politica o quasi
Donne e potere, le parole per dirlo
di Ida Dominijanni (il manifesto, 10.04.2007)
Ho segnalato qualche settimana fa («politica o quasi» del 13 marzo) l’ultimo numero della rivista Via Dogana, in cui Lia Cigarini e Luisa Muraro pongono alcune domande ruvide sul rapporto fra donne e potere a partire dalla scena milanese, dove sono diventati femminili svariati vertici amministrativi, sindacali, associativi, imprenditoriali, senza che, a giudizio delle autrici, la qualità della vita e dell’amministrazione della città ne sia stata significativamente segnata, senza che si siano sviluppate significative relazioni fra le protagoniste di questo mutamento e fra loro e la cittadinanza femminile, senza che emerga una significativa differenza femminile nella gestione del potere o significative ipotesi sulla relazione femminile col potere. Quel numero di Via Dogana ha fatto nel frattempo un certo rumore sulla stampa milanese e anche su quella nazionale, ed è stato oggetto di una affollata discussione pubblica alla Libreria delle donne di Milano (un’altra seguirà alla Casa internazionale delle donne di Roma).
Oggi segnalo che non casualmente l’ultimo numero di Leggendaria, altra storica testata culturale e politica femminista, uscito pressoché in contemporanea a cura di Silvia Neonato e Bia Sarasini (la rivista, diretta da Anna Maria Crispino, aveva già dedicato due precedenti numeri a Roma e Torino), mette a fuoco problemi e domande assai simili a partire da un’altra scena, quella genovese.
A Genova, dove fra poco si terranno le elezioni amministrative, sono donne le candidate dell’Ulivo a sindaco (Marta Vincenzi) e del centrodestra a presidente della provincia (Renata Oliveri); donne il 40 per cento dei dirigenti del comune e sei su nove superdirigenti; donne la soprintendente ai beni artistici e le responsabili di quasi tutti i musei cittadini, donne le presidi di Architettura e di Economia e commercio, le presidenti del festival delle scienze e della prestigiosa associazione culturale Buonavoglia; e ci sono 30.800 donne, molte delle quali con cariche gestionali, iscritte al registro provinciale delle imprese.
«Eppure - scrivono nell’editoriale Neonato e Sarasini - tutte queste donne di potere, grande o piccolo, non si vedono tra loro, è come se fossero trasparenti le une alle altre, si cercano a parole ma nei fatti non fanno ’gruppo di pressione’. E dichiarano di sentirsi sole». Perciò, alla fine di una ampia e accurata indagine sul campo - che sia diventato femminile anche il giornalismo d’inchiesta? - Neonato e Sarasini concludono: «Non abbiamo le parole per dirlo. Non il sesso, come raccontava Marie Cardinal nel suo memorabile libro (Le parole per dirlo, Tascabili Bompiani, 2002, prima edizione 1976), ma il potere, quando a gestirlo, o a volerci mettere le mani, sono le donne. Dopo averne incontrate, ascoltate, interrogate tante, ci siamo rese conto che queste ’capitane coraggiose’ necessitano di un codice e che anche noi, per descriverle, manchiamo di un alfabeto».
Tre cose sono chiare secondo le curatrici: che l’emancipazione non basta, che le quote rosa «sono utili ma come ulteriore laboratorio per crescere insieme», che bisogna trovare le parole «per legarci tra noi in un nuovo patto». Ed effettivamente, leggendo le molteplici interviste che popolano l’inchiesta, è vero che le parole mancano, oscillano, rivelano un’incertezza di fondo nell’affrontare il come, il perché, il per chi, del potere, delle sue potenzialità e delle sue fallacie, delle sue opacità e delle sue illusioni, della sua facilità omologante e della difficoltà di segnarlo di una differenza.
Il protagonismo femminile visibile oggi in situazioni come quella milanese e genovese viaggia su un sentiero stretto e trincerato su tre lati.
Primo lato, la misoginia di base della cultura politica italiana (a Spezia, uno dei comuni guarda caso più rossi d’Italia, al contrario che a Genova di donne non ce n’è in nessun ruolo di responsabilità).
Secondo lato, la forzatura delle quote, di cui nessuna si dichiara entusiasta ma che nessuna (con la meritoria eccezione di Teresa Sardanelli, dirigente comunale nel settore cultura) ha il coraggio e la coerenza di rifiutare.
Terzo lato, una corrente di femminilizzazione del lavoro e della politica, che fa ambiguamente leva sulle caratteristiche femminili di relazione e di cura contro quelle maschili di competizione e distruttività: nell’inchiesta genovese se ne fa sostenitrice la diessina Maria Paola Profumo, convinta che «oggi la componente femminile, collegata biologicamente e storicamente alla cultura della relazione-crescita-cura, è quella che porta più innovazione e qualità nel lavoro e nella vita quotidiana, ed è la chiave della politica, una qualità che deve modificarla». Ma non sempre, a quanto pare, ci riesce, e qualche volta, a quanto pare, rischia di trasformarsi in una risorsa terapeutica, più che trasformatrice, del potere e della rappresentanza.
Sembrano sagge alla fine le parole di Marta Vincenzi, sindaca in pectore di Genova: «Siamo merci in concorrenza da secoli, la solidarietà non si inventa in qualche decennio di emancipazione. Bisogna forse smettere di uccidere le madri, e le nostre riflessioni devono essere messe alla prova. Io per esempio non so se esiste un modo femminile di gestire il potere, credo di sì, ma vorrei essere testata durante il mio lavoro per scoprirlo insieme alle altre donne».