«Amate la Resistenza» 128 lettere indirizzate ai partigiani del futuro
Donne e uomini, che hanno combattuto il nazismo e il fascismo, passano il testimone alle giovani generazioni
di Andrea Liparoto (l’Unità 15.5.12)
«GUAI A FAR NAUFRAGARE LA RESISTENZA NELLE PAROLE ENCOMIASTICHE. BASTERÀ DIRE CHE UN TEMPO LONTANO C’ERANO DEI GIOVANI. E poi iniziare a raccontarla da quel punto. Ritrovo con commozione i compagni persi nelle boscaglie, nei greti dei fiumi... Se potessero parlare direbbero: non vogliamo essere celebrati, ma amati» non usa mezze parole Nello Quartieri, 91 anni, ventenne comandante di Brigata durante la Guerra di Liberazione. Se la Resistenza deve continuare ad essere una risorsa per il futuro va fatta scendere dai palchi della retorica per circolare nelle coscienze e nei cuori in tutta la sua vitalità civile e umana. La Resistenza va amata. Una appassionata raccomandazione questa che attraversa tutte le 128 testimonianze contenute nel volume Io sono l’ultimo - lettere di partigiani italiani.
LE TESTIMONIANZE
Un progetto nato nel 2010, quando Giacomo Papi, giornalista, innamoratosi delle parole di una partigiana, Anita Malavasi «Laila», venne a bussare alle porte dell’Anpi per chiederci di collaborare ad una raccolta di racconti degli ultimi protagonisti viventi della Resistenza: un messaggio corale alle ragazze e ai ragazzi di oggi. E i nostri partigiani hanno colto immediatamente l’importanza e la necessità di «darsi», ancora una volta, forse l’ultima. Un antico senso di responsabilità mai sopito. Ci sono pervenuti centinaia di racconti, scritti a mano in molti casi, con la forza e l’autenticità di una testimonianza di ciò che è stato fino in fondo vita, scelte, coraggio, dovere. Ne è uscito un volume che ha il profilo di una vera e propria «piazza delle radici» dove dare appuntamento ai giovani, per incoraggiarli, e offrire un sentiero. Emo Ghirelli, 88 anni, CXLIV Brigata Garibaldi Antonio Gramsci, si rivolge direttamente al nipote: «Con noi collaborava il popolo migliore.
Tante donne hanno contribuito alla lotta di Liberazione e senza il loro contributo la lotta sarebbe stata molto più dura. È stata dura abbiamo dovuto combattere contro un nemico che la guerra la faceva di mestiere ed era armato di mezzi potenti, mentre noi avevamo in dotazione armi leggere. Spero che tu, Gabriele, non abbia mai più bisogno di fare i sacrifici che abbiamo dovuto sopportare noi. Che tu possa vivere sempre in pace, mai più guerre. Questo messaggio vorrei che potesse giungere nelle mani di tutti i pronipoti del mondo, perché capiscano che impegnandosi per costruire la pace si possono evitare le guerre».
Storie dure, di sangue e dolore che non hanno minimamente scalfito la consapevolezza di un dovere che andava compiuto senza tentennamenti. Didala Ghilarducci era una ragazza di 23 anni. Nel settembre ’43 aveva dovuto abbandonare la sua casa di Viareggio, pochi giorni dopo la nascita del figlio, perché i fascisti cercavano suo marito «Chittò», partigiano. Alla fine dell’agosto del 1944 lo troveranno e massacreranno. Didala è scomparsa qualche settimana fa, dopo aver tirato su un figlio da sola e speso tutti i suoi giorni nell’Anpi a far amare la Resistenza. Scrive nel suo racconto: «A volte mi viene da pensare che ho pagato, come tanti, un prezzo altissimo per questa Italia nuova. La sera rivedo i volti dei ragazzi di un tempo che oggi non ci sono più e penso che se fino a oggi ho continuato a impegnarmi per la libertà e i diritti è per rimanere fedele a loro e a quegli ideali che ci facevano sentire dalla parte giusta e ci facevano superare la paura. Allora mi sembra di sentire la mano di Chittò sulla spalla e mi viene da piangere di dolcezza».
Le donne. Erano tante e avevano un ruolo difficile e decisivo. Spesso nemmeno i familiari sapevano dell’impegno delle loro figlie, mogli, sorelle. Le chiamavano staffette. Una figura non sempre adeguatamente valorizzata in sede storiografica.
Ivonne Trebbi, 84 anni, IV Brigata Garibaldi Venturoli: «Mi portarono a Bologna, nella famosa caserma Magarotti, poi nel carcere di S. Giovanni in Monte dove incontrai altre partigiane che mi accolsero con molto affetto. Sempre più spesso ero interrogata e picchiata. Volevano informazioni e nomi per distruggere l’organizzazione clandestina. Mi portavano con loro durante i rastrellamenti nella speranza che io denunciassi qualche partigiano. Ma io sentivo che non avrei mai parlato. Mi aiutò a resistere l’odio per la guerra (...)». Ma ne valeva la pena, nessuno dei 128 ha dubbi. Lo ripetono continuamente. Perché ci credevano. Perché «le cose possono cambiare». (Giovanna Marturano, 100 anni). Parola di partigiana. Del futuro.