Quando muore un combattente per la libertà
di Moni Ovadia (l’Unità, 07.04.2012)
Rosario Bentivegna, partigiano gappista, organizzatore dell’azione di Via Rasella, ci ha lasciato. Uomini come lui con il loro coraggio e la fedeltà alle loro scelte hanno contribuito a riportare l’Europa e il nostro Paese alla democrazia e alla libertà. Il fronte del revisionismo e del negazionismo italiano compatti nel corso di tutto il secondo dopoguerra hanno cercato di marchiare come crimine, come strage assassina il legittimo attentato di via Rasella contro una colonna di SS.
Quell’attacco partigiano fu un legittimo atto di guerra contro l’esercito occupante della dittatura criminale genocida nazista alleata della dittatura criminale e genocida del fascismo italiano, come è stato stabilito in ogni grado di giudizio dei nostri tribunali.
A Rosario Bentivegna come era logico, nel momento della morte, sono stati tributati gli onori dovuti a un uomo che ha combattuto per restituire dignità alla sua patria e riportare i valori della civiltà al suo popolo.
Ma come era prevedibile, nostalgici fascisti mai redenti e revisionisti a vario titolo hanno approfittato dell’occasione per manifestare un ennesima volta il loro disprezzo per l’antifascismo, per la Resistenza e per la Costituzione repubblicana. Ora che la stagione del berlusconismo con tutto il suo corredo di sottocultura reazionaria e fascistoide ha miseramente concluso la sua parabola e che anche il leghismo xenofobo e pararazzista mostra la squallida verità che sta dietro alle sue farneticazioni pseudo nazionaliste, sarebbe tempo, per il bene dell’Italia, di bandire dai nostri media e dalle nostre scuole il revisionismo ideologico e strumentale.
Rosario Sasà Bentivegna
risponde Luigi Cancrini (l’Unità, 07.04.2012)
Si sono svolti nei giorni scorsi i funerali di Rosario Bentivegna noto a tutti principalmente per i fatti di Via Rasella avvenuti a Roma durante la seconda guerra mondiale. Erano presenti molti partigiani, molti giovani di sinistra ed anche Walter Veltroni alle cerimonia svoltasi nella sede principale della Provincia di Roma.
Michele Piacentini
RISPOSTA La storia dice che quella combattuta nel ’43 era una guerra in cui gli occupanti nazisti e i fascisti loro alleati uccidevano chi tentava di resistere, deportavano gli ebrei, sfogavano contro la popolazione civile il loro risentimento contro l’Italia che li aveva traditi. Combattere contro di loro richiedeva il coraggio di rischiare la vita e la passione di chi riusciva ancora a credere nella possibilità di un mondo migliore. È in questo contesto che l’attentato di Via Rasella va ricordato come un atto dello stesso valore di quello portato avanti dai liberatori che erano sbarcati in Italia e sarebbero sbarcati in Normandia perché erano stati i nazifascisti a volere la guerra e perché solo con atti di guerra era possibile sconfiggerli.
L’esecrazione del ricordo dovrebbe restare confinata, per chi ha rispetto della Storia, alla rappresaglia di Kappler non all’attentato di Sasà cui vigliaccamente ora Storace, noto difensore del boia nazista, ha dato dell’“assassino”. Io di Sasà, che ho avuto la fortuna di conoscere insieme a Carla, ricordo l’innocenza e il sorriso che non ho mai visto sulla faccia di Kappler e di Storace: il sorriso di chi sa di aver fatto ciò che era giusto fare.