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Eu-ropa!!!

FOIBE: GIORNO DEL RICORDO. MEMORIE E VERITA’!!! «Non dobbiamo tacere, assumendoci la responsabilità di aver negato o teso ad ignorare la verità per pregiudiziali ideologiche e cecità politica» (Il Presidente della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano) - a cura del prof. Federico La Sala

sabato 10 febbraio 2007 di Maria Paola Falchinelli
[...] «La disumana ferocia delle foibe fu una delle barbarie del secolo scorso, in cui si intrecciarono in Europa cultura e barbarie. Non bisogna mai smarrire consapevolezza di ciò - ha sottolineato - nel valorizzare i tratti più nobili della nostra tradizione storica e nel consolidare i lineamenti di civiltà, di pace, di libertà, di tolleranza, di solidarietà della nuova Europa che stiamo costruendo da oltre 50 anni, e che è nata dal rifiuto dei nazionalismi aggressivi e oppressivi, da (...)

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> FOIBE: GIORNO DEL RICORDO. MEMORIE - E VERITA’!!! NO ALLA MEMORIA UNILATERALE!!!

mercoledì 29 dicembre 2010

LA MEMORIA DELL’ESILIO: ESODO E IDENTITA’ AL CONFINE DEI BALCANI di Pamela Ballinger, Il Veltro Editrice, Roma 2010, pagg. 512.

Nell’ormai vasto panorama della ricerca scientifica sul complesso tema di Istria e Dalmazia, questo ampio studio, tradotto in italiano a diversi anni dalla stesura originaria, deve essere segnalato per alcune peculiarità, a cominciare dalla straordinaria ricchezza della bibliografia, che comprende oltre 700 titoli, accuratamente catalogati in appendice, e quel che più conta, oggetto di specifiche consultazioni documentate, anziché della semplice elencazione tipica di tanti testi che vanno per la maggiore. Un altro carattere particolare importante è costituito dal fatto che l’Autrice non appartiene al mondo della storiografia, ma a quello dell’antropologia culturale comparata, e prima ancora, dalla sua nazionalità statunitense: cosa tanto più ragguardevole, perché in precedenza gli studi americani sulla questione adriatica avevano avuto dimensioni marginali, fatta eccezione per qualche importante monografia come quella di Michael Ledeen sull’impresa fiumana di Gabriele d’Annunzio.

La Ballinger non si è limitata a svolgere un pur encomiabile “desk work” ma si è impegnata in una ricerca sul campo che ha richiesto la permanenza di circa un anno e mezzo sul posto, con presenze particolarmente significative a Trieste ed a Rovigno, arricchite da una lunga serie di interviste ad esponenti degli Istituti di ricerca ed a quelli del momento politico, e soprattutto ai protagonisti di base: da una parte, gli esuli da Venezia Giulia e Dalmazia, e dall’altra, i cittadini sloveni e croati di espressione italiani, i cosiddetti “rimasti”. Ne è scaturito un affresco di grande interesse anche dal punto di vista psicologico, in specie per l’analisi delle diverse motivazioni che, sia nell’uno che nell’altro gruppo, diedero vita, spesso dopo vivaci dibattiti familiari, alla decisione di esodare o di rimanere.

A monte dei singoli drammi, restano la grande tragedia collettiva della guerra e la consapevolezza che le ragioni ed i torti fossero difficilmente separabili, tanto più che alle responsabilità di parte italiana ed a quelle senz’altro maggioritarie di parte jugoslava si andarono a sommare le “colpe” degli Alleati, incapaci di comprendere quanto accadeva, come nel caso emblematico di Pola, dove le maggiori attenzioni delle Potenze di occupazione non furono dedicate alla grande emergenza dell’esodo ed alla sua concentrazione nell’angoscioso inverno del 1947, ma alle partenze del Governo militare anglo-americano e delle forze armate che lo supportavano (non a caso, la gestione di detta emergenza fu posta a carico del Governo italiano, con tutti gli ulteriori problemi derivanti dalla sua lontananza fisica e dalle priorità della ricostruzione postbellica).

Pagine importanti sono dedicate dalla Ballinger, secondo logica, alla questione di Trieste, dove venne creandosi il primo nucleo significativo di quella lunga stagione della politica internazionale che sarebbe passata alla storia con il nome di Guerra Fredda, e dove il dramma delle foibe conobbe momenti particolarmente tragici nei quaranta giorni di occupazione titina, dopo la fine della guerra, con una virulenza quasi peggiore di quella che aveva caratterizzato la prima “ondata” del 1943 in Istria e Dalmazia, se non altro perché elevata a sistema politicamente programmato da parte del regime comunista jugoslavo, mentre dopo l’otto settembre le esplosioni di violenza avevano assunto, in alcuni contesti, i segni di una “jacquerie” a sfondo prevalentemente classista.

L’Autrice, nonostante la sua formazione scientifica, dimostra di muoversi con discernimento nelle vicende di una storia particolarmente poliedrica come quella di Venezia Giulia e Dalmazia e di conoscere uomini e cose con una profondità motivazionale suffragata proprio dalla sua preparazione antropologica di base. Nello stesso tempo, aderisce sia pure inconsapevolmente all’assunto di Tacito secondo cui per “professare incorrotta fedeltà al vero, di ciascuno bisogna parlare senza amore e senza odio”, ma ammette che l’esperienza dell’esodo finì per segnare in maniera incancellabile la vita dei suoi protagonisti, tanto da renderne problematica la descrizione degli eventi e da farne, in tanti casi, dei veri e propri “sradicati”, come i profughi erano stati definiti, mezzo secolo prima della Ballinger, da Don Luigi Stefani, il non dimenticato Cappellano alpino esule da Zara.

L’approccio esterno, pur corretto da un’indagine metodologicamente corretta, finisce spesso per creare qualche discrasia, come è accaduto in questo volume: ad esempio, quando si afferma che Trieste è diventata “più italiana” a seguito dell’esodo istriano, e che nella città di San Giusto vennero espropriati terreni slavi per costruirvi le case destinate ai profughi; quando si sostiene che la conquista dannunziana di Fiume fu opera di una “banda” di disertori; quando si sottolinea che talune Associazioni degli esuli hanno dato soverchio spazio a personaggi “compromessi con il regime fascista” ed a pregiudiziali irredentiste che l’Autrice manifesta di non condividere; o quando si insiste sul processo di “vittimizzazione” che avrebbe contraddistinto per tutti questi decenni il movimento giuliano e dalmata, al pari degli stessi “rimasti” (sebbene alcuni di loro avessero deciso di accettare il regime di Tito per dichiarata adesione all’ideologia comunista). Peggio ancora, per alcuni infoibati non si manca di porre in luce come costoro fossero stati fascisti e collaboratori dei tedeschi, quasi per insinuare che la colpa del loro assassinio finisce per essere quanto meno affievolita: d’altra parte, non si può dimenticare che la Ballinger è americana e che, in quanto tale, non può “mentire alle proprie radici” pur cercando di restare per quanto possibile al di sopra delle parti.

Non mancano errori contingenti dovuti ad informazioni inesatte, come quando si dice che il Presidente della Federazione degli Esuli, Renzo Codarin, è stato un parlamentare di Alleanza Nazionale, o quando si chiarisce che il Cavalierato di Vittorio Veneto era un’onorificenza spettante ai nati nel 1909 (!) che nel corso della prima guerra mondiale avevano combattuto sul fronte dell’Isonzo, senza dire dell’insensibilità con cui Redipuglia viene definita un “ricettacolo” di tombe (ma nella fattispecie può avere inciso negativamente una traduzione talvolta perfettibile).

Nella generalità dei casi la Ballinger è ben documentata, anche alla luce delle opportune verifiche: ad esempio, nel porre in evidenza il carattere “sacrale” assunto dalle foibe, in particolare grazie all’opera del Vescovo di Trieste e Capodistria, Mons. Antonio Santin, od a quella di Padre Flaminio Rocchi; nella questione dei criminali di guerra o presunti tali che vennero richiesti all’Italia da parte jugoslava in misura largamente superiore a quanto era accaduto per gli altri Stati vincitori, od in quella del “processo agli infoibatori” conclusosi con un nulla di fatto a causa di opinabili valutazioni giudiziarie. Ciò, per non dire dello scandalo del pagamento di circa 30 mila pensioni dell’INPS a favore di aventi causa jugoslavi che potessero vantare periodi sia pure minimi di lavoro durante il periodo di sovranità italiana, o peggio, di servizio partigiano nell’Armata rossa di Tito (la Ballinger precisa che le pensioni versate all’estero sono circa 600 mila, per cui quelle pagate in Jugoslavia ne costituivano “solo” il cinque per cento, ma non aggiunge che avevano ben diversa matrice giuridica e che si giovano persino di reversibilità integrale).

Vengono proposti all’attenzione del lettore diversi episodi toccanti come quello del piccolo Leonardo esule dalla Zona “B” a cui il poliziotto italiano di guardia alla frontiera offre una cioccolata calda, primo tangibile segno della “diversa” civiltà occidentale; dell’usanza istriana di raccogliere il pane che fosse caduto da tavola affrettandosi a baciarlo per riconoscerne la sacralità; o delle ricorrenti visite di tanti esuli (anche per l’etimo, cacciati “extra solum”, secondo la definizione datane tredici secoli or sono da Isidoro di Siviglia) alle tombe rimaste in Istria, come manifestazione di “pietas” e segno di religiosità, ma nello stesso tempo di tutela sia pure minima dell’ultimo simulacro di italianità.

Pamela Ballinger conosce bene la storia, dal patto di amicizia italo-jugoslava del 1937 alle ragioni che la infransero quattro anni dopo; dall’impegno nella RSI di uomini come Carlo Mazzantini, sensibili soprattutto al richiamo dell’onore, al fatto che l’Italia abbia avuto, assieme alla Danimarca, la più alta quota percentuale (quasi nove decimi) di ebrei sopravvissuti all’Olocausto nell’ambito dell’Europa occupata, secondo la testimonianza di Susan Zuccotti; dalle vicende del “diktat” alla drammatica farsa di Osimo, a proposito della quale non esita a porre in evidenza che il voto di ratifica in Parlamento sarebbe stato “incentivato” da compiacenti bustarelle, ben più potenti della definizione di “trattato imbecille” datane dall’On. Giacomo Bologna, democristiano dissidente, e dell’opposizione sostenuta dalla Lista per Trieste, di cui viene messo in luce il limite derivante dall’aggregato interpartitico.

Resta il fatto che nove italiani su dieci decisero di esodare e che molti di costoro, come rileva la Ballinger, erano di sinistra: quella di partire non fu una scelta, ma un’opzione largamente maggioritaria, che in tanti casi ebbe per motivazione saliente il “pensare al futuro dei nostri figli” (in altri termini, una ragione non già ideologica ma pragmatica, al pari di quella di tutti coloro che fuggivano per il rischio di infoibamento). Resta il fatto che l’accoglienza in Italia fu spesso matrigna, tanto da spingere all’emigrazione un quarto dei profughi e da alimentare nei loro cuori un sentimento di profonda delusione nei confronti della Patria, o meglio della sua classe politica responsabile di averli traditi ancora una volta (era già accaduto ai dalmati nel 1919 ed ai fiumani nel 1920). E resta il fatto che tutti gli istriani sono stati vittime, compresi i pochi “rimasti” costretti ad annegare in un oceano slavo, secondo la felice espressione di Loredana Debeliuh Bogliun.

Oggi, molti esuli “provano malessere” quando tornano a Pola, a Fiume od a Zara ed avvertono una lontananza siderale dalla loro terra, sebbene geograficamente vicina. Ecco un sentimento che spesso si cerca di sopire e che l’Autrice ha il merito di avere posto nella giusta luce, pur senza essere in grado di indicare una terapia idonea a superare questa sensazione di ineluttabilità: dopo tutto, non tocca prioritariamente a lei, che è americana, proporre soluzioni od antidoti, Ciò compete con tutta evidenza al movimento giuliano e dalmata e prima ancora ai tanti protagonisti della complessa vicenda adriatica, chiamati a trovare conforto nella fede ed a trasmettere alle generazioni avvenire l’impegno di realizzare il proprio sogno di giustizia.

carlo cesare montani


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