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GHERARDO COLOMBO LASCIA LA MAGISTRATURA E DA’ UNA INDICAZIONE DECISIVA E VITALE. «Voglio incontrare i giovani e spiegare loro il senso della giustizia» - a cura di Federico La Sala

«La giustizia non può funzionare senza che esista prima una condivisione del fatto che debba funzionare».
sabato 17 marzo 2007 di Maria Paola Falchinelli
[...] «Bisogna dar loro due cose: metodi e informazioni», ritiene Colombo, che, sostenuto anche dall’esperienza di tanti incontri in tema di corruzione, tecniche investigative, assistenza giudiziaria internazionale, ai quali è chiamato particolarmente all’estero, si propone ora di impegnarsi in questa direzione «sia attraverso contatti diretti, sia scrivendo che occupandomi di editoria: va comunicato il profondo perché delle regole e il come farle funzionare; occorre colmare la carenza di (...)

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> GHERARDO COLOMBO LASCIA LA MAGISTRATURA E DA’ UNA INDICAZIONE DECISIVA E VITALE. «Voglio incontrare i giovani e spiegare loro il senso della giustizia» - la giustizia non e’ solo e forse non e’ tanto una faccenda di tribunali, ma un processo culturale dal passo lento, che puo’ affermarsi solo attraverso processi educativi che sappiano coinvolgere l’intera societa’ a partire dai primi anni di socializzazione che, lo sappiano o meno i professori, incominciano con la frequentazione della scuola (di U. Galimberti).

sabato 26 aprile 2008

I bambini e la giustizia

di Umberto Galimberti (la Repubblica, 21 marzo 2008) *

Quante volte ci capita di sentire un bambino gridare o dire fra i denti: "Non e’ giusto". Quante volte egli prova il sentimento di essere giudicato colpevole di un’azione che non ha commesso, o crede di non aver commesso, o non ritiene cattiva. E questo non capita solo ai bambini, ma anche agli adulti ogni volta che sentono l’ingiustizia di un’esclusione non meritata, di un risarcimento non ottenuto, di una prova non superata, di un licenziamento non giustificato, di un abuso subito.

E ancora, siamo davvero convinti che la giustizia debba essere uguale per tutti, o riteniamo che debba essere diversa a secondo delle circostanze e soprattutto per ciascuno di noi, che sempre disponiamo di buoni e talvolta validi motivi per non sentirci inclusi nella regola che ci prevede comunque oggettivamente colpevoli? Ci sono davvero due giustizie diverse: una valida per tutti e una per ogni singolo individuo? A questo rispondono le attenuanti che possono ridurre anche sensibilmente la pena? Ma la giustizia che ogni individuo si immagina "giusta" e che, come un vestito, si "aggiusta" addosso, non rischia di provocare ulteriori conflitti e alla fine di creare ingiustizia? E allora: che cos’e’ giusto?

A questa serie di interrogativi rispondono due libri di facile e avvincente lettura. Il primo e’ di Gherardo Colombo, Sulle regole, il secondo del filosofo francese Jean-Luc Nancy, Il giusto e l’ingiusto. Li accomuna la persuasione che la giustizia non e’ solo e forse non e’ tanto una faccenda di tribunali, ma un processo culturale dal passo lento, che puo’ affermarsi solo attraverso processi educativi che sappiano coinvolgere l’intera societa’ a partire dai primi anni di socializzazione che, lo sappiano o meno i professori, incominciano con la frequentazione della scuola. Per questa ragione Gherardo Colombo ha abbandonato la sua carica di magistrato e di consigliere presso la Corte di Cassazione per accettare tutti gli inviti che, numerosissimi, gli provenivano dalle scuole, allo scopo di sensibilizzare i giovani, che sono poi gli adulti di domani, al bisogno di legalita’ e di regole condivise, senza le quali, come ci ricorda anche Platone nella Repubblica: "neppure una banda di criminali puo’ raggiungere il suo scopo".

Per la stessa ragione Jean-Luc Nancy, una delle figure piu’ significative dello scenario filosofico contemporaneo, ha dedicato una serie di incontri pubblici nelle scuole elementari e medie per spiegare che cos’e’ la giustizia, a partire dai conflitti in cui i ragazzi vengono a trovarsi tra loro, e poi con i genitori e con gli insegnanti.

Per prima cosa, scrive Gherardo Colombo, occorre distinguere la legge dalla giustizia. Nella storia erano leggi quelle che prevedevano la schiavitu’, quelle che discriminavano gli ebrei, quelle che ancora prevedono la pena di morte, cosi’ come lo sono quelle che la escludono, che garantiscono la liberta’ personale e l’uguaglianza nella soddisfazione dei bisogni primari. Stando cosi’ le cose l’osservanza della legge non dice ancora nulla sul concetto di giustizia, come ben dimostra il sistema italiano che era legale tanto prima quanto dopo la promulgazione e l’abolizione delle leggi razziali, anche se la differenza e’ evidente. Per avvicinarci al concetto di giustizia e’ allora necessario uscire dai tribunali dove si applica la legge ed entrare nella societa’ per vedere se la sua struttura, al di la’ degli enunciati di principio, e’ ancora verticale o orizzontale.

Gherardo Colombo chiama "verticale" quella societa’ che, pur accettando in linea di principio l’uguaglianza dei diritti, di fatto si comporta sul modello delle specie animali dove vige la legge del piu’ forte, per cui i piu’ potenti, i piu’ attrezzati, i piu’ capaci e, perche’ no, i piu’ furbi sono meritevoli di maggior considerazione rispetto a coloro che non stanno al passo, perche’ cosi’ vuole la natura che, selezionando i piu’ idonei, garantisce il successo della specie.

Ne consegue che la persona non ha valore in se’, ma acquista o perde importanza a secondo della sua rilevanza sociale, e chi condivide questo punto di vista pensa che la giustizia consista nel promuovere e nel tutelare le gerarchie, nel dare dignita’ ai privilegi, e nel rubricare "polvere della storia", come vuole l’espressione di Hegel, tutti gli altri, a partire, come documenta la storia, dalle donne, dagli schiavi, dai neri, dagli appartenenti ad altre etnie, e oggi i poveri, gli emarginati, coloro che per condizioni economiche o culturali non ce la fanno a emergere.

La societa’ "orizzontale" che segue il principio aristotelico: "L’uomo ingiusto e’ colui che non osserva l’uguaglianza, e cio’ che e’ ingiusto e’ ineguale", si e’ affacciata da poco e non ovunque nella storia, ma tendenzialmente solo in linea di principio, perche’ di fatto il riconoscimento non e’ esteso a tutti i componenti della societa’, ma solo al gruppo di cui si fa parte, a chi professa la stessa fede, a chi ha lo stesso colore della pelle, a chi parla la stessa lingua, a chi manifesta le stese idee, a chi ha la stessa elevata condizione economica.

Quando il riconoscimento non e’ universale la societa’ e’ ingiusta. E non perche’ vieta a chi ha le capacita’ di affermarsi, ma perche’, in mancanza di un riconoscimento universale, non garantisce che tale percorso possa essere intrapreso da tutti in condizioni non discriminate. Siccome il modello della societa’ verticale e’ stato il piu’ seguito nella storia, perche’ sostenuto, oltre che dall’istinto dei singoli, dalle istituzioni sia religiose sia politiche, questo modello finisce con l’apparire "naturale" e quindi "giusto".

Talvolta persino condiviso dalle vittime, persuase che sia "giusto" che qualcuno comandi e gli altri ubbidiscano, come spesso accade ai subordinati negli uffici, agli operai nelle fabbriche, alle donne senza reddito in famiglia. Qui e altrove le regole della societa’ orizzontale soccombono a quelle della societa’ verticale, dove vige la gerarchia del potere e dove arroganza e sudditanza si confondono persino nella stessa persona. Arrogante con chi sta sotto e sottomesso con chi sta sopra.

"Morbo dell’impresa" come la definisce Pier Luigi Celli nel suo ultimo bellissimo libro Altri esercizi di pentimento. Ma la stessa gerarchia dell’impresa la troviamo nell’esercito, nella chiesa, nella scuola, negli uffici, in fabbrica, dove ingiusta non e’ la gerarchia, ma pensare di risolvere le situazioni di conflitto applicando il principio della scala gerarchica, per cui chi e’ piu’ in basso deve sempre cedere.

Accade cosi’ che in teoria viviamo in una societa’ di uguali dove nessuno oserebbe dire che non e’ giusto rispettare tutte le persone, in pratica viviamo in una societa’ di subordinati dove il riconoscimento dell’altro dipende dal grado gerarchico o dalla condizione sociale.

Sul riconoscimento dell’altro insiste anche Jean-Luc Nancy, nelle sue lezioni ai bambini, dove tenta di spiegare che il giusto e l’ingiusto si decidono sempre nel rapporto con gli altri, per cui farsi giustizia da se’ non ha alcun senso. Cosi’ come non ha senso la "legge del piu’ forte" o, come si suol dire, la "legge della giungla", perche’ nella giungla non troviamo leggi, ma rapporti di forza.

La giustizia, spiega Nancy, esige che si rispetti ad un tempo l’uguaglianza e la singolarita’, per cui sara’ bene che tagliando una torta si facciano fette uguali, ma se uno e’ diabetico sara’ giusto dargli una fetta piu’ piccola, e una piu’ grossa a chi, per le sue condizioni economiche, non ha molte occasioni di assaggiare una torta.

Questa co-presenza di uguaglianza e di singolarita’ nel concetto di giustizia comporta che si conosca davvero l’altro, che lo si prenda in considerazione per la sua specificita’, raggiungendo quel vertice della giustizia che non e’ nella generalita’ della legge, ma, come diceva Aristotele, nell’equita’ che adatta l’universalita’ della legge a caso per caso, dando a ciascuno cio’ che e’ veramente dovuto.

Per questo esistono i "diritti dei bambini" che sono diversi dai diritti degli adulti, e per la stessa ragione esistono i "diritti delle donne" dopo secoli di misconoscimento. Ma oltre ai bambini e alle donne esistono gli immigrati che giungono da noi con altri usi e costumi, esistono i diversi da noi per razza, per religione, per scelte sessuali, per forme di convivenza, e ingiusta sarebbe la legge che li discrimina. Mentre abbiamo chiamato i "Giusti" coloro che, nella seconda guerra mondiale, a dispetto della legge e delle loro affinita’ naturali, pur non essendo ebrei e non avendo alcun legame di religione o di comunita’ con gli ebrei, hanno salvato la loro vita a rischio della propria.

Siccome la giustizia prevede l’uguaglianza di persone che sono diverse e singolari, la giustizia e’ un compito infinito. E pensare che non siamo mai abbastanza giusti e’ gia’ un modo per cominciare ad esserlo. "Questo pensiero - conclude Nancy rivolto ai bambini - dovete pensarlo da soli, perche’ nessuno verra’ mai a dirvi che cos’e’ la giustizia assoluta. Se qualcuno potesse dirlo, forse non dovremmo neanche essere giusti o ingiusti, dovremmo solo applicare meccanicamente quella che sarebbe una legge".

* Fonte: NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 437 del 26 aprile 2008 (ripresa parziale).


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