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Poesia della settimana

Lo avrai camerata Kesselring il monumento che pretendi da noi italiani - di Piero Calamandrei

mercoledì 25 aprile 2007 di Vincenzo Tiano
Epigrafe di PIERO CALAMANDREI *
Lo avrai
camerata Kesselring
il monumento che pretendi da noi italiani
ma con che pietra si costruirà
a deciderlo tocca a noi.
Non coi sassi affumicati
dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio
non colla terra dei cimiteri
dove i nostri compagni giovinetti
riposano in serenità
non colla neve inviolata delle montagne
che per due inverni ti sfidarono
non colla primavera di queste valli
che ti videro fuggire.
Ma soltanto col silenzio dei torturati
Più duro (...)

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> Morto Priebke. Il boia delle Fosse Ardeatine, «Sicuro dell’impunità mi raccontò l’eccidio» (Esteban Buch). L’Anpi: «Assassino mai pentito».

sabato 12 ottobre 2013

Morto Priebke, negò l’Olocausto fino alla fine

Il boia delle Fosse Ardeatine è deceduto a Roma all’età di 100 anni

Il suo testamento: «Le camere a gas non c’erano, solo cucine. Le prove furono inventate dagli americani»

L’Anpi: «Assassino mai pentito»

di Gigi Marcucci (l’Unità 12.10.2013)

«Io ho conosciuto personalmente i lager. L’ultima volta sono stato a Mauthausen nel maggio del 1944 a interrogare il figlio di Badoglio, Mario, per ordine di Himmler. Ho girato quel campo in lungo e in largo per due giorni. C’erano immense cucine in funzione per gli internati e all’interno anche un bordello per le loro esigenze. Niente camere a gas». Nazista fino all’ultima intervista, e probabilmente fino all’ultimo dei suoi respiri. Convinto, nonostante documenti e qualche milione di testimonianze, che la verità e Dio militassero sullo stesso versante della barricata che nel lontano 1933 lo aveva visto schierarsi con Hitler e, pochi anni dopo, indossare la divisa delle Ss.

Erich Priebke, l’uomo agli ordini di Herbert Kappler che coordinò personalmente il massacro delle 335 vittime delle Fosse Ardeatine, è morto ieri a mezzogiorno nella sua abitazione romana, dopo aver doppiato la boa dei 100 anni. Immediato e laconico il commento del centro direttore del centro Wiesenthal, Efraim Zuroff: «L’età avanzata raggiunta da Priebke ci ricorda quanto sia importante perseguire i criminali nazisti ancora in vita. Molti di essi godono anche avanti negli anni di una salute robusta, per questo è giusto condurli davanti ad un tribunale».

«Per gli strani appuntamenti che la storia combina sottolinea Emanuele Fiano la morte di Priebke cade a poche ore dal settantesimo anniversario della deportazione degli ebrei dal ghetto di Roma», ricorda Emanuele Fiano. «Furono i colleghi di Priebke a strappare al ghetto 1023 ebrei romani per deportarli ad Auschwitz ricorda . Solo 16 di loro sopravvissero».

Lo “svizzero” rifugiatosi per molti anni in Argentina, a Bariloche, grazie alla complicità di alcuni sacerdoti in contatto con Odessa, la rete che permise a molti criminali nazisti di sottrarsi a processi e punizioni, è morto nel suo salotto. Consunzione dovuta all’età, hanno attestato i medici. «È stato trovato sul divano», dice il suo avvocato Paolo Giachini. «Io l’avevo sentito in mattinata. La sua morte non sembrava così imminente, ma in due o tre giorni ha avuto un crollo, quasi improvviso. Si è spento di vecchiaia ed è stato lucido fino alla fine», dice il legale, che parla di «dignità» del suo assistito, «nonostante la persecuzione subita».

Persecuzione che evidentemente non ha impedito all’ex capitano delle Ss di affermare, in una sorta di videotestamento, che l’Olocausto è il prodotto di «una sottocultura storica appositamente creata e divulgata da televisione e cinematografia», che «si sono manipolate le coscienze lavorando sulle emozioni», che «le nuove generazioni, a cominciare dalla scuola, sono state sottoposte al lavaggio del cervello, ossessionate con storie macabre per assoggettarne la libertà di giudizio». Se il perseguitato «avesse mostrato segni di pentimento, avrebbe ottenuto le attenuanti generiche. Me lo disse il gup del tribunale militare», ha rivelato ieri l’avvocato Paola Severino, che, all’epoca del processo per il massacro delle Fosse Ardeatine, rappresentava come legale di parte civile l’Unione delle Comunità Ebraiche.

«Nelle fasi successive del processo spiega l’ex ministro della Giustizia si è poi potuta constatare questa volontà di Priebke di non pentirsi». «Non potrò mai dimenticare conclude Paola Severino la voce di quei familiari ancora rotta dal pianto quando parlavano delle torture cui erano stati sottoposti i loro parenti in via Tasso o di come le Ss li avevano caricati sui camion per portarli alle Fosse Ardeatine».

Priebke era nato a Hennigsdorf il 29 luglio 1913. Al partito nazionalsocialista aderì quando aveva 20 anni.Finita la guerra fuggì da un campo di prigionia vicino a Rimini e si rifugiò in Argentina. Fu estradato in Italia nel 1995 e al termine di un lungo processo. Nel 1998, fu condannato all’ergastolo, ma vista l’età avanzata aveva già 85 anni fu mandato ai domiciliari. Nel 2009 ha ottenuto il permesso di lasciare la sua casa «per fare la spesa, andare a messa, in farmacia» e affrontare «indispensabili esigenze di vita».

Recentemente abitava in una strada tra via Boccea e via Aurelia. «Aveva il ghiaccio negli occhi dice Lucia che abita nel palazzo di fronte a quello in cui è morto Priebke quando andava a passeggio era altero. Quando lo incontravo provavo disagio e fastidio».

Forse quello sguardo gelido l’avevano incrociato molti prigionieri dei fascisti repubblichni quando Priebke lavorò a Brescia, come ufficiale di collegamento con Guardia nazionale repubblicana.

Fu lì che diede un forte impulso alle perquisizioni e alle azioni di rastrellamento, allo scopo di individuare le cellule cittadine di supporto ai partigiani che presidiavano le montagne bresciane. Centinaia di arrestati, appartenenti alla resistenza o semplici sospetti, furono catturati e rinchiusi nella prigione di Canton Mombello, per poi essere condotti nel quartier generale delle Ss, dove Priebke svolgeva, spesso personalmente, gli interrogatori. Una palazzina in stile liberty , lontana da orecchie e sguardi indiscreti.


Esteban Buch. Storico e musicologo intervistò il nazista nel 1989

Nel libro uscito nel 1991 la rivelazione che il criminale di guerra viveva a Bariloche in Argentina

«Sicuro dell’impunità mi raccontò l’eccidio»

intervista di Jolanda Bufalini (l’Unità 12.10.2013)

ROMA Esteban Buch è a Roma per la messa in scena, ieri sera al Palladium nell’ambito di Romaeuropa Festival, di «Aliados» con il musicista Sebastian Rivas. «Aliados» è un opera di teatro musicale e politico contemporaneo. Gli alleati del titolo altri non sono che il generale August Pinochet e Margaret Thatcher.

Esteban Buch continua il lavoro avviato con il libro «Il pittore della Svizzera argentina», nel quale, intervistato, compare Erich Priebke. È da quelle pagine che ha inizio la lunga storia che portò alla estradizione e alla condanna del criminale nazista. Quelle pagine furono, infatti, la fonte della serie televisiva della statunitense Abc «I nazisti di Bariloche» che nel 1994 suscitarono l’indignazione dell’opinione pubblica italiana. Ha sentito? Erich Priebke è morto proprio oggi, a 100 anni. Che impressione le fa?

«Sono abbastanza sconvolto, ho appena appreso la notizia, penso alla atrocità delle Fosse Ardeatine e, anche, che un po’ di giustizia è stata fatta».

Come conobbe Priebke?

«Lo conobbi nel 1989 a Bariloche. Non soltanto era libero ma si sentiva molto sicuro, lo intervistai e lui raccontò spontaneamente la vicenda delle Fosse Ardeatine. Il libro è uscito nel 1991, il resto lo sapete, l’apertura dell’inchiesta, l’estradizione».

Non aveva la percezione che rivelare quella atrocità sarebbe stato pericoloso per lui?

«Viveva ormai in una logica da pensionato e, anche, come esponente della comunità tedesca di Bariloche, era convinto di godere di una sorta di impunità». Come nacque il libro “il pittore della Svizzera argentina”?

«Erich Priebke non è il protagonista del libro, che è un altro nazista. Un collaborazionista di origine belga, anche lui rifugiato a Bariloche. Si chiamava Antoon Maes e faceva il pittore. Bariloche è una città del sud dell’Argentina che viene paragonata alla Svizzera. Mi interessava mettere in luce cosa ci fosse dietro questa immagine da cartolina. Lo scopo del libro era chiedere come fosse possibile che questi personaggi vivessero indisturbati lì da 40 anni».

Lei è uno storico e anche un musicologo, uno studioso d’arte. Come si è creato il legame fra queste sue specializzazioni e la «caccia» ai nazisti?

«Mi interessava Bariloche e questa comunità tedesca nella quale vivevano alcuni nazisti. Quando si decise l’estradizione a Bariloche Priebke ebbe molte solidarietà. Mi interessava su un piano personale, civile. Antoon Maes era pittore e, così, nacque il soggetto che mi consentiva una riflessione fra arte e nazismo».

C’è un nesso fra questo suo impegno e la situazione dell’Argentina di allora?

«Senza alcun dubbio, sentivo la vicinanza fra la vicenda dei rifugiati nazisti, la dittatura argentina e il sentimento di impunità che nutrivano i militari argentini».

Ha affrontato lo stesso argomento con “Aliados”?

«Assolutamente, la storia del rapporto fra Pinochet e Margaret Thatcher è un altro capitolo della stessa ricerca sulla memoria dei crimini e la giustizia».


-  Incontrato in carcere
-  Un severo robot del Male nazista

-  di Furio Colombo (il Fatto, 12.10.2013)

Ho incontrato Erich Priebke in una cella spaziosa e appena imbiancata di Regina Coeli. Quattro brandine, ma lui era solo, dalla parte in cui arrivava una striscia di luce. Era in maglietta bianca, pantaloni da camminata in montagna, un militare che si è appena tolto la divisa. Si è alzato, forte, sano, molto alto. Sarebbe stato strano stringergli la mano e lui non ha fatto il gesto. Ha aspettato, senza l’ombra dell’impaccio o della timidezza, le braccia lungo il corpo, in attesa. Il mio compito di parlamentare in visita era di accertare le condizioni fisiche, le modalità di detenzione,il trattamento .

Lui non era il tipo che si offre di parlare e io a lui non avevo niente da chiedere. Ho sentito, dallo scambio di battute tra l’ufficiale e il direttore del carcere entrato in cella con me, che il suo italiano - sia pure in tre o quattro parole - era buono. C’erano libri, due, sullo sgabello di legno accanto al letto, con le copertine foderate con cura di carta a fiori, c’era acqua in un bicchiere di plastica e niente altro, salvo indumenti piegati con cura sulla brandina più lontana. Qualche minuto di silenzio, e il direttore ha preso l’iniziativa di guidarmi a uscire. C’è stato un saluto a voce. Il suo “buonasera” quasi non accentato. La porta è stata chiusa, senza rumore. E allora mi sono accorto che il rumore che non finisce mai, neppure nel cuore della notte, nella macchina carceri, qui non si sentiva. C’era l’impressione di una pausa, non di una fermata per sempre.

C’era un’immagine di sicurezza che gli veniva, ripenso adesso, dal vedere tutto e sempre da un lato solo della realtà, un lato che non cambia mai. Sicurezza non è la parola. Piuttosto decoro, nel senso di una scuola o accademia militare, dove l’ordine di ogni cosa, dalla posizione del corpo alla ripiegatura delle coperte, è il valore più alto.

Eppure non è il sapere chi è e che cosa ha fatto che ti dice di più di questo prigioniero speciale, responsabile di un frammento atroce di guerra, condotto nome per nome, persona per persona, scrivendo, includendo, lavorando a rifinire le liste, fino al momento, preciso e ordinato, di cominciare a sparare uccidendo a grappoli, uccidendo a raffica, non è da questa tremenda e incancellabile sequenza che capisci meglio la storia (la sua e la nostra). È lui, la persona, avvolta nella grandezza del suo delitto, dalla precisione impeccabile con cui ha svolto il mandato, la figura che ingombra la scena. Occupa molto spazio e questo ingombro va decifrato.

Qualunque cosa abbia mostrato o detto nel video e nel testo che ha lasciato per i suoi posteri o discendenti che aspettavano da lui una parola, Erich Priebke dimostra, contro la persuasione di Hannah Arendt (formata su Eichman e la sua vita impiegatizia al servizio dello sterminio) che il male non è banale. È intenzionale, intensamente partecipato, è vissuto come lo scopo stesso della propria esistenza, è la certezza della propria identità e della propria vita nel momento in cui diventa missione. Quella missione non avrà esitazioni, tentennamenti, non avrà mai un solo secondo pensiero. Di qui l’orgoglio, che è una sorta di compiaciuta superbia. “Fo ss e Ardeatine? Io l’ho fatto. Io, il capitano Priebke”.

In questa esplorazione che adesso tento di fare sul reperto di memoria che mi resta, come entra l’identificazione di Erich Priebke, che istintivamente si presenta come ufficiale e gentiluomo, con la rozza e potente macchina nazista della morte, che non è la guerra, ma è un progetto a parte, fondato su un prolungamento dell’esercizio estremo del potere su ogni essere umano?

Teniamo presente il nodo della tremenda vita italiana e romana della stagione di Priebke: l’ossessione razzista che considera la guerra agli ebrei e agli oppositori più importante di quella su cui si gioca la vita e la morte della Germania. Quegli ufficiali gentiluomini che, si suppone, si toglievano i guanti di pelle solo alla mensa, e a ogni incontro scattavano nel saluto del braccio teso e dei tacchi (non mi riferisco ai film ma alla memoria) hanno rubato oro agli ebrei di Roma, fingendo e mentendo in una sorta di farsa anche più spregevole delle due tragedie romane: la razzia del 16 ottobre 1943 (la deportazione di 1017 ebrei romani di tutte le età, compresi i neonati e i morenti) , e le Fosse Ardeatine del 24 marzo 1944. il capolavoro - delitto per delitto - del capitano Priebke. L’orgoglio di quella missione compiuta non lo aveva mai abbandonato. Priebke era un soldato clonato - sentimenti e onore compresi - dalla intensa produzione di assassini dell’officina nazista. Nel suo caso, la produzione perfetta, del tutto priva di pensieri e ripensamenti, è durata a lungo. E noi sappiamo che lascia brutti segni e tragici eredi.


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