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L’ Amore (Charitas) non è lo zimbello del tempo e di Mammona (Caritas)!!!

OBIEZIONE DI COSCIENZA !!! L’OBBEDIENZA NON E’ PIU’ UNA VIRTU’. LETTERA AI CAPPELLANI MILITARI. LA LEZIONE DI DON LORENZO MILANI - a cura di Federico La Sala

lunedì 19 marzo 2007 di Maria Paola Falchinelli
[...] Non potete non pronunciarvi sulla storia di ieri se volete essere, come dovete essere, le guide morali dei nostri soldati. Oltre a tutto la Patria, cioe’ noi, vi paghiamo o vi abbiamo pagato anche per questo. E se manteniamo a caro prezzo (1.000 miliardi l’anno) l’esercito, e’ solo perche’ difenda colla Patria gli alti valori che questo concetto contiene: la sovranita’
popolare, la liberta’, la giustizia. E allora (esperienza della storia alla
mano) urgeva piu’ che educaste i nostri (...)

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> OBIEZIONE DI COSCIENZA PER LA DIFESA DELLA VITA!!! LETTERA AI CAPPELLANI MILITARI. LA LEZIONE DI DON LORENZO MILANI - a cura di pfls

lunedì 16 aprile 2007

la storia

Così anche il grande artista imparò a dire «I care» *

Adesso forse lo sappiamo, perché il Priore non la pubblicò. Perché la prefazione, che l’architetto Giovanni Michelucci - una celebrità - si era lasciato convincere a vergare per quell’inusuale scritto collettivo della sconosciuta Scuola di Barbiana, era troppo difficile, troppo lunga e - con la Lettera a una professoressa - c’entrava poco. Fu così che, nel maggio 1967, il libello che sarebbe diventato celeberrimo uscì alle stampe senza l’accompagnamento prestigioso di un intellettuale e artista tra i più noti d’Italia. Oggi quella prefazione che sembrava introvabile (ne aveva ricordato l’esistenza nel 2001 Giorgio Pecorini, appassionato scrittore di cose milaniane, in una sua silloge) è saltata fuori, presumibilmente dagli archivi di Michele Gesualdi: il capostipite dei «ragazzi di Barbiana». E viene proposta in prima assoluta in Lettera a una professoressa quarant’anni dopo, interessante volume curato dalla Fondazione Don Lorenzo Milani e appena stampato dalla storica Libreria Editrice Fiorentina. «Mi ero fatto fare una prefazione dall’architetto Michelucci (stazione di Firenze, chiesa dell’Autostrada, ecc.) - scriveva a un corrispondente il Priore, già molto malato, il 7 aprile 1967 - che è come me un maniaco dell’arte anonima e del lavoro d’équipe. Parlava p. es. dei maestri comacini, dei mosaicisti cristiani, delle cattedrali gotiche, delle ferrovie e dell’Autostrada (ponti ecc.), tutte opere di scuola e non di autore... Ora la prefazione di Michelucci è risultata troppo difficile per i lettori che noi vogliamo e così ho chiesto a quel sant’uomo se potevo non metterla». Ma non si trattava solo di quello. Michelucci aveva giustamente giocato l’intervento sulle possibili analogie tra il suo lavoro, e il modo in cui egli lo concepiva, e quello che aveva visto fare a Barbiana, dal punto di vista del metodo: ovvero l’idea di opera collettiva e di comunicazione popolare, comprensibile a tutti. Ma, al di là di alcune somiglianze esterne, la prospettiva dell’architetto era diversa da quella con cui lavoravano i ragazzi di Barbiana; caso mai si apparentava a quella del maestro ed (ex) borghese don Milani.

L’ARCHITETTO TROPPO INTELLETTUALE?

Michelucci appare infatti come un intellettuale, la cui ambizione consiste nel colmare «l’abisso esistente fra la diffusa ignoranza della popolazione e la preparazione culturale degli specialisti», mentre i ragazzi che frequentano la scuola toscana sono popolani alla faticosa conquista della «parola», la più semplice ed efficace possibile, che consenta loro una comunicazione non più succube o servile; lui insomma si china - con pregevole intento sociale - dall’alto in basso, loro invece rampano con gli scarponi nel fango dei campi verso l’alto («La scuola sarà sempre meglio della merda», secondo un parere colto dal vivo da un ragazzo contadino e reso immortale nella Lettera). Non solo; anche il modello di lavoro comune è differente. Michelucci spiega il suo come collaborazione paritaria in un «cantiere» dove ogni «impegno individuale» creativo può «arricchire l’opera del maggior numero di esperienze e di qualità» (anche se l’architetto sostiene di voler «riconquistare un linguaggio "anonimo" nel quale non dominino le qualità di un singolo»), mentre a Barbiana lo schema della cosiddetta «scrittura collettiva» prevede che l’apporto individuale venga del tutto smontato, quasi ridotto ai suoi fattori primi, per essere poi ricostituito in una prosa dove le caratteristiche personali sono assolutamente indistinguibili. L’identico obiettivo, la conquista dell’uguaglianza, passa dunque attraverso due tattiche diverse. Una differenza che lo stesso Michelucci sembra cogliere, quando nella mancata prefazione dichiara utile per «una efficace colaborazione» la figura di un «maestro» che pare pennellata sul modo di far scuola di don Milani: cioè uno «che abbia più esperienza degli altri, che proponga l’argomento da svolgere e ne indichi il modo, oppure che sappia cogliere l’argomento stesso dallo sviluppo delle discussioni del gruppo»; e tuttavia questo non sembra il modello preferito dall’architetto fiorentino.

UNO DEI POCHI PRESENTI AI FUNERALI

Si capisce comunque perché egli, salito a Barbiana alla fine del 1965 quando era già ultrasettantenne, e il Priore dovettero ugualmente intendersi bene, come testimoniò lo stesso Michelucci in una rievocazione di quell’incontro: «Era nato un legame indissolubile»; anzi, don Milani inserì il nome del progettista nella ristrettissima rosa delle persone ammesse al suo letto negli ultimi giorni, e da parte sua il professore fu tra i pochi intimi a partecipare ai funerali del sacerdote a fine giugno 1967.

Ambedue - anche don Milani da giovane aveva studiato da artista, precisamente da pittore - avevano abbandonato l’idea di un’estetica elitaria, non per demagogia ma per profonda convinzione filosofica e cristiana (sintetizza Michelucci: «Voi, scrivendo, non pensate ad ottenere un effetto estetico, un’opera d’arte; ma l’opera d’arte verrà se in quel che avete pensato e scritto vi sono elementi di tale verità umana e poetica da generarla»); ambedue erano posseduti dal desiderio di rendere accessibile a tutti la cultura attraverso la conquista del linguaggio: «Facendo capire alle popolazioni che l’opera architettonica non è privilegio di una categoria culturale - scrive ancora l’architetto -... si otterrebbe che si interesserebbero ad ogni muro... essendosi rese conto che quel muro riguarda direttamente la loro vita, la loro serenità e il loro benessere». Don Milani aveva detto lo stesso con uno slogan, appeso alla parete della sua scuola: I care, «mi riguarda».

* Avvenire, 15.04.2007


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