IV. «ALLAH NON È MICA OBBLIGATO»: I BAMBINI-SOLDATO
Di fronte alle carovane del Rwanda erompe una parola. Altre volte non esce parola alcuna. Nel 2005, in un Congresso per la pace, Melquisedek Sikuli, vescovo di Butembo (Repubblica Democratica del Congo), pronunciò una relazione dai toni forti. Enumerò i gravissimi problemi del suo Paese, la miseria quotidiana e l’ingiustizia strutturale. Approfondì le conseguenze terribili delle guerre nella regione: profughi, donne violentate, villaggi saccheggiati. Ricordò il colonialismo che continua a essere responsabile dell’invio di armi. Alla fine, interrompendo la litania delle denunce, terminò con «il dramma dei bambini-soldato»: «Quando non si ha nessuno al mondo né padre, né madre, né sorella, e se si è ancora un bambino, in un Paese rovinato e barbaro, dove tutti si ammazzano, che si fa? Si comincia a essere bambino-soldato per mangiare e ammazzare: è tutto ciò che ci rimane».
Di fronte a tale dramma resta solamente il silenzio. Parlare di “santità primordiale” suonerebbe blasfemo. Ma può anche accadere che di fronte ai bambini-soldato ci sentiamo sulla soglia di uno spazio sacro. Il vescovo Sikuli ha oltrepassato la soglia. E ha lasciato parlare Dio: Allah non è mica obbligato, disse, utilizzando il titolo di un libro di Ahmadou Kourouma.
Non vi è un concetto adeguato che lo racchiuda né parola adatta per parlare di questi bambini-soldato. Il dramma è evidente. Si possono conoscere le cause e si possono condannare i colpevoli. Ma sulla realtà in se stessa non si sa che dire. È un caso limite della tragedia dei poveri, del loro “voler vivere”.
Tuttavia, possiamo fare una riflessione teologale. Non possiamo dire una parola sull’enigma-mistero dei bambini-soldato, ma ci rimane sempre, come ultima riserva, il mettere mano al mistero di Dio. Così ha fatto il vescovo Sikuli: «Dio non è contento». Questo lo possono fare i credenti. I non credenti potranno mettere mano ad altre cose per loro ultime e formularlo con altre parole. Ma ciò che è fondamentale può aiutare tutti: «Qualcuno, Qualcosa, non è contento».
E possiamo fare anche un’altra riflessione sulla salvezza. Forse solo questa. In un mondo che vive distante dalle molte afriche, senza empatia, per la maggior parte indifferente e ignaro delle tragedie umane, che reagisce con ritardo e senza una volontà adeguata all’enormità di queste tragedie, forse i bambini-soldato potrebbero fare in modo che noi superiamo la banalizzazione dell’esistenza e trabocchiamo invece di compassione e giustizia.
Di fronte ad alcune realtà di importanza decisiva possono sorgere parole che vanno oltre le convenzioni, parole paradossali, scioccanti. Sono parole insostituibili e non intercambiabili. Esempio risaputo è il passo di Dostoevskij ne L’idiota: «La bellezza salverà il mondo». Oppure, il tema di un libro di J.I. Gonzàlez Faus: «Vicari di Cristo? I poveri».Anche in America Latina si dice questo; tipo di parole. «Tutto è relativo, meno Dio e la fame», sentenzia dom Pedro Casaldáliga. Monsignor Romero un mucchio di volte disse frasi lapidarie: «Questo è l’impero dell’inferno»; «Su queste rovine brillerà la gloria del Signore», «La gloria di Dio è il povero che vive». Ignacio Ellacuría ha ripetuto sino alla fine della sua vita che «solo la civiltà della povertà potrà superare questa civiltà della ricchezza che ha prodotto una società gravemente malata».
Sulla scia di questi visionari, e con molta modestia, abbiamo scritto che «fuori dai poveri non c’è salvezza». In quest’articolo sosteniamo di riconoscere con gratitudine «la santità primordiale» dei poveri, dei semplici e delle vittime.
[Jon Sobrino]