Il popolo sofferente e Dio
di Jon Sobrino *
In occasione della celebrazione del XXXIV anniversario dell’assassinio-martirio di monsignor Romero, vogliamo offrire queste riflessioni sulle sue ultime omelie.
Il fine è ciò che dà senso al processo, diceva un grande filosofo. Nel caso di Romero è assolutamente vero: le sue due ultime omelie non furono le “ultime” perché non ne seguirono altre. Furono “ultime” perché in esse, e nei giorni in cui sono state pronunciate, emerse ciò che più profondamente aveva caratterizzato gli ultimi tre anni di Monsignore. E furono “ultime” perché le pronunciò in cattedrale insieme al suo popolo e nell’hospitalito insieme ai malati terminali. Non si può andare oltre il “popolo” e i “poveri”.
Mi soffermerò (...) sulle ultime due omelie del 23 e 24 marzo 1980, richiamandomi anche ad altre dei primi mesi del 1980. Citerò alcuni paragrafi per intero, che dicono di più di tante parole.
L’ULTIMA OMELIA NELL’HOSPITALITO
Il 24 marzo del 1980 monsignor Romero pronunciò la sua ultima omelia nella cappella dell’Ospedale della Divina Provvidenza per i malati di cancro. Nell’hospitalito preparava, di sabato, le sue omelie domenicali sulla base di libri di teologia biblica, di rapporti sulle violazioni dei diritti umani e di tutto ciò che avesse a che fare con la povertà del popolo. E nell’hospitalito, come Gesù sulle rive del lago o nell’orto, pregava il Dio che vede nel segreto.
Il Monsignore circondato da moltitudini, che provava una gioia profonda nello stare con il suo popolo in cattedrale e nei villaggi, quando stava nell’hospitalito era solo e senza sicurezza. Di sera, restava e viveva con il suo Dio.
Le persone più vicine - a pochi metri dalla sua camera - erano donne malate terminali di cancro, tutte povere, e in più tutte prese dalla paura di non sapere cosa ne sarebbe stato dei loro figli. Quelle donne erano il simbolo di molte altre madri di figli morti, scomparsi, torturati, e di un intero popolo sofferente.
Il 24 marzo, alle cinque del pomeriggio, mons. Romero celebrò una messa di anniversario per donna Sarita, nonostante gli avessero consigliato di non farlo perché la messa era stata annunciata sui giornali e poteva quindi rappresentare un segnale per chi volesse ucciderlo. Monsignore insistette per celebrarla e terminò l’omelia con queste parole: «Che questo corpo immolato e questo sangue versato per gli esseri umani ci alimentino per offrire anche il nostro corpo e il nostro sangue alla sofferenza e al dolore, come Cristo, non per noi stessi, ma per dare segni di giustizia e di pace al nostro popolo. Uniamoci allora intimamente nella fede e nella speranza in questo momento di preghiera per donna Sarita e per noi».
Fu in quel momento che echeggiò lo sparo. Il killer pose un amen pasquale alla sua parola. Si era compiuta la sua identificazione con Cristo, la sua offerta a Dio e la sua offerta al suo popolo.
LE ULTIME OMELIE IN CATTEDRALE
Nell’hospitalito si incontravano le radici di Monsignore. Nelle omelie in cattedrale si mostravano i suoi frutti. E non facevano che aumentare la durezza della denuncia, l’esigenza di conversione e il bisogno di aggrapparsi alla speranza. Mons. Romero fece uso del Magistero della Chiesa e fece un uso ancora maggiore del Vangelo di Gesù, portando sempre più nelle omelie i clamori del popolo, che salivano verso il cielo ogni volta più tumultuosi. Non c’è da sorprendersi che le omelie durassero circa un’ora e mezza o anche di più. Ricordiamo i concetti fondamentali.
Come preparava le omelie. Nella sua ultima omelia in cattedrale, Monsignore riferì come avveniva la preparazione e quale fosse la fonte da cui traeva quello che avrebbe denunciato e annunciato: «Chiedo al Signore durante la settimana, mentre vado raccogliendo il clamore del popolo e il dolore per tanto crimine, l’ignominia di tanta violenza, che mi dia la parola opportuna per consolare, per denunciare, per esortare al pentimento e, per quanto continui ad essere una voce che grida nel deserto, so che la Chiesa sta cercando di compiere la sua missione».
L’accusa di “mettersi in politica”. Nei confronti della maggior parte dei suoi fratelli vescovi, Monsignore visse una forte tensione, per varie ragioni. Un motivo importante era dato dalla loro insistenza sul fatto che la Chiesa non dovesse occuparsi di politica. Monsignore sapeva bene che il problema era un altro: il problema era non seguire una politica di destra. In questo senso, in maniera pubblica e consapevole, monsignor Romero, nelle sue omelie, “si mise in politica”. Lo fece con estrema chiarezza quando analizzò i tre progetti nati dopo il colpo di Stato del 15 ottobre 1979. Condannò il progetto dell’oligarchia, in cui non vedeva nulla di buono. Al progetto della democrazia cristiana richiese il controllo della repressione o l’uscita dal governo. Maggiore speranza ripose nel progetto popolare, soprattutto se le forze popolari si fossero unite e non avessero assolutizzato la loro ideologia. Ma le condannò ogni qualvolta commettevano ingiuste azioni violente.
Nell’omelia del 23 marzo Romero si difese: «Lo so che molti si scandalizzano per questa parola e vogliono accusarmi di aver abbandonato la predicazione del Vangelo per mettermi in politica, ma io non accetto questa accusa, anzi faccio uno sforzo perché tutto ciò che il Concilio Vaticano II e gli incontri di Medellín e di Puebla hanno voluto promuovere non resti solamente sulla carta come oggetto di studio teorico, ma venga vissuto e tradotto in questa realtà conflittuale in maniera da predicare come si deve il Vangelo per il nostro popolo».
La verità senza compromessi: la denuncia. Monsignore disse sempre la verità. Non occultò nulla. Né cadde nella tentazione di dissimularla appellandosi al politicamente corretto. In quella situazione, la verità risuonò con più forza nella denuncia. E con parole piene di onestà, parole tipiche di Monsignore, spiegò che bisognava cominciare da casa propria. «Chiunque denunci deve accettare di venire a sua volta denunciato e, se la Chiesa denuncia le ingiustizie, deve lei stessa essere disposta ad ascoltare le denunce nei suoi confronti e obbligata a convertirsi... I poveri sono il grido costante che denuncia non solo l’ingiustizia sociale, ma anche la scarsa generosità della nostra Chiesa» (Omelia del 17 febbraio 1980).
Ricordiamo alcune denunce di mons. Romero, in forza della credibilità che emerge da queste parole, sulla base di una verità senza compromessi. Le pronunciava con un’immensa tenerezza nei confronti delle vittime, e senza odio - e con un difficile amore - per i loro carnefici.
Monsignore attribuì all’oligarchia la responsabilità ultima dell’oppressione e della repressione nel Paese, come pure della guerra incombente. «Rivolgo un appello all’oligarchia: non idolatrate le vostre ricchezze, non le conservate lasciando che altri muoiano di fame» (Omelia del 6 gennaio 1980).
Denunciò le forze armate, i corpi di sicurezza, gli squadroni della morte e la Giunta di governo come responsabili della repressione: «La Giunta di governo deve ordinare, in maniera efficace, la cessazione immediata di tanta repressione indiscriminata, perché anche la Giunta è responsabile del sangue e del dolore di tanta gente. Le Forze Armate, soprattutto i corpi di sicurezza, devono abbandonare questo accanimento e questo odio nei confronti del popolo; devono dimostrare con i fatti che sono a favore delle maggioranze e che il processo avviato è di carattere popolare. Essendo voi, o molti di voi, di estrazione popolare, l’esercito dovrebbe essere al servizio del popolo. Non distruggete il popolo, non siate voi i promotori di maggiori e più dolorose esplosioni di violenza a cui un popolo represso potrebbe giustamente rispondere» (Omelia del 20 gennaio 1980).
«Come pastore, sento di avere un dovere nei confronti delle organizzazioni politiche popolari», diceva Monsignore. Ma egli le mise ripetutamente in guardia rispetto ai pericoli che correvano e, quando fu necessario, le denunciò. «A queste organizzazioni popolari e, soprattutto, a quelle di carattere militare e guerrigliero, di qualunque segno esse siano, chiedo che cessino anch’esse questi atti di violenza e di terrorismo» (Omelia del 20 gennaio 1980).
«Cari fratelli, le rivendicazioni del popolo sono assolutamente giuste e bisogna continuare a promuovere la giustizia sociale e l’amore per i poveri, ma per questo, se veramente amiamo il popolo e cerchiamo di difenderlo, non possiamo privarlo di ciò che è più prezioso: la sua fede in Dio, il suo amore per Gesù Cristo, i suoi sentimenti cristiani» (Omelia del 10 febbraio 1980).
«È urgente che le organizzazioni popolari maturino per poter compiere la loro missione di arrivare a essere interpreti della volontà del popolo» (Omelia del 24 febbraio 1980). «Non dobbiamo tacere i peccati, neanche quelli della sinistra, ma essi sono sproporzionatamente minori rispetto alla violenza repressiva» (Omelia del 9 marzo 1980).
Una nuova Chiesa di poveri e perseguitati. È questa che costruì mons. Romero. «Per il fatto di difendere il povero, la Chiesa è entrata in un grave conflitto con i potenti delle oligarchie economiche» (Discorso di Lovanio, 2 febbraio 1980). Prima ancora aveva detto con impressionante eloquenza: «Sono contento, fratelli, che la nostra Chiesa sia perseguitata proprio per la sua opzione preferenziale per i poveri» (Omelia del 15 luglio 1979). «Sarebbe triste se, in un Paese in cui si sta uccidendo in maniera tanto orribile, non annoverassimo tra le vittime anche i sacerdoti. Essi sono la testimonianza di una Chiesa incarnata nei problemi del popolo» (Omelia del 24 giugno 1979).
La dignità delle vittime. Praticamente all’inizio del suo ministero, il 19 giugno 1977, monsignor Romero consolò i contadini di Aguilares con queste parole inaudite: «Voi siete il Divino Trafitto», «il Cristo crocifisso». E poco prima di venire lui stesso assassinato, le tornò a ripetere, con ancora più vigore: «Ogni essere umano è figlio di Dio e ogni essere umano ucciso è anche lui un Cristo sacrificato che la Chiesa venera» (Omelia del 2 marzo 1980). E di questo popolo crocifisso, in uno slancio evangelico, Monsignore disse: «Con questo popolo non costa nulla essere un buon pastore» (Omelia del 18 novembre 1979).
Non conosciamo molti vescovi che parlano così. Di certo, non nelle Chiese del mondo del benessere, e pure nel cosiddetto Terzo Mondo sono andati diminuendo. Grazie a Dio, don Pedro Casaldáliga resta imperturbabile. E ancora risuona l’eco di Christophe Munzihirwa, arcivescovo di Bukavu, assassinato nel 1996, che difese centinaia di migliaia di rifugiati e denunciò, in maniera esplicita, le potenze straniere.
LA DENUNCIA FINALE: «CESSI LA REPRESSIONE»
Solo nel gennaio e nel febbraio del 1980, prima ancora che scoppiasse la guerra, c’erano stati più di 600 morti. Il 16 marzo Romero dichiarò: «Nulla m’importa tanto quanto la vita umana». E una settimana dopo, il 23 marzo, in un lungo paragrafo, meditato e ben pensato, pronunciò queste parole memorabili: «Vorrei fare un appello in maniera speciale agli uomini dell’esercito e, concretamente, alla base della Guardia Nazionale, della polizia e delle caserme. Fratelli, siete del nostro stesso popolo, uccidete i vostri stessi fratelli contadini, e di fronte all’ordine di uccidere dato da un essere umano deve prevalere la legge di Dio che dice: “Non uccidere”. Nessun soldato è obbligato a obbedire a un ordine contro la legge di Dio. Una legge immorale nessuno è tenuto a rispettarla. È ormai tempo che voi recuperiate la vostra coscienza e che obbediate prima alla vostra coscienza che all’ordine del peccato. La Chiesa, impegnata nella difesa dei diritti di Dio, della legge di Dio, della dignità umana, della persona, non può restare in silenzio di fronte a tanto abominio. Vogliamo che il governo prenda sul serio il fatto che a nulla servono le riforme se sono così macchiate di sangue. In nome di Dio, allora, e in nome di questo popolo sofferente, i cui lamenti salgono fino al cielo ogni giorno più tumultuosi, vi supplico, vi prego, vi ordino in nome di Dio: cessi la repressione!».
«In nome di Dio e in nome di questo popolo sofferente»: sono parole che non si erano mai sentite prima e che non si sarebbero più sentite dopo. Il fragoroso applauso dei fedeli, mai ascoltato prima e mai più ripetuto in seguito, fu l’amen del popolo.
LA SPERANZA FINALE: “SE IL CHICCO DI GRANO NON MUORE...”
Monsignor Romero affrontò consapevolmente l’idea di una morte violenta. Durante il suo ultimo ritiro, iniziato il 25 febbraio, scrisse: «Mi costa accettare una morte violenta, che in queste circostanze è molto probabile». E nella sua ultima omelia all’hospitalito accettò la morte. «Chi vuole allontanare da sé il pericolo, perderà la sua vita; al contrario, chi si offre, per amore di Cristo, al servizio degli altri, vivrà come il chicco di grano che muore, ma solo apparentemente muore. Se non morisse, rimarrebbe solo» (Omelia del 24 marzo 1980).
Pochi giorni prima, disse a un giornalista queste parole memorabili (alcuni si chiedono se il testo sia di Romero. Non sono in grado di rispondere. Posso solo dire che per le parole, i concetti e il pathos, il testo riflette splendidamente il monsignor Romero degli ultimi giorni): «Sono stato spesso minacciato di morte. Devo dirle che, come cristiano, non credo nella morte senza risurrezione. Se mi uccidono, risorgerò nel popolo salvadoregno. Lo dico senza nessuna presunzione, con la più grande umiltà. Come pastore sono obbligato per mandato divino a dare la vita per quelli che amo, che sono tutti i salvadoregni, anche per coloro che potrebbero assassinarmi... Lei può dire, se arrivassero a uccidermi, che perdono e benedico coloro che lo faranno» (Intervista a El Diario de Caracas, marzo 1980).
* Adista Documenti n. 15 del 19/04/2014