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FRANCIA. ELEZIONI PRESIDENZIALI. PRIME PROIEZIONI. Sarkozy, 53,5%: Segolene Royal, 47% . RISULTATI UFFICIALI: NICOLAS SARKOZY E’ IL NUOVO PRESIDENTE. SEGOLENE ROYAL AMMETTE LA SCONFITTA - a cura di pfls

domenica 6 maggio 2007 di Maria Paola Falchinelli
[... ] PERCENTUALI
Nicholas Sarkozy (Ump) 53,29
Segolene Royal (Partito Socialista) 46,71
Affluenza 84,93
Astensioni 15,07
Schede nulle 3,77 [...]

FRANCIA: NICOLAS SARKOZY E’ IL NUOVO PRESIDENTE *
PARIGI - "Amo la Francia come si ama tutti coloro che ci hanno dato tutto. Voglio ora restituirle tutto ciò che mi ha dato". Lo ha detto stasera Nicolas Sarkozy, dopo la diffusione delle proiezioni che gli assegnano la vittoria nelle (...)

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> FRANCIA. ELEZIONI PRESIDENZIALI. PRIME PROIEZIONI. Sarkozy, 53,5%: Segolene Royal, 47% . RISULTATI UFFICIALI: NICOLAS SARKOZY E’ IL NUOVO PRESIDENTE. SEGOLENE ROYAL AMMETTE LA SCONFITTA - a cura di pfls

lunedì 7 maggio 2007

L’homo novus

di Barbara Spinelli (La Stampa, 7/5/2007)

I francesi hanno scelto l’homo novus, Nicolas Sarkozy, con determinazione. Gli hanno dato una maggioranza del 53 per cento. A Ségolène hanno dato il 47. Il desiderio d’un cambiamento radicale è stato più possente della paura suscitata dal leader gollista, più vigoroso dello slogan che raccomandava «Tutto tranne Sarkozy».

Il sesto Presidente è homo novus nel senso latino del termine. Nella Roma antica era homo novus chi veniva dalla provincia, chi era nobile da poco tempo, chi pur aspirando alle alte cariche non aveva la formazione requisita. Cicerone fu homo novus, e Catone il Censore, Mario, Agrippa. Lui, Sarkozy, non è di ceppo francese - il padre si chiamava Pál Sárkozy, lasciò l’Ungheria quando l’Armata Rossa vi esportò il comunismo. Da giovane non ha nemmeno frequentato l’Ena, la mitica Scuola Nazionale di Amministrazione che è il lasciapassare per le grandi ascese politiche. Ha preso il controllo del proprio partito (Ump, Unione per un movimento popolare) nel 2004, ma ha subito ostracismi lunghi. È un outsider, e come tutti gli outsider ha ambizioni smisurate.

È stato paragonato a Rastignac, l’eroe di Balzac che dalla lontana provincia guarda Parigi scintillante, ombelico delle umane commedie, dicendo a se stesso e al mondo: «A noi due, Parigi!», per diventare poi conte, due volte ministro, e cinico. Lui non vuol esserlo: fin da ieri sera ha teso la mano agli elettori di Ségolène, promettendo di governare anche in loro nome. Si vedrà.

L’homo novus ha i difetti tutti dell’arrivista, ma possiede un pregio. Vede la realtà con occhio più spietato, avendo studiato ogni minimo difetto del potere che ha scalato. Scruta meglio di altri quel che s’è inceppato nella sua meccanica, e non è un caso che alla sorridente Ségolène, la sera del duello televisivo, ha risposto che se lei sognava d’esser «Presidente della Francia che funziona», lui no, voleva diventare Presidente della Francia che non funziona. Gli outsider sanno gli scricchiolii dei più gloriosi monumenti.

La biografia di Sarkozy e il suo carattere spiegano non solo la straordinaria energia della campagna, ma la visione severa che egli ha del paese. È sua convinzione che la Francia debba guardarsi allo specchio e smettere infine la storia incantata che racconta a se stessa. La Grande Nation non è più grande, ma in un mondo dominato da giganti come America e Cina s’è rattrappita, immobilizzata. Rischia di cadere nell’irrilevanza, ha detto più volte: di divenire un «parco per turisti». Nel libro Testimonianza questa visione è ricorrente: «La Francia non parla più al mondo perché non lo comprende più e non ha più niente da dirgli». I suoi leader s’ostinano a proporre sogni: cioè menzogne, corregge Sarkozy. La Francia si presenta come un modello - economico, d’integrazione - senza più esserlo: «La nostra maniera di far politica è divenuta insipida, mentre la società resta piena di foga e impazienza».

L’esperienza dell’Iraq è stata essenziale per lui: pur con una posizione giusta, Chirac ha creduto in splendidi isolamenti e non ha offerto che inefficace arroganza. Qui è la rottura promessa da Sarkozy, di qui il suo slogan: «La Francia del dopo - la France d’après». Significativo è che ambedue i contendenti hanno cessato di credere nell’eccezionalità francese, mettendosi a cercar lumi in modelli stranieri: una rivoluzione copernicana nella francocentrica iconografia nazionale. I modelli sono l’Inghilterra ma soprattutto il Nord Europa, dove riforme rigorose si combinano con la preservazione dello stato sociale.

Non mancano i pericoli in questa vittoria, e alcune accuse non sono inappropriate. C’è in Sarkozy un enorme desiderio di regolare conti, con toni vendicativi. C’è un’ansia di usare politicamente la storia, di denigrare con rancoroso risentimento la memoria autocritica inaugurata da Chirac: un’«abitudine al pentimento» che il nuovo Presidente vuol abolire. Sarkozy è pronto a rischiare conflitti, e quasi sembra suscitarli. È ovvio che quando usò la parola racaille (feccia) per descrivere i comportamenti devianti nelle banlieue, contribuì alle terribili 25 notti di violenza, nel novembre 2005. Il fatto che queste parole siano state ripetute in questi giorni inquieta molti. Così come inquieta il suo appello a «liquidare» la cultura del ’68, che è parte della storia nazionale: il pentimento, in questo caso, è d’un tratto ammesso e la parola liquidare è violenta. Il rischio è quello di suscitare la paura per esserne il pompiere. Un rischio acuito dall’influenza che Sarkozy esercita su stampa e audiovisivo, attraverso tanti editori a lui vicini. Ségolène e Bayrou hanno denunciato queste connivenze.

E qui veniamo al secondo evento cruciale del voto: al fallimento di Ségolène, dei socialisti. La sinistra aveva un’opportunità grande, di vincere. Michel Rocard (socialista riformatore da sempre minoritario) ha detto giustamente che la maggioranza del paese aveva votato contro Sarkozy al primo turno, essendo questa la volontà degli elettori socialisti, della sinistra radicale, e di Bayrou. Se il socialismo francese ha perso, è perché la strategia era inadatta e forse anche la linea della candidata. Col senno di poi, si può dire che la sinistra non s’è veramente preparata a vincere, avendo intuito tardi, e in maniera improvvisata, poco sincera, che da sola non poteva farcela. Non avendo compreso che la vecchia Unione delle Sinistre di Mitterrand, buona per i tempi in cui ci si alleava solo col Pc, era inane a partire dal momento in cui i comunisti crollavano e Bayrou saliva.

Se il socialismo francese avesse intuito tutto ciò, avrebbe cominciato a lavorare in questa direzione non negli ultimi giorni ma molto prima, sin da quando Bayrou ruppe con la destra nelle elezioni europee del ’99. Eppure la verità è apparsa chiara nella campagna: Ségolène sarebbe magari passata al primo turno, ripetevano i sondaggi, ma le forze per battere Sarkozy non le bastavano. Al secondo turno solo la visione del mondo di Bayrou avrebbe vinto, e con ampio margine. Certo, sarebbe stata una mutazione dolorosa per il socialismo: si trattava di divenire socialdemocratici presto, di cambiare programmi, amici. Non avendo agito prima, occorreva farlo a caldo. Si trattava di capire che Ségolène doveva esser qualcosa di più che una originale, combattiva invenzione femminista.

Fin dal 22 aprile la strategia femminista è fallita: la maggioranza delle donne ha votato Sarkozy al primo turno. Alcuni osservano la combattività di Ségolène e dicono che un leader politico è nato, il che è possibile ma non sicuro: il partito e lei stessa ci credono, e forti del 47 per cento puntano sulle legislative del 10 e 17 giugno, sperando di conquistare il parlamento e costringere Sarkozy alla coabitazione. Per il momento, tuttavia, Ségolène non esercita sul socialismo un’autentica leadership. E anche quando si è mostrata veemente e forte, nel duello televisivo con Sarkozy, ha dato prova di debolezza. La sua collera, quando ha denunciato l’immoralità dell’avversario accusandolo d’aver ridotto il numero degli scolari handicappati, era non solo violenta ma artefatta. Un vero leader non scatena putiferi morali per esser smentito subito dopo (gli handicappati scolarizzati sono raddoppiati dopo il governo Jospin). La sinistra non ha sino in fondo voluto vincere le elezioni. Se avesse voluto, si sarebbe comportata con granitica volontà di guardare in faccia le mutazioni francesi e di cambiare. Non ha capito che in politica la parte della necessità è grandissima. Riconoscerlo è servitù gravosa ma la libertà e anche il successo sono a questo prezzo.

Sarkozy si è lungamente preparato. È un politico tenace, studioso, in fondo non ha l’improvvisato arrivismo di Rastignac. È come se la meta per lui fosse una necessità, se non un’avversità. Si può predisporre un destino politico con lo stesso spirito con cui si vive monaci nel deserto o si traversa un dolore. Non a caso c’è una parola, singolare per la cultura politica francese, che Sarkozy usa spesso quando racconta la propria pluriennale conquista: ascesi, che letteralmente vuol dire esercizio spirituale e fisico fatto di isolamento, preghiera, meditazione, perfezionamento e volontà ferrei. La parola araba è gihàd.


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