Lungo il Novecento: banalità del male e profondità del bene *
di Goffredo Fofi (Avvenire, 31.03.2007)
Subito dopo la seconda guerra mondiale, non sembra che siano stati molti i filosofi, romanzieri, teologi che si sono messi a riflettere a fondo sulla "questione del male", di cui si erano avuto episodi così massicci e tremendi: per gli esempi più estremi di tutti, Auschwitz e Hiroshima. Ricordo però certi testi di Jaspers, per esempio La bomba atomica e il destino dell’uomo, o di Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, o di Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, o di Albert Camus, La peste, e certe memorie come quella di Primo Levi Se questo è un uomo, e le poesie di Paul Celan, e certi pamphlet filosofici che erano come invocazioni a intervenire, come Essere o non essere di Anders. Questi libri non incisero molto, sul momento, per il motivo che, in anni di ricostruzione, si aveva fiducia nonostante tutto.
Negli ultimi tempi invece coloro che si interrogano sulla presenza del male nella storia e nell’uomo sono sempre più numerosi, e possiamo spiegarcelo pensando a un fattore nuovo e decisivo come la coscienza della possibile fine dell’uomo e delle civiltà che egli ha edificato. Non sono né un poeta né un filosofo e tanto meno un teologo (e forse è tra i teologi che l’argomento è stato affrontato con più rigore), ma posso ricordare alcune opere che, dopo quelle citate, mi hanno davvero sconvolto, come alcuni film, di Bresson soprattutto, o Sacrificio di Tarkovskij, o certi film di David Lynch, eccetera.
E segnalare alcune libri recentissimi. Per esempio il complesso e ampio saggio di François Fejto Dio, l’uomo e il diavolo, che ha per sottotitolo Meditazioni sul male nel corso della storia (traduzione di Andrea Fezzi Price, prefazione di Maurizio Serra, Sellerio, pagine 242, euro 16,00) che critica l’insistenza sul diavolo come un modo che ha l’uomo di scaricarsi dalle sue responsabilità. Un saggio provocatorio, fatto per essere discusso.
Più documentario e in qualche modo circoscritto è il saggio storico di Charles Liblau su I Kapo di Auschwitz (a cura di Frediano Sessi, traduzione di Camilla Testi, con una bella prefazione di Enzo Traverso, Einaudi, pagine 156, euro 10,00), che mi ha ricordato il bellissimo film di Andrzej Monk La passeggera, uno dei primi ad approfondire questa figura così inquietante. E segnalo infine, ma si potrebbe continuare, un piccolo libricino di Nottetempo, la lettera di Gershom Scholem e la risposta della Arendt (Due lettere sulla banalità del male, pagine 40, euro 3,00).
Alle critiche di Scholem la Arendt risponde che è a partire dal suo saggio sul processo Eichmann che si è cominciato a parlare di «banalità del male». La sua autodifesa è convincente in specie quando dice che «oggi, il mio parere è che il male non sia mai radicale, che sia solo estremo, e che non possieda né profondità né dimensione demoniaca. Esso può invadere tutto e devastare il mondo intero precisamente perché si propaga come un fungo... È qui la sua banalità». E poi aggiunge: «Solo il bene ha profondità e può essere radicale». C’è ancora di che discutere, oggi più che mai.