Un libro postumo del filosofo Jean Baudrillard
Quando l’immagine cancella la realtà
Trasmissioni come il Grande Fratello corrispondono al desiderio imperscrittibile di essere assolutamente "Nulla" e di essere guardati in quanto tali
di Jean Baudrillard (la Repubblica, 18.02.2009)
La violenza dell’immagine (e, in generale, dell’informazione o del virtuale) consiste nel far sparire il Reale. Tutto deve esser visto, tutto deve essere visibile. L’immagine è il luogo per eccellenza di questa visibilità. Tutto il reale deve convertirsi in immagine, ma quasi sempre è a costo della sua scomparsa. È d’altronde proprio nel fatto che qualcosa in essa è scomparso che risiede la seduzione, il fascino dell’immagine, ma anche la sua ambiguità; in particolare quella dell’immagine-reportage, dell’immagine-messaggio, dell’immagine-testimonianza. Facendo apparire la realtà, anche la più violenta, all’immaginazione, essa ne dissolve la sostanza reale. È un po’ come nel mito di Euridice: quando Orfeo si volta per guardarla, Euridice sparisce e ricade negli inferi. Così il traffico di immagini sviluppa un’immensa indifferenza nei confronti del mondo reale. In ultima istanza, il mondo reale si converte in una funzione inutile, un insieme di forme ed eventi fantasma. Non siamo lontani dalle ombre sui muri della caverna di Platone.
Un buon esempio di questa visibilità forzata, e in cui (in linea di massima) si mostra tutto, è il Grande Fratello e tutti i programmi dello stesso genere, reality show ecc. È qui, nel momento in cui tutto è mostrato, che ci si rende conto che non c’è più nulla da vedere. È lo specchio della piattezza, del grado zero. È qui che ci si inventa una socialità di sintesi, una socialità virtuale in cui si comprova, contrariamente alle intenzioni, la scomparsa dell’altro e, forse, anche la natura non essenzialmente sociale dell’essere umano. A questo si aggiunge il fatto che il mito del Grande Fratello, quello della visibilità poliziesca totale, riguarda il pubblico stesso, mobilitato come voyeur e come giudice. È il pubblico che è diventato Grande Fratello.
Ci troviamo oltre il panottico, con la visibilità come fonte di potere e di controllo. Ormai non si tratta più di far sì che le cose risultino visibili ad un occhio esterno, ma di renderle trasparenti a se stesse, di cancellare cioè le tracce del controllo e di rendere invisibile anche l’operatore. La capacità di controllo si interiorizza e gli uomini non sono più vittime delle immagini: si trasformano inesorabilmente essi stessi in immagini (non esistono ormai più che in due dimensioni, o in una sola dimensione superficiale). Questo significa che sono leggibili in qualsiasi istante, sovraesposti alle luci dell’informazione, e sollecitati ovunque a mettersi in mostra, a esprimersi. È l’espressione di se stessi come forma ultima di confessione di cui parlava Foucault.
Farsi immagine è esporre tutta la propria vita quotidiana, tutte le sue disgrazie, tutti i suoi desideri, tutte le sue possibilità. È non mantenere nessun segreto. Parlare, parlare, comunicare instancabilmente. Questa è la violenza più profonda dell’immagine. È una violenza che va in profondità, all’essere particolare, al suo segreto. Al tempo stesso è una violenza contro il linguaggio che, a partire da questo momento, perde anch’esso la propria originalità; non è nient’altro che un operatore di visibilità, nient’altro che un medium, perde la sua dimensione ironica di gioco e distanza, la sua dimensione simbolica autonoma: quella in cui il linguaggio è più importante di ciò che dice.
Anche l’immagine è più importante di quello che dice: è ciò che si dimentica, ed è anche, oltre che della violenza dell’immagine, la fonte della violenza contro l’immagine. Tutto quello che si vede nell’operazione Grande Fratello è una realtà virtuale, un’immagine di sintesi della realtà, una trasposizione dell’every day life, già trattata a sua volta secondo i modelli dominanti. Si tratta di voyuerismo pornografico? No, quello che la gente davvero brama non è sesso, ma spettacolo della banalità, che è il vero porno di oggi, la vera oscenità - quella della piattezza, dell’insignificanza e della nullità, una specie di parodia del suo estremo opposto: il Teatro della crudeltà di Antonin Artaud. Ma può darsi che ci sia in questo una forma di crudeltà, almeno virtuale: dal momento in cui la televisione è sempre più incapace di offrire un’immagine degli eventi del mondo, finisce per disvelare la vita quotidiana, la banalità esistenziale come l’evento più mortifero, come l’attualità più violenta, come il luogo stesso del Crimine Perfetto. Che poi è quello che in effetti lei è. E la gente resta affascinata, terrorizzata e affascinata dall’indifferenza del Niente-da-vedere, del Niente-da-dire, dall’indifferenza dello Stesso, dalla propria stessa esistenza.
Non si tratta più di una metafisica del crimine e del sesso. È una patafisica del crimine perfetto: assunzione della banalità come destino, come il nuovo volto della fatalità. Contro-transfert illustrato dal fatto che tutti sono diventati Grande Fratello. Perfusione del Super-io nella massa. Non solo gli spettatori: tutti sono presi nella spirale della Grande Gidouille (il ventre di Ubu). La contemplazione del Crimine Perfetto, di questa perpetrazione della banalità, è diventata una autentica disciplina olimpica, o l’ultima metamorfosi degli sport estremi. In fondo, tutto questo corrisponde al diritto (e al desiderio) imprescrittibile di non essere Nulla e di essere guardati in quanto tali. Ci sono due maniere di scomparire: o si esige di non essere visti (è la problematica attuale del diritto all’immagine), o si cade nell’esibizionismo delirante della propria nullità. Ci si fa nulla con il fine di essere visti e guardati come nulla - estrema protezione contro la necessità di esistere e l’obbligo di essere se stessi. Da qui l’esigenza contraddittoria e simultanea di non esser visti e di essere perpetuamente visibili. Tutti giocano su due tavoli allo stesso tempo e non c’è nessuna etica né legislazione che possa porre fine a questo dilemma, quello che comportano il diritto incondizionato di vedere ed il diritto, altrettanto categorico, di non esser visti. La massima informazione possibile fa parte dei diritti dell’uomo e, pertanto, lo è anche la visibilità forzata, la sovraesposizione alle luci dell’informazione.
La cosa peggiore in questo gioco televisivo "interattivo" è la partecipazione forzata, questa complicità automatica dello spettatore che va intesa come un autentico ricatto. Questo è l’obiettivo più chiaro dell’operazione: il servilismo, la sottomissione volontaria delle vittime che godono del male che gli si infligge, della vergogna che gli si impone. Tutta la società condivide questo meccanismo fondamentale: la abiezione interattiva, consensuale.