La pugnalata ai «Versi satanici»
di Marco Ventura (Corriere della Sera, 15 giugno 2011)
Vent’anni fa, Ettore Capriolo era già uno dei più noti traduttori italiani dall’inglese. Solo negli ultimi tempi, aveva tradotto per Mondadori La tamburina di Le Carré e Fiesta di Hemingway. Dal 1989 Capriolo era soprattutto il traduttore dei Versi satanici di Rushdie, il libro che era costato all’autore anglo-indiano e ai suoi editori la celebre fatwa di Khomeini: ogni «intrepido musulmano» sappia che solo la morte può ripagare il sacrilegio; ogni «islamico fervente» esegua al più presto la sentenza capitale.
I riflettori si puntarono su Rushdie, la star. Ma nessuno di coloro che avevano avuto a che fare col volume era al riparo. Il 3 luglio 1991 Ettore Capriolo ricevette nella sua abitazione milanese di via Curtatone un sedicente iraniano interessato ad una certa traduzione. Dopo aver invano chiesto il recapito di Rushdie, l’uomo aggredì Capriolo: lo prese dapprima a pugni e poi, estratto dalla giacca un coltello, menò fendenti al torace, al collo, agli avambracci e al volto, prima di dileguarsi.
Nove giorni dopo, l’inviato del «Corriere», Paolo Chiarelli, trovò Capriolo convalescente a casa, il braccio destro ingessato. Era stato necessario un intervento di ricostruzione di un tendine, si era scoperta una lesione all’occhio. Nell’intervista, la normalità di Capriolo sfidò l’eccezionalità dell’evento. Il traduttore parlò delle spese sostenute per la porta blindata, il sistema d’allarme, le cure; del lavoro di traduzione interrotto. Della Mondadori «che si è fatta viva soltanto in ospedale con un mazzo di fiori e un biglietto firmato dal suo presidente»; di Rushdie che «dal suo bunker protetto da decine di guardie del corpo non ha avuto il buongusto di mandare un telegramma».
L’editore e l’autore prosperavano. Il traduttore pativa. Poche ore prima, dall’altra parte del mondo, in un ascensore dell’Università di Tsukuba, veniva ucciso Hitoshi Igarashi, il traduttore giapponese dei Versi. In questi vent’anni abbiamo imparato a considerare la storia dei Versi satanici come l’apertura di un mondo nuovo fatto di guerre di religione, di scontro globale, di libertà occidentale in pericolo, di culture contro.
Le migliaia di manifestanti anti Rushdie di Bradford e Londra suggellarono la metamorfosi. In piazza a cospargere di paraffina e incendiare i libri di Rushdie, il mondo si scoprì non più pakistano, iraniano, egiziano, ma musulmano. Fu così forte quel «siamo tutti musulmani» che ne trascurammo allora e ne abbiamo trascurato per vent’anni sfumature, differenze, limiti, ambiguità.
Quella storia, del resto, era la storia di tutti noi, e non c’era barriera religiosa o culturale che tenesse. Negli stessi anni in cui respingevano i ricorsi contro Rushdie perché offendere l’Islam non è reato, i giudici inglesi condannavano chi offendeva il cristianesimo e vietavano la visione di film blasfemi su Santa Teresa d’Avila. E i milanesi che in quel luglio 1991 leggevano sul «Corriere» dell’attentato a Capriolo e delle polemiche per l’attacco a Papa Wojtyla del vicepresidente del Consiglio Claudio Martelli, alzando gli occhi trovavano le pubblicità giganti con il bacio tra il prete e la suora fotografato da Oliviero Toscani per Benetton.
Per i cristiani come per i musulmani, la sfida era la stessa, nello stesso spazio e tempo. Salman Rushdie lo aveva previsto nel 1984: «Nel mondo globale non abbiamo dove nasconderci, dove trovare certezze». Sul «Corriere» del 13 luglio 1991, nel suo commento agli attentati contro Capriolo e Igarashi, Carlo Bo resistette a quella piena aggrappandosi alla potenza delle lettere. E denunciò l’«oltraggio portato alle ragioni della letteratura», esaltò «la natura della poesia, la forza della sua libertà, la purezza del suo discorso che va ben al di là della regola e della norma delle religioni». In quel paesaggio, l’Ettore Capriolo ferito nel fisico e nel morale, blindato nell’appartamento di via Curtatone, apparve una vittima minore.
«Ma che seccatura» commentò al policlinico, subito dopo il suo ricovero, «adesso sono diventato un martire». Martire secondario però. In fin dei conti era solo il traduttore. Lo avevano colpito perché non c’era di meglio. O almeno così ci parve. Perché invece, vent’anni dopo, le cose appaiono diverse. Nel mondo globale la traduzione è divenuta la grande metafora del lavoro da fare contro l’odio e la paura. Un’incessante, umile, meticolosa, opera di traduzione tra lingue, culture, religioni, norme. Tradurre. Pagina dopo pagina. Realtà dopo realtà. La discrezione di Capriolo, la sua normalità, ci nascose allora questa verità, e ce la svela oggi.
Certo l’attentatore avrebbe preferito pugnalare Rushdie. Ma colpendo il traduttore al posto dello scrittore, «l’intrepido musulmano» aggiunse senza saperlo un obiettivo ancora più profetico: il traduttore, appunto. «Sono soltanto un professionista. Ho fatto il mio dovere», commentò Capriolo dopo l’aggressione. E poi tacque, senza vendere la sua grande storia ad un mercato pronto a comprare anche i fatti più meschini. Il suo dovere di allora è il nostro dovere di oggi. Tradurre per disinnescare ogni fanatismo.