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Postmodernità

ADDIO A JEAN BAUDRILLARD, UN LUNGIMIRANTE ANALISTA DEL MONDO "POST-ISTORICO". "C’è qualcosa che possiamo dire di avere imparato da tale controverso maestro cui è stato dedicato perfino un Cahier de l’Herme (2005), tanto intuitivo e preveggente quanto vago e volatile?" Una nota di Franco Volpi - a cura di Federico La Sala

mercoledì 7 marzo 2007 di Maria Paola Falchinelli
[...] I suoi saggi - incisivi e strutturati i primi, poi sempre più fulminanti e istantanei, ma di corto respiro e a volte di una dogmatica vaghezza - hanno comunque segnato in modo profondo la vita intellettuale contemporanea e la rappresentazione culturale del nostro tempo. Penso per esempio a L’échange symbolique et la mort, uscito nel 1976, che analizza il sistema dei segni, la loro funzione sociale, il loro inesausto e infinito richiamarsi in un vuoto e inane rispecchiamento di valori (...)

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venerdì 9 marzo 2007

Potente e fatale la strategia di Jean Baudrillard

di Mario Perniola (il manifesto, 07.03.2007)

A ripercorrere l’opera di Jean Baudrillard, all’indomani della sua morte, appare subito evidente come essa si divida in due periodi, il primo dei quali è segnato da una insistita riflessione sulle categorie dello scambio simbolico, dell’iperrealismo e del simulacro, estendendosi fino ai primi anni Ottanta, mentre con il volume Le strategie fatali (1983) una nuova fase si apre, più paradossale e più suscettibile dei molti fraintendimenti in cui è talvolta incorsa. È dal saggio di Marcel Mauss sul dono nelle società primarie e dalle considerazioni di Georges Bataille sul potlàc - quella forma arcaica di scambio basata sull’obbligo di una restituzione più cospicua da parte di chi riceve il dono - che Baudrillard prende il suo concetto di scambio simbolico.

Oltre ai classici concetti marxisti di valore d’uso e di valore di scambio, il filosofo francese introduce un valore-segno, connesso con la società dei consumi e la universale semiotizzazione della vita, e infine un valore di scambio simbolico, inteso piuttosto come un non-valore perché, nel suo essere alternativo ai tre valori precedenti, implica la fine dell’economia. Già fuori dal marxismo, dunque, Baudrillard assegna alla propria teoria una dimensione utopica. Quanto alla nozione di iperrealismo, essa è nel suo pensiero una estensione all’ambito economico-sociale della parola nata in ambito artistico: come quel tipo di pittura forniva una copia del tutto realistica della realtà che intendeva rappresentare, così la società si trova a riprodurre con una rassomiglianza esasperata l’economia politica, quella economia che ha perduto, nella universale emancipazione del segno, ogni dimensione strutturale. La terza parola chiave, simulacro, porta con sé, nell’impiego che ne fa Baudrillard, l’eco di alcune considerazioni nietzscheane sul venir meno di una distinzione tra mondo vero e mondo apparente, e riprende anche il pensiero di Klossowski, di Foucault, di Deleuze e di Lyotard, applicandosi all’analisi dei fenomeni politici e sociali, in cui la realtà sembra dissolversi in una spirale infinita di segni e di rimandi, privi di referente. Derivano da qui le riflessioni sul terrorismo, che per un verso oppone un altro ordine a quello vigente, costituendo una specie di potlàc suicida, per un altro verso è un atto iperreale che spaccia per esistente una rivoluzione inattuata, e per un terzo verso partecipa del simulacro, che è estraneo all’ordine del senso e di una rappresentazione solidale con gli strumenti di comunicazione di massa, mentre dissolve qualsiasi prospettiva politica credibile.

Nella seconda fase, aperta dall’idea di strategia fatale, è centrale la parola «illusione», che va intesa sia in senso metafisico-cognitivo, ossia come il contrario della realtà e della verità, sia in senso estetico-psicologico, ossia come il contrario del disincanto e della delusione. Se si privilegia la prima accezione, il pensiero di Baudrillard acquista una coloritura scettico-nichilistica non lontana da alcune tendenze della filosofia italiana contemporanea - per esempio il «pensiero debole» di cui condivide il radicale rifiuto della metafisica e dell’etica, e quel filone della cultura filosofica caratterizzata dal catastrofismo vitalistico, che in Italia corre da Pirandello a Giorgio Colli e a Giorgio Agamben.

Ma sono paralleli, in realtà, ingannevoli: perché ciò che davvero interessa Baudrillard non è il problema della conoscenza, né l’enfasi vitalistica che pervade i filosofi italiani del sublime. Per lui, infatti, l’illusione non significa sogno, inganno, miraggio, e nemmeno utopia, bensì l’ingresso in una dimensione non usuale, non quotidiana, non statica. Ed è a partire da questo momento che ha inizio una rivalutazione di ciò che chiamiamo l’arte, il teatro, il linguaggio: perché lì si è conservato qualcosa di quella violenza al reale che si attua nella cerimonia iniziatica e nel rito. È in quell’ambito che si conserva una padronanza delle apparizioni e delle sparizioni, e in particolare la padronanza sacrificale dell’eclissi del reale.

Siamo quindi molto lontani dal gioco inteso come ricreazione, loisir o distrazione; l’idea che Baudrillard ha dell’arte come illusione è semmai prossima alla concezione antropologica della magia, dove la potenza dell’illusione riesce a irrompere nel reale e in qualche modo a prenderne il posto, senza però identificarsi con esso. Un passaggio fondamentale, questo, per capire una tra le idee più oscure della riflessione di Baudrillard, quella di strategia fatale.

Non è un progetto o un piano di azione elaborato da un individuo, la strategia così come la pensa Baudrillard, bensì una concatenazione di elementi esterni alla volontà soggettiva: dunque è un sinonimo di regola e di rituale. Ma questa concatenazione non è né necessaria, né casuale, né teleologica, né fortuita, è un rito senza mito, un significante senza significato, tuttavia può diventare fatale, aggettivo cui Baudrillard consegna il senso di legato al male, funesto.

Tutte le cose sono chiamate ad incontrarsi - secondo il filosofo francese - solo il caso fa sì che questo appuntamento non si realizzi; al contrario, dunque, di quanto è proprio all’idea di hasard objectif dei Surrealisti, che in un mondo retto dalla casualità cercavano di attribuirle un significato e un valore reconditi indipendente dalle intenzioni e dalle volontà soggettive, scoprendo una trama occulta: una specie di astuzia della ragione (List der Vernunft) hegeliana. Sebbene Baudrillard dia invece per scontato che le cose si incontrino, non attribuisce a questo incontro alcun significato, perché non di una concatenazione provvidenziale si tratta, ma di un rituale, che tuttavia talvolta manca l’appuntamento e si trasforma in rituale mancato.

La distanza estetica su cui si reggeva il rituale è però annullata, in occidente, dalla cancellazione della scena e dall’annientamento delle mediazioni, di qualsiasi tipo esse siano (artistiche, politiche, sessuali). In questa direzione l’analisi di Baudrillard si distanzia da quella di Guy Debord: il mondo attuale, infatti, non sarebbe caratterizzato dal trionfo dello spettacolo, ma dalla sua sparizione. La scena è stata sostituita dall’osceno, il posto dell’illusione è stato preso da qualcosa che pretende di fornire un effetto realistico maggiore dell’esperienza della realtà (ed è perciò iperreale), ogni evento è anticipato e annullato dalla pubblicità e dai sondaggi.Dunque l’azione diventa impossibile e ad essa succede la comunicazione, che riesce appunto a fare precipitare ogni cosa nell’insignificante, nell’inessenziale, nel derisorio. Nel mondo della comunicazione, nulla più accade: tutto è senza conseguenze, perché senza premesse, suscettibile di essere interpretato in tutti i modi, tutti ugualmente irrilevanti e privi di effetti.


Nel linguaggio la seduzione della sfida

Il sociologo e filosofo francese è morto ieri a Parigi. Aveva settantasette anni e nei suoi saggi, dalla «Sparizione dell’arte» al «Delitto della merce», aveva analizzato con il suo stile aforistico e provocatorio miti e strutture della società dei consumi

di Paolo Fabbri (il manifesto, 07.03.2007)

Nel punto singolare in cui una vecchia conoscenza si trasforma in ricordo, mi chiedo cosa ha saldato la mia lunga amicizia con Jean Baudrillard. Il comune insegnamento nella California del sud a San Diego, quando scriveva America; gli anni del Centro di Semiotica e Linguistica di Urbino, quando parlava di seduzione e di simulacri; la collaborazione nel comitato di «Traverses», la rivista del Centro Pompidou dove si rifletteva - con Louis Marin e Michel De Certeau - sui temi dell’alterità e dell’esotismo, dei media e del male, degli animali e dell’epidemia.

E ho trovato una risposta plausibile. La passione condivisa per le parole, ovvia per chi si considerava un allievo trascurato del Roland Barthes delle Mythologiques (America era la risposta all’Impero dei Segni). Per chi non mira a un sistema concettuale, a un pensiero definitivo, costruttivo e edificante, il fascino del linguaggio sta nella capacità dei suoi termini di funzionare come embrayeurs del pensiero. Ma più ancora come operatori di seduzione e di magia che evolvono in forma di spirale mutandosi l’uno nell’altro. Passando da una parola all’altra, si creano le condizioni indecidibili e sperimentali di quell’emergenza impredicibile che ha un pensare autentico e sentito.

Baudrillard aveva annotato di recente il suo lessico di predilezione: entrate o termini come Oggetto, Valore, Scambio simbolico, Seduzione, Osceno, Trasparenza del male, Virtuale, Aleatorio, Caos, (la) Fine, Crimine perfetto, Destino, Scambio impossibile, Dualità. Un dizionario concettuale che egli ha disposto nell’ordine in cui è emerso dai suoi pensieri nella sua scrittura frammentaria e inclassificabile, lontana da ogni trattato e disciplina.

La radicalità del suo attivismo teorico e del suo impegno di pubblicista ha radici riconoscibili nel pensiero di Bataille. L’esito singolare è quello di un manicheismo senza riserve, un pensiero antitetico della sfida e della reversibilità senza sintesi e compromessi. Nell’analisi della cultura contemporanea Baudrillard ha portato un pessimismo che gli è stato rimproverato - nell’università si è fermato al ruolo di assistente! - ma ha mantenuto intatta la tensione di un principio speranza. «Il pensiero - diceva (e mi duole questo imperfetto) - deve giocare un ruolo catastrofico (...) e di provocazione in un mondo che intende epurare ogni cosa, sterminare la morte, la negatività. Ma deve restare umanista, attento all’umano e trovare cosi la reversibilità tra il bene ed il male, l’umano e l’inumano».

Il ricordo, diceva Nabokov, è una festa nelle tenebre dove scintillano luci che sono frammenti di specchi. Ecco: la passione di Bill - come gli amici chiamavano Jean Baudrillard - per l’Italia e il Giappone; la sua America inventata, come eterotopia rispetto alla Francia; il suo interesse per gli scrittori tedeschi di frammenti, Canetti e Lichtenberg - era agregé di letteratura germanica; la predilezione per la fotografia, la scrittura privata delle sue Cool memories, il gusto per le automobili e i deserti. E ancora, le sue preferenze artistiche, dalla pop art a Warhol, e la ferma persuasione che l’arte contemporanea è nullità. La sua voce... E il titolo di un capitolo nello Scambio simbolico e la morte: «Ma mort partout, ma mort qui rêve», la mia morte dovunque, la mia morte che sogna.


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