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PIANETA TERRA. AFRICA...

AXUM: L’OBELISCO!!! Le autorità etiopiche: "L’Italia si era impegnata a rimetterlo al suo posto"!!! - a cura di pfls

sabato 31 marzo 2007 di Maria Paola Falchinelli
[...] Per ora di pronto c’è solo il buco nel quale dovrebbero essere sistemate le fondamenta, un lavoro difficile perché c’è anche da assicurarsi che le vibrazioni non danneggino le altre stele del parco. Era stato tutto più facile per Mussolini, che non si era posto problemi nel frantumare la base dell’obelisco. Quella, anche con i soldi e la tecnica italiana, non si recupererà più, sarà rifatta di cemento armato. Si spera entro il 2008 [...] (...)

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> AXUM: L’OBELISCO!!! ----- Dopo la terribile guerra con l’Eritrea, lo Stato africano prova a voltare pagina con le fastose celebrazioni del Millennio etiopico, secondo il calendario giuliano lì in voga. Per coronare i festeggiamenti il 4 settembre verrà ricollocato l’obelisco nel punto in cui gli Italiani lo prelevarono nel 1937 (da Axum Emanuele Fantini).

lunedì 1 settembre 2008

REPORTAGE Dopo la terribile guerra con l’Eritrea, lo Stato africano prova a voltare pagina con le fastose celebrazioni del Millennio etiopico, secondo il calendario giuliano lì in voga. Per coronare i festeggiamenti il 4 settembre verrà ricollocato l’obelisco nel punto in cui gli Italiani lo prelevarono nel 1937

-  Etiopia
-  In un Paese ferito torna la stele di Axum

Nelle intenzioni del regime tuttora al potere è iniziato il Rinascimento, ma al di là dei toni retorici la realtà è un’altra: i grandi investimenti statali e l’aumento pauroso del prezzo del petrolio hanno fatto impennare l’inflazione. Mentre la siccità recente ha causato quasi cinque milioni di denutriti. E lungo i confini eritrei c’è ancora tensione: cresce il rischio di un nuovo conflitto

da Axum Emanuele Fantini (Avvenire, 31.08.2008)

Nel suo piccolo di antica capitale ormai decaduta, anche Axum è investita del boom edilizio che negli ultimi anni sta trasformando il volto dei centri urbani in Etiopia. I tukul di pietra tipici della regione settentrionale del Tigrè sono ormai sovrastati da palazzacci di vetro e cemento, cotti dal sole ed impanati dalla polvere, a cui non manca mai un cornicione o un fregio su balconi e finestre ispirati alla sagoma del famoso obelisco. Ancora per pochi giorni la stele sarà imprigionata nella gabbia d’acciaio alta trenta metri utilizzata per assemblare i tre tronconi in cui era stata sezionata per il trasporto dall’Italia. Il ricollocamento nello stesso sito da cui gli Italiani la prelevarono nel 1937, come bottino della vittoria sulle truppe del Negus, sarà festeggiato a giorni, il prossimo 4 settembre, ciliegina sulla torta delle celebrazioni del Millennio etiopico.

Secondo il calendario giuliano in vigore nel paese, l’anno 2000 è cominciato infatti l’11 settembre scorso e nelle intenzioni del governo avrebbe dovuto sancire l’inizio del «Rinascimento dell’Etiopia». Ma la retorica si è scontrata con la dura realtà dei fatti: un massiccio programma di investimenti pubblici e l’aumento del prezzo del petrolio hanno fatto schizzare l’inflazione al 40%, mentre la siccità della scorsa primavera ha causato 4.6 milioni di malnutriti la cui sopravvivenza dipenderà dagli aiuti alimentari, da aggiungersi ai 7 milioni cronicamente assistiti dai programmi di «food for work».

Senza dimenticare la ferita ancora aperta di un’altra ricorrenza, quella del conflitto con l’Eritrea, iniziato dieci anni fa e conclusosi nel 2000 con gli accordi di pace di Algeri e almeno 70 mila vittime. Definita «una guerra tra fratelli per un pugno di sassi», in quanto combattuta su un arido altopiano da due governi espressione di movimenti di liberazione alleati per 14 anni di lotta armata contro la dittatura militare del Derg, quando ancora l’Eritrea era una provincia dell’Etiopia. Ad oggi le relazioni diplomatiche tra Addis Abeba ed Asmara non sono riprese, a causa del mancato accordo sul confine. Il 31 luglio la missione di peacekeeping dell’Onu incaricata di monitorare la zona cuscinetto tra i due Paesi ha chiuso i battenti, risollevando i timori per una ripresa delle ostilità. Ma di fatto negli ultimi anni era già stata ridotta all’impotenza dalle restrizioni ai movimenti e dai razionamenti di carburante imposti dal governo eritreo e dal rifiuto etiope di accettare il confine stabilito nel 2002 dalla commissione internazionale prevista dagli accordi di pace, col pretesto che il villaggio di Badme, una delle scintille che aveva infuocato il conflitto, veniva assegnato all’Eritrea.

Più che un nuovo scontro, ai governi di Asmara ed Addis Abeba sembra tuttavia far comodo l’attuale situazione di stallo e la guerra per procura combattuta in Somalia, che, alimentando periodicamente lo spauracchio del nemico, permettono di mantenere in casa propria un continuo stato di allerta e repressione di bassa intensità. La linea di frontiera lungo cui si è combattuto corre a poche decine di chilometri dai principali centri del Tigrè: Axum, Adua, Macallè. Sulla la strada che li collega si incontrano di frequente colonne di carri armati, mentre i soldati sono impegnati nelle esercitazioni a due passi dalle abitazioni civili. Ma la popolazione sembra non farci quasi più caso.

« Siamo cresciuti con la guerra - racconta Zeray, maestro elementare, mentre il rombo di un caccia copre e conferma le sue parole - io ho quasi quarant’anni, ma di vera pace ne ho vissuti soltanto sette». La presenza militare legata ai conflitti attuali, ma soprattutto la memoria e l’influenza di quelli passati sono parte integrante dell’identità della regione. Nonostante siano passati ormai 17 anni, i racconti della gente, così come i documenti ufficiali del governo iniziano invariabilmente con un tributo alla lotta armata con cui il Fronte Popolare di Liberazione del Tigrè (Tplf) ha sconfitto l’esercito del Derg, all’epoca il più forte e numeroso di tutta l’Africa grazie ai finanziamenti dell’Unione Sovietica. Nel simbolo del Tplf, oggi al potere sia a livello regionale che nazionale, fucile e martello si incrociano davanti alla sagoma dell’obelisco. Il volto di uno dei suoi dirigenti, barba e basco alla Che Guevara, morto di recente di Aids, è diventato l’icona delle campagne di prevenzione contro il virus. Chi ricopre ruoli di responsabilità nel partito e nella pubblica amministrazione ha quasi sempre partecipato anche alla lotta armata. «Quelli come me che si sono arruolati non ancora ventenni, sono cresciuti, si sono sposati e hanno fatto figli durante la guerriglia, nascondendosi nelle caverne dove erano allestite stazioni radio, scuole e ospedali per militari e civili. A me praticarono addirittura il taglio cesareo» racconta Gennet, oggi a capo di un ufficio provinciale, dopo aver conseguito un master a Londra.

«Sono in molti quelli che, finita la guerra, hanno completato gli studi specializzandosi all’estero o con corsi a distanza, come lo stesso primo ministro Meles». Ancor più evidente è l’eredità materiale della lotta armata: l’organizzazione umanitaria Rest (Relief Society of Tigray), creata per trasferire dal Sudan gli aiuti alle zone liberate durante le carestie degli anni ottanta, è diventata una delle più grandi ong africane.

Oggi lavora soprattutto nello sviluppo agricolo, nella gestione dell’acqua e dei suoli, con strutture, risorse e personale pari, se non superiori, a quelle del governo regionale. Il settore industriale, ancora allo stato embrionale, è invece dominato dalle imprese del gruppo Effort, la fondazione creata per amministrare risorse e capitali accumulati dal Tplf durante la lotta armata. «Il loro giro d’affari supera i 300 milioni di euro ma il riserbo con cui la Fondazione viene gestita rende difficile ottenere informazioni dettagliate», commenta un economista della Banca Mondiale. «La politica ufficiale è quella di investire in settori poco attraenti per i capitali privati, ma di fatto queste imprese rappresentano un ostacolo alla libera concorrenza visto che i loro dirigenti siedono anche nel comitato centrale del partito al governo e godono di canali privilegiati per accedere a crediti, informazioni e favori». Anche banche, istituzioni di microcredito, radio e giornali sono «affiliati» al partito; impossibile per degli outsider penetrare in tutti questi settori, a testimonianza del fatto che i sacrifici patiti per la conquista del potere rendono ancora più difficile la sua condivisione.


UN SIMBOLO ORMAI CONTESO DA ANNI

L’ obelisco a lungo conteso tra Italia ed Etiopia è alto quasi 24 metri e ha 1700 anni. Eleganza ed imponenza ne fanno da sempre un simbolo caro al potere. Insieme ad altre steli ornava le tombe dei sovrani del regno di Axum, che dal 400 a.C. dominò per tredici secoli entrambe le sponde del Mar Rosso, controllando sia il Corno d’Africa che una parte della penisola arabica. Nel 1937, in seguito all’invasione da parte italiana, per volere di Mussolini fu trasportato a Roma e collocato in piazza di Porta Capena, a due passi dal Circo Massimo, di fronte all’allora Ministero delle Colonie, oggi sede della Fao.

La restituzione, promessa con il trattato di pace del 1947, ha iniziato a concretizzarsi soltanto nel 2003, quando il monumento è stato smantellato e parcheggiato in un deposito, in attesa di risolvere il rompicapo logistico legato al suo trasporto: troppo pesanti le 150 tonnellate di granito, troppo corta la pista di atterraggio di Axum. Alla fine è stato trasportato in Etiopia con un Antonov nel 2005, in tempo per infiammare di retorica patriottica la propaganda per le elezioni politiche. Ci sono voluti poi tre anni per organizzare la risistemazione nel parco archeologico di Axum - classificato dall’Unesco come patrimonio comune dell’umanità - a causa dei timori per le tenuta del terreno, traforato da tombe e cunicoli sotterranei. I resti di una stele di analoghe dimensioni, probabilmente crollata al momento dell’innalzamento, giacciono lì accanto a testimonianza della delicatezza dell’operazione.

Una bella responsabilità per gli italiani che si sono aggiudicati la gara internazionale: lo Studio Croci e l’impresa Lattanzi. A fine luglio sono riusciti comunque a completare i lavori, in tempo perché la sagoma dell’obelisco sigilli le celebrazioni del Millennio etiopico.

Emanuele Fantini


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