spalancato spazi al negazionismo». Gli storici non hanno abdicato alla loro professione.
Qui, al Centro di Documentazione, tutte le cose vengono chiamate con il loro nome. Nulla si tace. Nulla si media, tanto meno si sottopone a compromesso. «Si è messo in luce come le foibe, cioè le cavità carsiche - puntualizza Pupo - siano state utilizzate per far scomparire parte soltanto delle vittime delle stragi. E si è distinto fra gli infoibati e i più numerosi scomparsi nella deportazione ». Viene chiarito, per quanto possibile, ciò che accadde a Basovizza, tra la fine di aprile ed i primi di maggio del 1945, «ricordando - rileva ancora Pupo - i combattimenti partigiani e tedeschi, l’inumazione nel pozzo dei caduti in battaglia da parte germanica, le testimonianze che ci parlano di processi sommari e della fucilazione di alcune centinaia di persone di nazionalità italiana, i cui corpi vennero gettati nell’abisso assieme (non lo si dimentichi) a grandi quantità di materiali di ogni tipo. Abbiamo ricordato gli inutili tentativi di recupero delle salme e le polemiche che ne sono seguite, e particolare attenzione è stata dedicata ai deportati».
Farà discutere- ma anche questa memoria è stata condivisa - il collegamento tra le stragi del 1945, che ebbero il loro epicentro nelle province di Trieste e Gorizia, «e la cui responsabilità pesa sul movimento di liberazione guidato da Tito e sugli organi dello Stato comunista jugoslavo », con gli episodi simili accaduti in Istria nel 1943, sempre a danno degli italiani, ed anche con le ’violenze di massa’ che segnarono la fine della guerra in Slovenia ed in Croazia, «sempre ad opera dei partigiani comunisti».
La mostra consente al visitatore di allargare lo sguardo «per poter meglio comprendere come le stragi del 1945 abbiano costituito uno dei picchi delle violenze novecentesche nell’area dell’Adriatico orientale». Ecco, quindi, una carrellata di immagini che iniziano con la devastazione delle associazioni irredentiste italiane di Trieste nel 1915, che proseguono con l’incendio del Narodni Dom da parte dei fascisti nel 1920, la devastazione squadrista della sinagoga nel 1942, la creazione del lager nazista della risiera di San Sabba. Una tragica carrellata che si conclude con il campo profughi di Padriciano, vicino a Basovizza, che nel secondo dopoguerra ospitò alcuni gruppi di italiani esuli dall’Istria. «Si tratta di una sintesi delle tragedie del secolo scorso - osserva, concludendo, Pupo - concentrata in quello che non a caso viene chiamato sempre più spesso il laboratorio giuliano».