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In principio era il Logos, non il "logo" ...

DIO, MONDO, UOMO - OLTRE!!! BASTA CON LE ROBINSONATE. A partire da due, e non da uno!!! Una nota su una polemica tra "esportatori di democrazia" e di "libertà" (Giovanni Sartori e Gian Maria Vian) e la proposta di una Fenomenologia dello Spirito di "Due Soli" - di Federico La Sala

Con Rousseau, Kant, Marx, Freud e Dante, oltre Hegel, per una seconda rivoluzione copernicana
sabato 30 giugno 2007 di Maria Paola Falchinelli
[...] È elementare, ma è così - come scriveva l’oscuro di Efeso, Eraclito: "bisogna seguire ciò che è comune: e ciò che è comune è il Logos" - la Costituzione, prima di ogni calcolo, per ragionare bene. La Costituzione è il fondamento, il principio, e la bilancia!!! Questo è il problema: la cima dell’iceberg davanti ai nostri occhi, e il punto più profondo sotto i nostri stessi piedi!!! E se non vogliamo permanere nella "preistoria" e, anzi, vogliamo uscirne, dobbiamo stare attenti e (...)

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> Basta con le robinsonate - laiche e religiose! ... A colloquio con il filosofo Roberto Esposito di cui esce ora "Terza persona"

giovedì 31 maggio 2007

A colloquio con il filosofo Roberto Esposito di cui esce ora "Terza persona"

L’importanza di essere nessuno

-  Al neutro si sono dedicati studiosi come Weil e Kojève
-  La categoria di persona nella cultura occidentale

-  "Tutti coloro che si sono richiamati all’impersonale lo hanno fatto in nome della vita"
-  "Essere impersonali significa mostrarsi al di sopra di interessi privati"

di ANTONIO GNOLI *

Siamo tutti persone. Perbene e "permale". Distinte e opache. Intelligenti e ottuse. Siamo persone e perciò indossiamo una maschera. L’etimo di persona è appunto maschera. La persona vanta diritti, esprime identità. Siamo persone, oltre che corpi, individui, o soggetti. Se vogliamo distinguerci da una cosa o da un animale, diciamo persona. Usiamo una categoria che da lungo tempo è entrata nel lessico della politica, in quello della teologia, e soprattutto del diritto. Sia la sfera laica che quella religiosa (si pensi al cristianesimo) hanno fornito all’idea di persona un rilievo e un’importanza notevoli. Il problema per i laici e i cattolici - limitando la questione all’Italia - non è la persona, ma quando un’entità la diviene. Sembra insomma una nozione acquisita, tanto più certa in quanto alla persona sono riconducibili la ragionevolezza, la libertà, il buon senso. Che cosa è uno schiavo se non un individuo deprivato della sua persona? E un folle, non è stato spesso lasciato fuori dalla sfera della persona?

«Vede», mi dice Roberto Esposito, «se ci limitassimo all’aspetto edificante del concetto di persona, non capiremmo come mai, nonostante tutti gli sforzi argomentativi per difenderlo, non si sia venuti a capo della violazione dei diritti umani, delle guerre, delle illibertà e le insensatezze che avvolgono la vita umana». È anche su questa insoddisfazione che ha costruito un libretto denso e acuto dal titolo eloquente: Terza persona (Einaudi, pagg. 184, Euro 17).

Tra i filosofi che si dedicano alla riflessione sulla politica, Esposito si è scelto un osservatorio che a prima vista può apparire marginale, ma proprio per questo in grado di cogliere le novità che il discorso di idee può oggi offrire a chi non si accontenti della tradizionale nomenclatura concettuale. Si tratta di un percorso più che decennale che partiva dall’esigenza di un ripensamento radicale delle categorie politiche moderne in una fase in cui esse avevano perso ogni presa analitica sulla realtà. Parole come "democrazia", "rappresentanza", "destra e sinistra", "totalitarismo" - per indicare solo alcuni esempi del lessico politico - che avevano orientato il dibattito sulla politica hanno finito col mostrare inadeguatezza interpretativa e stanchezza concettuale. Di qui l’allargamento del discorso al concetto di impolitico e di communitas e infine l’approdo ai temi della biopolitica e della immunitas.

Si tratta di un percorso intellettuale non semplice e non del tutto evidente nelle conseguenze, ma che trova in questo nuovo lavoro sull’impersonale un significativo approdo. «L’uso che ho fatto della parola "impersonale" non è in opposizione a persona, non ne è la negazione frontale, come sarebbe in una filosofia dell’antipersona».

Impersonale di norma rimanda ad asettico, oggettivo, al controllo delle passioni o al di sopra dei singoli punti di vista. L’impersonale è imparziale. Un tifoso che si pronuncia sulla propria squadra, un genitore che dà un giudizio sul proprio figlio, o un politico che spiega l’operato del proprio partito, difficilmente saranno impersonali. Essere impersonali significa mostrare quell’imperturbabilità che spoglia il soggetto dell’interesse privato; significa innalzare l’individuo a una posizione in cui non è più parte in un conflitto di interessi. La figura che viene in mente è quella del giudice e con essa la possibilità di tradurre il diritto in giustizia, ossia in qualcosa che implica il concetto di "terza persona".

«Terza persona allude all’impersonale, come nell’espressione "piove". Il grande linguista Emile Benveniste ha spiegato che la terza persona, in quanto "non persona", è irriducibile alle prime due, le quali sono logicamente e grammaticalmente legate tra loro nell’interlocuzione». Insomma c’è un "io" e c’è un "tu" e poi c’è un "egli". L’io ha bisogno del tu e viceversa. Mi devo pur rivolgermi a un tu se voglio dialogare. E l’egli fintantoché resterà un lui distante, non coinvolto da questa dialettica, conserverà la sua forza impersonale.

«La terza persona - precisa Esposito - è l’unica a poter essere singolare e insieme plurale. Non ha vincoli come può averli l’io che si rivolge sempre, implicitamente o esplicitamente, a un tu, così come il tu presuppone sempre un io che lo designi. Il due è per forza di cose inscritto nella logica dell’uno, così come l’uno tende sempre a sdoppiarsi in due per potersi specchiare e riconoscere nel proprio interlocutore umano o divino».

Quando si dice che tre è il numero perfetto è in riferimento al suo carattere di indipendenza, di non compromissione, di neutralità che la "perfezione" va riferita. Ma l’impersonale, cui allude Esposito, non è soltanto la soglia da cui intravediamo l’imperturbabile, è qualcosa che riconosciamo in alcuni tratti del Novecento, a cominciare da certe esperienze dell’arte contemporanea tesa a "sfigurare" l’autore, il soggetto, la figura in tutte le sue declinazioni, per finire con alcuni esiti della politica.

«Impersonale non significa l’annientamento della persona. Quest’ultimo fu l’esito di quella linea biopolitica cui pervenne il nazismo che in nome della razza schiacciò l’essere umano sul suo nudo supporto corporeo. E poteva farlo perché, nella sua aberrazione, il nazismo presupponeva un’idea di persona da negare. Lo stesso meccanismo - anche se di segno opposto - lo hanno innescato quelle filosofie che salvano la persona e negano il corpo. Non si sfugge a questa alternativa: o si sottomette la razionalità all’animalità, come fecero i nazisti, oppure la "parte animale" a quella razionale o spirituale, come fanno i personalisti. In che modo uscirne? Il mio ricorso all’impersonale è in funzione della rottura di questa macchina dualistica che ha caratterizzato l’intera cultura occidentale, interrompendo così la distinzione presupposta tra persona, animale e cosa».

Quando Esposito indica l’intero Occidente non lo fa in nome di una esagerazione retorica, ma ricostruendo il lungo cammino che nella cultura giuridico-politica ha coperto la categoria di persona: «Essa, fin dalla sua origine romana e cristiana, e in forma sempre diversa, riarticola continuamente la separazione all’interno dell’uomo tra una dimensione propriamente umana, razionale, spirituale, ed una falda preumana assimilata all’animale o alla cosa su cui la prima deve esercitare un diritto sovrano di vita e di morte».

Si può dire che questo schema concettuale è anche il punto di contatto tra i laici e i cattolici? «Pur divergendo sulla identificazione del momento e della modalità dell’ingresso dell’essere vivente nella dimensione della persona, sia i laici che i cattolici assegnano a questa un primato assoluto sulla vita impersonale. Solo se può fornire le credenziali della persona, la vita umana acquista pieno diritto all’intoccabilità».

Dal ragionamento di Esposito affiora non tanto la condanna dell’idea di persona, ma la critica al suo fondamentalismo: «Pensi alla retorica sui diritti umani letti in chiave di riproposizione del concetto di persona». Apparentemente ineccepibile, in realtà largamente fallimentare: «Basta uno sguardo al quadro internazionale per accorgersi che il diritto oggi di gran lunga più disatteso è proprio quello alla vita. Non che in passato fosse meglio. Ma adesso, in relazione ai mezzi tecnici a disposizione dell’uomo, la sproporzione tra la parte di vita umana garantita ed anzi potenziata ben al di là dei suoi bisogni e la parte di vita umana condannata a morte per fame, malattia, guerra, è insostenibile, e ciò quando la bandiera della persona è issata all’unisono da tutta la cultura filosofica, giuridica, politica occidentale».

Assisteremmo dunque a un fallimento dei diritti umani la cui causa è nell’insistito richiamo al concetto di persona. Di qui, secondo Esposito, il passaggio a un fronte categoriale nuovo che metta al centro l’idea di impersonalità. Del resto è a questa sponda che, in modi differenti, sono approdati pensatori come Simone Weil, Alexandre Kojève, Michel Foucault, Maurice Blanchot e Gilles Deleuze. Ciascuno con una propria cifra ha lavorato sulla nozione di neutro. Per farne cosa? Per approdare a quale risultato? Per aprire quale prospettiva? «Sebbene gli esiti siano stati differenti resta il fatto che più o meno tutti coloro che si sono richiamati all’impersonale lo hanno fatto in nome e per conto della parola vita». Si torna al problema della biopolitica e al modo in cui essa declina l’esistenza umana. C’è una vita impersonale? Una vita che non sia soltanto il sottofondo biologico su cui si innesta tutto il resto? Foucault volse il suo sguardo a quanto di anonimo la vita stessa contiene. Vite infami, ovvero vite senza fama, è un suo testo che oggi andrebbe riletto: «Vite», spiega Esposito, «che non avendo mai giocato un ruolo soggettivo di primo piano, sfuggendo per così dire alle maglie della storia e perdendosi nell’anonimato dell’esistenza, non ci parlano mai in prima persona, non pronunciamo mai il pronome "io", né si rivolgono mai a un "tu". Non sono altro che dei fatti, o degli eventi, in terza persona». C’è da chiedersi se dopo tanto protagonismo si stia facendo strada una nuova concezione dell’anonimato.

* la Repubblica, 25.05. 2007, p. 51


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